[In:
Apocalisse. Modernità e fine del mondo, a
cura di N. Novello, Liguori Editore, Napoli, 2008, pp. 95-106]
STEFANO ZAMPIERI
PENSARE AUSCHWITZ. APOCALISSE DELL’UMANO
C'è un quadro di Klee che s'intitola Angelus
Novus. Vi
si trova un angelo che sembra
in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli
occhi spalancati, la bocca aperta, le ali
distese. L'angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al
passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola
catastrofe, che accumula senza tregua
rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l'infranto. Ma
una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così
forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge
le spalle, mentre il cumulo delle
rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il
progresso, è questa tempesta.
Walter Benjamin, Tesi di Filosofia della storia, tesi n.
9
PERCHÉ AUSCHWITZ
Auschwitz non è un angolo morto della storia, non è una
svolta insensata, un’eccezione, un elemento fuori scala. Nulla di tutto questo,
piuttosto una situazione estrema per l’umanità stessa. Auschwitz rappresenta il
punto limite, il punto nel quale tutte le premesse di una storia, di una
civiltà, diventano effettive realtà, nel quale tutte le condizioni si
realizzano, il luogo in cui tutto il passato diviene futuro, ed il futuro si fa
presente in una sacca del tempo che non ne rappresenta l’eccezione ma piuttosto
la proiezione, non il copione sbagliato finito per errore sulla scena della storia,
ma l’anticipazione che porta in atto la potenza di condizioni reali.
Pensare Auschwitz, in questo senso è come entrare in una
macchina del tempo (e delle possibilità) in cui vediamo poste in essere le
condizioni della nostra civiltà. Quel che è accaduto allora, è qualcosa che sta
nel nostro presente, è la verità disvelata del nostro presente, è il punto in
cui il presente si annoda con il passato per mettere in luce il suo destino.
L’idea poco rassicurante che pensare Auschwitz non sia fare
storia ma piuttosto pensare il nostro presente nella dimensione in cui si
sporge verso il futuro, deve restare una idea limite. Pensare al limite è
sempre esperienza del limite stesso del pensiero, ma qui non si allude
semplicemente al confine della finitezza che non ci consente di andare oltre la
nostra natura, ma si intende evidenziare anche un certo limite di possibilità
che come civiltà abbiamo imboccato, per molti motivi e per effetto di
innumerevoli condizioni storiche, economiche, culturali, sociali, politiche.
Qui ci poniamo sulla scena del presente, e cerchiamo di fissarlo con fermezza,
ma per farlo dobbiamo aggirarlo astutamente perché il presente non si lascia
fissare così come se niente fosse, esso si ritrae, si nasconde, il suo pudore è
all’origine della nostra cecità di uomini del secondo millennio.
Noi, dunque, tentiamo questa operazione aggirante: osservare
il presente attraverso un Evento catalizzatore, Auschwitz, nel quale le tracce
del nostro tempo appaiono ingigantite come sotto una lente di ingrandimento.[1]
Ad Auschwitz si è realizzato un progetto di ampie dimensioni
che ha coinvolto l’intera struttura amministrativa burocratica di una civiltà
avanzata e culturalmente ricca, ed ha utilizzato tutti gli strumenti di una
moderna società industriale: il campo di sterminio appare dunque costruito come
una azienda, gestito in termini di produzione e di efficienza, organizzato
secondo criteri di massima efficacia col minimo dispendio; il suo prodotto,
l’annientamento dell’uomo, è misurato in termini quantitativi e valutato
secondo principi economici; il suo linguaggio, è quello della gestione aziendale.[2]
Auschwitz nasce in questo contesto, forzando le potenzialità
tecnologiche amministrative e burocratiche della società moderna, nella
direzione di un fine mostruoso: l’annientamento di una parte dell’umanità, fine
che, a ben guardare, anche questo appartiene di diritto alla civiltà
occidentale, fa parte della sua storia, attraverso tutte le varianti razziste
dell’etnocentrismo, dell’imperialismo, del colonialismo, che nel corso della
sua storia si sono sempre manifestate in termini di annientamento dell’altro.
