Mi sembra un buon modo di contraddistinguere la pratica filosofica, soprattutto attraverso la nozione di "campo" in senso (metaforicamente?) spaziotemporale (come luogo "perimetrato" dalle energie intellettuali che vi sono evocate e messe alla prova). Osservo solo che ogni "campo" si dà sempre all'interno di cornici, campi più vasti, ne è "pre-compreso", non se ne può emancipare se non partendo dai loro presupposti per poi metterli in questione nel proprio "focus" (come un campo gravitazionale, ad esempio quello di un buco nero, fa certamente il "suo" lavoro, ma presuppone un "intorno" di stelle collassate e altra "materia" senza di cui non potrebbe sussistere, anche se poi "rielabora" il tutto nel proprio "interno"). Analogamente non credo che una pratica filosofica possa astrattamente o immediatamente emanciparsi dalla "logica" del suo contorno, che, piaccia o non piaccia, è anche, sebbene non solo, "mercantile"....Può metterla in questione, ma non prescinderne del tutto. Inversamente, una pratica che si annunci come "gratuita" dovrebbe mettere in questione certe insidie di una "gratuità" spesso solo apparente, o interessata, o dietro cui si celano narcisismi ed esibizionismi o magari ansie apocalittiche...
Viviamo in questo mondo e in nessun altro, e dunque non possiamo dichiararci alieni alla logica dominante che è appunto quella mercantile. Tuttavia possiamo ritagliarci spazi nei quali quella mercantile non sia la logica dominante, perchè ciò dipende da noi, si tratta di una scelta, non di una qualità interna a quella pratica che chiamiamo filosofica. E' la scelta di creare un evento, uno spazio-tempo dominato da altre logiche. La vera domanda dovrebbe essere: in uno spazio così concepito quali altre logiche saranno dominanti? (Io non esercito alcuna pratica "gratuita". Perchè la gratuità, come il dono sono forme economiche complesse e soggette a quelle insidie che tu stesso opportunamente elenchi. Io vivo la mia vita filosofica "creando spazi". In uno spazio di pensiero si entra e si esce, tutto qui).
Tralascio il fatto che trattasi di un esempio di comunicazione in codice privato, pressoché incomprensibile a un non filosofo e osservo invece che, ancora una volta, c'è un problema di significati delle parole tra chi si muove in questo settore. Io ho sempre dato a "pratica filosofica" il significato di "forma d'agire umana", del genere a cui appartengono l'agire strategico, quello tecnico, e infiniti altri. Questo uso, peraltro, è precedente alla nascita del (confuso) movimento delle cosiddette "pratiche filosofiche", perché era usato da molti filosofi ben prima, e tra questi potrei citare il ben noto Carlo Sini, che lo impiega sistematicamente in "Filosofia e scrittura" del 1994 per denotare l'agire dei filosofi "tradizionali" nel loro lavoro creativo. Le forme d'agire umane, però, si usano alla bisogna, quindi non hanno "obiettivi" che non siano quelli della situazione che affrontano. La pratica del filosofo consiste nell'affrontare "in certo modo" (quello filosofico) il problema che li si para davanti, sia esso lo statuto ontologico dei numeri o lo sconcerto di una consultante di fronte alla improvvisa morte del figlio, e non nell'"aprire spazi di pensiero". Quest'ultima cosa - del tutto legittima ed encomiabile, sia chiaro - mi sembra invece il compito di un operatore culturale, di un riformista morale, di un politico (nel senso alto del termine), ruoli che possono anche coesistere nella stessa persona con quello del filosofo, ma che non vanno con esso confusi. A meno che non si intenda con "filosofo praticante" una figura che unisce diversi di quei ruoli assieme, cosa che può anche essere ma, nel caso, da un lato va specificata bene, dall'altro va distinta dalla "pratica filosofica" che, come dicevo, fin da prima significava - e continua a significare - una cosa assai diversa
Mi sembra un buon modo di contraddistinguere la pratica filosofica, soprattutto attraverso la nozione di "campo" in senso (metaforicamente?) spaziotemporale (come luogo "perimetrato" dalle energie intellettuali che vi sono evocate e messe alla prova).