Sotto questo profilo, dunque, la “soluzione del problema
ebraico” rappresenta la variante europea di una tendenza connaturata alla
società occidentale all’annientamento dell’altro come base della sua
affermazione, e in questo senso appartiene per un verso alla stessa famiglia di
altri genocidi (l’annientamento dei popoli andini o dei nativi americani, o
degli zingari o delle popolazioni africane o amazzoniche…) ma al contempo
possiede una sua specificità assoluta in quanto rappresenta l’annientamento di
un altro interno alla stessa civiltà
occidentale europea, ad essa connaturato, e rispetto ad essa indistinguibile.
Ciò che con l’ebreo si è tentato di annientare, è stato prima di tutto una
certa idea di uomo occidentale, che in qualche modo è parsa (e pare)
incompatibile con l’affermazione assoluta della civiltà occidentale stessa.[3]
Auschwitz annuncia la realizzazione del sogno di una società
tecnologica razionalmente organizzata. Ma al contempo, osservando l’Evento ci
rendiamo conto con orrore che questo grande progetto occidentale tanto più si realizza
e si afferma quanto più inessenziale, superfluo, disumanizzato, mercificato,
reificato come direbbero alla Scuola di Francoforte, vi appare l’uomo.
Pensare Auschwitz, dunque, significa pensare il disastro
verso cui la società odierna è avviata: l’affermazione di questa società rappresenta
infatti anche la trasformazione dell’umano, sempre più superfluo, inessenziale,
sempre più cosa e meno uomo.
Il disastro che Auschwitz annuncia con la sua presenza nel
nostro passato è il venir meno dell’umanità dell’uomo, esso annuncia l’apocalisse dell’umano di cui come
Evento è soltanto una momentanea e limitata anticipazione.
Pensare Auschwitz, dunque, costringe ad un atto di
radicalità nei confronti del nostro tempo e della nostra condizione perché in
Auschwitz il nostro destino si vede, appare come orrida prefigurazione, affiora
come una immagine dal fondo dell’acqua.
C’è una osservazione
essenziale che Gunther Anders ci propone e su cui dobbiamo riflettere. Se ci si
chiede che cosa ha reso possibile Auschwitz, egli afferma, accanto alla discrepanza tra ciò che la
tecnica ci ha reso capaci di fare e quel che riusciamo a immaginare, a
percepire delle nostre azioni, vi è la “macchinizzazione (o apparatizzazione)
del nostro mondo moderno”[4],
ciò indica in primo luogo il fatto che ognuno di noi ha perso la consapevolezza
del processo produttivo generale fissato com’è sulla piccola porzione di
attività che gli appartiene. Ma al contempo ciò significa che il mondo delle
macchine puntando al principio del massimo rendimento tende ad escludere ciò
che non è ad esso strettamente funzionale: “Ciò a cui le macchine aspirano è
una situazione in cui non esista più niente che non sia al loro servizio,
niente che non sia «co-meccanico», nessuna «natura», nessun cosiddetto «valore
superiore» e anche nessun uomo (poiché per esse avremmo valore soltanto come
squadre di servizio o di consumo).”[5]
L’Apparato tecnico scientifico punta dunque alla
realizzazione di una sorta di macchina mondiale nella quale l’uomo è previsto
solo come operatore, o come consumatore, in entrambi i casi cioè come parte
funzionale privata di ogni tratto di imprevedibile umanità. È questa logica che
spiega quanto accadde ad Auschwitz, la distruzione industriale dell’uomo, la
condiscendenza burocratica, la razionalità perversa. Ma se Auschwitz è un
evento passato e definitivamente chiuso, questa stessa logica è invece del
tutto viva, è quella che ancora oggi
guida e domina il nostro mondo, più di quanto potesse farlo negli anni ’40 del
secolo scorso.
Si tratta dunque di una realtà che non appartiene al nostro
passato ma bensì al nostro presente e al nostro futuro. È la realtà in cui
viviamo, e se Anders intravedeva soltanto “l’alba del totalitarismo meccanico”[6]
noi oggi, sulla soglia del nuovo millennio, possiamo vederne il giorno pieno, e
ci resta solo da sperare che la macchina mondiale non sia ancora del tutto
padrona di noi.
In questo senso possiamo dunque affermare convintamente
insieme ad Anders che “Auschwitz ha impresso il suo marchio alla nostra epoca,
e ciò che è accaduto là potrebbe ripetersi ogni giorno”, nella misura in cui
ovunque incombe il peso di un “totalitarismo tecnico”[7]
che è resistito al crollo di tutti gli altri totalitarismi e sfugge al nostro
pensiero critico perché ci viviamo immersi.
Sia chiaro, non si tratta di indicare qualche conseguenza marginale del
grande processo di civilizzazione tecnologica nel quale siamo collocati, non si
tratta di evidenziare degli spiacevoli ma inevitabili effetti secondari di
esso, né di discutere se tali effetti siano redimibili, o contenibili, o valgano
comunque più o meno il prezzo del beneficio che fino ad oggi abbiamo ottenuto
dal mondo della tecnica e che contiamo di ottenere ancor più in futuro. La
situazione non è questa. Non si tratta affatto di qualche spiacevole effetto
collaterale, quanto piuttosto di uno sviluppo complessivo, di una prospettiva,
di una direzione, di un fine nel quale l’uomo non è previsto, se non attraverso
una metamorfosi che lo rende sempre meno umano, sempre meno padrone di sé e
sempre più servo delle proprie macchine, sempre più replica esso stesso di un
modello che non è umano: consumatore di merci, polo magnetico di bisogni,
spettatore di una realtà virtuale, percentuale statistica, elemento di una
casistica, frammento di un sistema del quale non ha più il controllo.
Pensando Auschwitz tutto ciò appare totalmente, a condizione
si comprenda che Auschwitz è proprio il frutto di questa società, non di
un’altra, e che il nazismo non rappresenta una diabolica perversione, ma una
fuga in avanti, un precipitato di elementi che porta ad una condizione estrema
dalla quale ci si difende con le moderne democrazie occidentali che dunque
rappresentano una garanzia solo di fronte al suo contenuto di violenza diretta
ed esplicita ma non sono in grado di
cogliere quelle condizioni che stanno alle spalle tanto dei
totalitarismi quanto delle democrazie stesse. E che ora determinano quella situazione
di disagio diffuso con la quale ci troviamo
a fare i conti ogni giorno e che ci trascina, come individui e come civiltà,
verso una apocalisse ben peggiore di ogni totalitarismo perché, per ora,
sembriamo incapaci di riconoscerne i tratti e quindi di approntare qualsiasi
azione di difesa.
Mentre dal totalitarismo così come l’abbiamo conosciuto
siamo in grado di difenderci, rispetto alle sue condizioni profonde siamo
indifesi, e quindi destinati ad essere travolti dalle nostre stesse
metamorfosi.
L’UOMO DI AUSCHWITZ
Pensare Auschwitz, dunque, equivale a pensare la modernità.
Lo si vede benissimo per esempio (ma è un esempio non casuale) rispetto al tema
generale dell’identità umana: il
Campo ci pone di fronte ad una scena nella quale accade qualcosa di
profondamente diverso da quel che tradizionalmente abbiamo pensato e da quel che per istinto acquisito ci
verrebbe da fare. Non basta più pensare l’uomo come l’individuo
autosufficiente, l’uomo cartesiano che in fondo basta a se stesso perché trova
in se stesso il fondamento del proprio essere e la ragione del proprio
esistere. Pensando Auschwitz questo modello dell’individuo moderno viene
portato alle sue estreme conseguenze e così appare in tutta la sua debolezza:
messo alla prova della situazione estrema nessuno appare più bastare a se stesso,
nessuna interiorità, nessuna coscienza, sembra capace di affrontare la nuda
vita che si realizza nel campo, nessuna individualità è più sufficiente. Il
progetto degli aguzzini è proprio quello di rompere ogni legame, anche quelli
più stretti, il padre che ruba il pane al figlio, la madre che uccide la sua
creatura, di cancellare ogni relazione, di trasformare l’uomo in un “pezzo”, un
numero, un oggetto rigidamente e artificiosamente isolato, dominato solo dall’istinto di sopravvivenza anche a
prezzo della vita altrui. Questo progetto si realizza nella gran parte, ed è proprio
ciò che trasforma gli individui in una massa facile da manovrare, in una folla
priva di volontà. Dall’altra parte, tuttavia, dalle parole dei testimoni noi
apprendiamo come l’isolamento non si realizzi mai interamente: esso si manifesta nelle forme esteriori dei
comportamenti, ma non è possibile chiudere le porte e le finestre della propria
coscienza, non è possibile cancellare la presenza dell’altro, buona, cattiva, solidale,
conflittuale, agonistica… a meno di non trasformarsi in quel personaggio ben
noto ad Auschwitz, che i sopravvissuti chiamano il “Muselmann”, cioè colui che si chiude autisticamente in sé
rinunciando a qualsiasi reazione esteriore, a qualsiasi atto di sopravvivenza e
a qualsiasi agire, e si siede ciondolante in attesa della morte. Solo il “Muselmann”
realizza interamente il progetto
dell’isolamento totale dell’individuo, ma il “Muselmann” è un uomo morto, è un
uomo vivo già morto.