RispondiEliminaOsservo solo che ogni "campo" si dà sempre all'interno di cornici, campi più vasti, ne è "pre-compreso", non se ne può emancipare se non partendo dai loro presupposti per poi metterli in questione nel proprio "focus" (come un campo gravitazionale, ad esempio quello di un buco nero, fa certamente il "suo" lavoro, ma presuppone un "intorno" di stelle collassate e altra "materia" senza di cui non potrebbe sussistere, anche se poi "rielabora" il tutto nel proprio "interno").
Analogamente non credo che una pratica filosofica possa astrattamente o immediatamente emanciparsi dalla "logica" del suo contorno, che, piaccia o non piaccia, è anche, sebbene non solo, "mercantile"....Può metterla in questione, ma non prescinderne del tutto.
Inversamente, una pratica che si annunci come "gratuita" dovrebbe mettere in questione certe insidie di una "gratuità" spesso solo apparente, o interessata, o dietro cui si celano narcisismi ed esibizionismi o magari ansie apocalittiche...
Viviamo in questo mondo e in nessun altro, e dunque non possiamo dichiararci alieni alla logica dominante che è appunto quella mercantile. Tuttavia possiamo ritagliarci spazi nei quali quella mercantile non sia la logica dominante, perchè ciò dipende da noi, si tratta di una scelta, non di una qualità interna a quella pratica che chiamiamo filosofica. E' la scelta di creare un evento, uno spazio-tempo dominato da altre logiche. La vera domanda dovrebbe essere: in uno spazio così concepito quali altre logiche saranno dominanti?
RispondiElimina(Io non esercito alcuna pratica "gratuita". Perchè la gratuità, come il dono sono forme economiche complesse e soggette a quelle insidie che tu stesso opportunamente elenchi. Io vivo la mia vita filosofica "creando spazi". In uno spazio di pensiero si entra e si esce, tutto qui).
Tralascio il fatto che trattasi di un esempio di comunicazione in codice privato, pressoché incomprensibile a un non filosofo e osservo invece che, ancora una volta, c'è un problema di significati delle parole tra chi si muove in questo settore.
RispondiEliminaIo ho sempre dato a "pratica filosofica" il significato di "forma d'agire umana", del genere a cui appartengono l'agire strategico, quello tecnico, e infiniti altri. Questo uso, peraltro, è precedente alla nascita del (confuso) movimento delle cosiddette "pratiche filosofiche", perché era usato da molti filosofi ben prima, e tra questi potrei citare il ben noto Carlo Sini, che lo impiega sistematicamente in "Filosofia e scrittura" del 1994 per denotare l'agire dei filosofi "tradizionali" nel loro lavoro creativo.
Le forme d'agire umane, però, si usano alla bisogna, quindi non hanno "obiettivi" che non siano quelli della situazione che affrontano. La pratica del filosofo consiste nell'affrontare "in certo modo" (quello filosofico) il problema che li si para davanti, sia esso lo statuto ontologico dei numeri o lo sconcerto di una consultante di fronte alla improvvisa morte del figlio, e non nell'"aprire spazi di pensiero". Quest'ultima cosa - del tutto legittima ed encomiabile, sia chiaro - mi sembra invece il compito di un operatore culturale, di un riformista morale, di un politico (nel senso alto del termine), ruoli che possono anche coesistere nella stessa persona con quello del filosofo, ma che non vanno con esso confusi.
A meno che non si intenda con "filosofo praticante" una figura che unisce diversi di quei ruoli assieme, cosa che può anche essere ma, nel caso, da un lato va specificata bene, dall'altro va distinta dalla "pratica filosofica" che, come dicevo, fin da prima significava - e continua a significare - una cosa assai diversa