Il Campo tenta di portare dunque al suo estremo limite il
sogno cartesiano di un individuo autosufficiente, solitario, autonomo,
fondamento a se stesso. Ma nel realizzarsi quel progetto mostra la propria
intima tragicità: il suo frutto più alto, non è più un uomo vivo, pieno e
autentico, ma solo uno schiavo, un automa di carne, un morto vivente[8].
Osserviamo il nostro futuro in quell’immagine…
Ancora, Auschwitz ci costringe a pensare la natura della libertà individuale non solo in termini
di costrizione e di limiti, ma anche in quelli della possibilità. La società di
Auschwitz esprime il progetto della funzionalità assoluta attraverso la
cancellazione delle possibilità individuali che si trovano non soltanto ridotte
alle funzioni elementari della sopravvivenza ma al contempo annullate di fatto
dalla imprevedibilità di ogni atto, dalla impossibilità di sviluppare
strategie, di costruire progetti, di fronte allo strapotere di un destino, o di
una casualità che non consente né giustizia né calcolo delle conseguenze: ogni
atto può portare alla morte, nessun atto può garantire sicurezza. In questa
dimensione, la libertà non è più soltanto ridotta dalla condizione di cattività
e di prigionia, perché in quanto tale essa sarebbe conservata almeno come
ideale e come possibilità, ma essa è piuttosto annullata come dimensione reale
dalla cancellazione dei rapporti tra l’uomo e gli eventi. Nessuna previsione,
nessuna progettualità è più possibile. Ciò che appare devastato è il sistema di
coordinate, che rende il reale una rete di possibilità. La libertà non appare
semplicemente ridotta da una costrizione esterna, il filo spinato, le SS, gli
aguzzini, ma è resa priva di senso da una mutazione radicale dell’essere nel
mondo dell’uomo, della relazione tra l’uomo e il suo mondo.[9]
Ancora una volta proviamo a cercare noi stessi, il nostro futuro, in questa
immagine…
IL DISAGIO DELLA CIVILTÀ
Chiunque può constatare intorno a sé un oceano di disagio
quasi un ambiente nel quale tutti viviamo immersi come pesci nell’acqua. E che
si presenta via via come una radicale incertezza di fronte alle grandi
decisioni da prendere, che siano davvero grandi o che lo sembrino solamente; o
come senso di impotenza di fronte alle sventure del mondo, di fronte
all’ingiustizia, alla libertà costretta, al diritto violato; o ancora come
disorientamento di fronte ad una rete di relazioni che non siamo più in grado
di tenere insieme saldamente e che pare ogni volta strapparsi inesorabilmente
di fronte ad un lutto o ad una separazione; o come l’incapacità di fissare
limiti e di aprire rispetto ad essi un campo di possibilità in base al quale
elaborare dei progetti; o semplicemente come quel timore e tremore che coglie
l’esistenza ad ogni passaggio, il fanciullo che diviene adulto, l’adulto che
diviene maturo, e l’uomo maturo che diviene vecchio, estranei come siamo a noi
stessi, inabili a disegnare la nostra stessa figura di uomini in un tempo e in
uno spazio.
Ecco, forse questo nostro disagio altro non è che
l’anticipazione dell’apocalissi dell’umano verso cui siamo avviati. Ne
rappresenta il segno più evidente. Così possiamo leggere in tutta la varietà
delle nostre inadeguatezze e delle nostre incertezze, la nostra incapacità di
adattamento ad una condizione che ci vuole trasformati e sostanzialmente
superflui, separati gli uni dagli altri, strappati dalla rete della socialità che non è più intesa come
parte costitutiva del nostro essere ma come uno sfondo con il quale confliggere;
sempre più privi di quella libertà
che non si realizza laddove non è più possibile un rapporto di previsione e di
scambio con la realtà.
Di qui si articola quella vasta area del disagio per
indicare la quale possiamo soltanto segnalare una serie di luoghi che si
sovrappongono confusamente, e non si prestano ad una esposizione sistematica.
La quale, del resto, non è affatto importante, perché comunque sappiamo che
sullo sfondo incontriamo sempre la nostra ridotta attitudine a vivere l’identità
personale come un tessuto di relazioni, il fallimento del nostro sentimento di libertà
di fronte ad un mondo incomprensibile, le incertezze relative
all’individuazione dei nostri limiti e alla configurazione del progetto di vita
se non addirittura lo sgomento di fronte al nostro essere nel mondo e alle
trasformazioni continue che implica.
Che tutto questo possa sembrare inutilmente catastrofico è
facile pensarlo tanto quanto è difficile fare il passo dal nostro disagio
individuale ad una condizione collettiva che ci sfugge da tutte le parti, che
non riusciamo a fissare nettamente. Ma la natura del disagio è dentro l’essenza
stessa del nostro tempo: questo è l’insegnamento che ci proviene dal
pensare Auschwitz in modo adeguato.
Perché le diverse attualità del disagio in verità sono collegate direttamente a
questo meccanismo di sviluppo, a questo processo di affermazione tecnologica
che presuppone una radicale trasformazione dell’uomo, la rottura delle sue
costitutive relazioni, la sua metamorfosi in oggetto, in parte funzionale della
macchina, in cosa perfettamente sostituibile, la cui ragion d’essere è nella
sua perfetta adattabilità ad un processo del quale non è più il fine ma solo il
mezzo.
Così ci troviamo a convivere con una realtà quotidiana di
disagio che in certo modo struttura e caratterizza la nostra civiltà in quanto
segno evidente di una condizione che è individuale e collettiva insieme.
Rispetto alla quale è urgente riaprire un dialogo, così come tenta di fare ad
esempio la Consulenza Filosofica a condizione, naturalmente, che essa venga
intesa non come un problem solving,
quanto piuttosto come una occasione per rimettere nel discorso il disagio
strappandolo alle letture terapeutiche, il cui modello è quello del gesto
medico che cura le malattie ma ignora l’uomo. Allo stesso tempo il disagio deve
essere sottratto alle silenziose e ossessive macerazioni interiori del singolo
che non si sa più interrogare, né si sa dare risposte, che in generale non è
più capace di dialogo interiore. Appare allora la necessità di costruire un
intreccio nel quale la dimensione della riflessione individuale, cioè la vita esaminata, si leghi ad una serie di pratiche collettive di riflessione.
Perchè il disagio del singolo esige di essere messo alla prova della realtà
condivisa dalla comunità.[10]
Partire da Auschwitz per riaprire questo dialogo, è soltanto
una possibilità, una delle possibilità, quella che certamente a me, per la mia
storia personale, per le mie conoscenze, per i miei studi, per le mie letture,
per la mia sensibilità (per tutte le forme apparenti e sotterranee del mio disagio) risulta essere
necessario.
LA TESTIMONIANZA
C’è ancora qualcosa che ci giunge dal pensare Auschwitz. Rispetto
ai molti eventi tragici dell’ultimo secolo, infatti, Auschwitz presenta due
ordini di singolarità. Il primo, come si è detto, intrinseco all’evento, che si
caratterizza per il fatto di non essere il portato marginale di altri fenomeni
storici, ma un progetto in sé ampiamente elaborato e definito sulla base di
tutte le competenze tecnologico burocratico amministrative della società
moderna, applicazione di tali competenze al processo di distruzione di un
nucleo umano come tale non cioè per
una sua colpa (vera o immaginaria) né quale mezzo di un fine superiore, ma per
un mero dato biologico immutabile.
Ma il secondo ordine di singolarità di Auschwitz sta nel
fatto che tale evento ha messo alla prova la capacità umana di fare esperienza.
Non solo perché ha prodotto innumerevoli testimonianze, cosa che anche altri
eventi del ‘900 hanno prodotto ( si pensi solo alla Prima Guerra Mondiale o al
Gulag) ma soprattutto e ancor più perché ha posto l’interrogativo pressante
rispetto alla possibilità di essere
testimoni di un Evento decisivo per l’umanità.
Auschwitz mette, infatti, alla prova la nostra capacità di
testimoniare e quindi, ancora una volta, ci costringe a pensare alla natura di
questo gesto, alla sua consistenza, alla ragione della sua urgenza, a quel che
determina rispetto all’Evento.
Forse anche dalla difficoltà che oggi manifestiamo di
testimoniare gli eventi del nostro tempo trova alimento questo nostro disagio
collettivo. Ci accontentiamo di testimonianze già scritte, di modelli già
pronti che sembrano toglierci dall’imbarazzo di fronte ai fatti che altrimenti
dovremmo interrogare in altro modo, in modo “testimoniale” per così dire, cioè
appunto come partecipi e non semplici osservatori estranei. Il testimone è tale
perché è lì anche se non ne è protagonista, ma è proprio lì, dentro l’evento, e
l’evento è qualcosa che gli appartiene.
Non siamo più capaci di testimoniare di fronte al nostro
tempo. È l’accusa che poniamo a noi stessi pensando Auschwitz. Se è vero che la
memoria tramandata oramai non ci appartiene più, perché più nulla ci
tramandiamo di persona in persona, in quanto la società della rappresentazione
si è assunta l’onere di tramandare per noi attraverso le forme cangianti delle
mode e delle culture, è anche vero che la nostra memoria personale, in quanto
esperienza vissuta è altrettanto ammutolita di fronte ad una generale incapacità
di ascolto.
Questo significa aver perso la capacità di testimoniare, e
questo, soprattutto, è quel che il pensiero di Auschwitz ci suggerisce, un
bisogno di testimoniare assoluto, una necessità che è sempre la prima parola
del reduce e l’ultima della vittima.[11]Se una via da seguire c’è, una via che vada in
direzione avversa, che possa cioè rallentare la caduta nell’abisso, essa si
trova proprio lì, nella nostra ancora confusa e incerta capacità di essere
testimoni del nostro tempo. Ma testimoniare
il proprio tempo rischia di essere un’espressione retorica. Non si tratta,
infatti, solo di aprire gli occhi su quel che succede, significa altrettanto
saper raccontare noi stessi, ovvero saper entrare in rapporto con l’altro
presenti e pensanti, assumendo un ruolo di scambio e d’ascolto reciproco,
perché la narrazione di sé non resti il solito monologo, ma si trasformi in
colloquio nello spazio e nel tempo.
APOCALISSI DELL’UMANO
Che un certo tono apocalittico faccia parte dei luoghi
comuni della nostra civiltà è cosa certa, e che dunque anch’esso rischi di
perdersi nel generale chiacchiericcio della nostra cultura è una possibilità
che bisogna mettere nel conto. Ogni testimonianza, purtroppo, rischia di
diventare spettacolo.
D’altra parte “tono apocalittico” è quello che rompe la
tonalità familiare, un modo per tagliare la parola, una parola considerata oramai
inadeguata e insufficiente, perché velante, oscurante, rispetto ad una verità
che deve essere manifestata, esposta.[12]
Verità che però qui non è presentata come “rivelazione”, bensì come frutto di
esperienza, come il frutto di una testimonianza che si tratta in primo luogo di
saper ascoltare. Che questo tipo umano sia destinato al disastro è quanto
assumiamo come fine e termine del nostro discorso. Ma non è tanto un
atteggiamento pessimistico e decadente che ci muove, quanto piuttosto un grande
sentimento di rabbia, per tutto il bene che potrebbe esserci e non c’è, per
tutto il disagio, la sofferenza, la difficoltà, il dolore, lo spreco di vita,
di energia, di talento, di intelligenza che questa condizione sta determinando
nell’umanità che ci circonda, e dunque in noi stessi.
Se vogliamo, pensare Auschwitz come una esperienza fondamentale della nostra
modernità, se vogliamo pensarlo per cercare il senso del nostro disagio di
oggi, non possiamo accontentarci di una lettura essenzialmente morale come quella
che si realizza nel corso delle commemorazioni. È necessario capire la
radicalità di quel che Auschwitz ha messo in gioco, è necessario capire che “i
campi segnano l’ingresso in una nuova era politica, quella della possibile fine
della civiltà e della specie umana. In questo senso Auschwitz, catastrofe
fondamentale del secolo, oltrepassa l’ambito dell’identità ebraica per porre la
questione più generale della sopravvivenza dell’umanità intera.”[13]
In definitiva, dunque non è possibile pensare Auschwitz se non si è in grado di
porre una serie di interrogativi fondamentali sul nostro presente e di mettere
in discussione l’archeologia della nostra modernità, i suoi limiti e le sue
trappole, i condizionamenti di una società individualistica volta, insieme, all’esaltazione
del singolo e al suo progressivo isolamento, la revisione progressiva dei
nostri margini di libertà nel quadro di una sempre più debole capacità di
interazione col mondo.
Dice benissimo Zygmunt Bauman: “L’Olocausto fu pensato e
messo in atto nell’ambito della nostra società razionale moderna, nello stadio
avanzato della nostra civiltà e al culmine dello sviluppo culturale e umano:
ecco perché è un problema di tale società, di tale civiltà e di tale cultura.”[14]
Un problema, aggiungo io, interamente aperto di fronte a noi, fonte del nostro
disagio e anticipazione di quella apocalisse verso cui precipitiamo.
[1] Non siamo soli in questo
cammino, ci accompagnano almeno alcuni pensatori più sensibili, Theodor W.
Adorno, Hannah Arendt, Gunther Anders, Maurice Blanchot, che hanno saputo
collocare Auschwitz nel posto che gli spetta all’interno della riflessione sul
destino dell’uomo contemporaneo. Sul ruolo degli intellettuali in questo
contesto si vedano gli studi di Enzo Traverso, Auschwitz e gli intellettuali. La Shoah nalla cultura del dopoguerra,
Bologna Il Mulino, 2004, che è la versione italiana di un originale francese in
parte diverso, L’Histoire déchirée. Essai
sur Auschwitz et les intellectuels, Paris, 1997, e poi Gli ebrei e la Germania. Auschwitz e la “simbiosi ebraico-tedesca”,
Bologna, Il Mulino, 1994, tit. or. Les
juifs et l’Allemagne. De la “symbiose judéo-allemande” à la mémoire d’Auschwitz,
Paris, 1992
[2] Su questo tipo di lettura
si vedano W. Sofsky, L’ordine del
terrore. Il campo di concentramento, Roma-Bari, Laterza, 2004, tit. or., Die Ordnung des Terrors. Das
Konzentrationslager, Frankfurt am Main, 1993 e Z. Bauman, Modernità e olocausto, Bologna, Il
Mulino, 1992, tit. or., Modernità and the
Holocaust, Oxford, 1989
[3] Queste tematiche sono
state affrontate con grande lucidità da Enzo Traverso in La violenza nazista. Una genealogia, Bologna, Il Mulino, 2002
[4] G. Anders, Noi figli di Eichmann, Firenze La
Giuntina, 1995, p. 53; tit. or. Wir Eichmannsöhne, München, 1964, 1988
[5] G. Anders, Noi figli di
Eichmann, cit., p. 57
[6] G. Anders, Noi figli di
Eichmann, cit., p. 62
[7] G. Anders, Noi figli di
Eichmann, cit., p. 65 Sul rapporto tra la tecnica e il destino della civiltà è
fondamentale U. Galimberti, Psiche e
techne. L’uomo nell’età della tecnica, Milano, Feltrinelli, 1999
[8] Per una lettura del tema
della relazione nel Lager rinvio al mio saggio Il flauto d’osso. Lager e
letteratura, Firenze, La Giuntina, 1996
[9] Una rappresentazione
straordinariamente efficace di questa impossibilità radicale di progettare la
propria esistenza si può leggere in un singolare romanzo di G. Perec, W o il ricordo d’infanzia, Torino,
Einaudi, 2005, tit. or., W ou le souvenir
d’enfance, Paris, 1975
[10] Su questo intreccio che
caratterizza la Consulenza Filosofica intesa come pratica dialogica a due ma
anche come attività di Pratica Filosofica di gruppo si veda il mio, L’esercizio della filosofia, Milano,
Apogeo, 2007
[11] Sul tema fondamentale
della testimonianza, oltre al mio già citato Il flauto d’osso. Lager e letteratura, segnalo il testo di A.
Wieviorka, L’era del testimone,
Milano, Raffaello Cortina Editore, 1999, tit. or., L’ére du témoin, Paris, 1998;
G. Agamben, Quel che resta di
Auschwitz. L’archivio e il testimone, Torino, Bollati Boringhieri, 1998, e
G. Bensoussan, L’eredità di Auschwitz.
Come ricordare?, Torino, Einaudi, 2002, tit. or., Auschwitz en héritage? D’un bon usage de la mémoire, Paris, 1988
[12] Cfr. J. Derrida, Di un tono apocalittico adottato di recente
in filosofia, in AA.VV., Di-segno, a cura di G. Dalmasso, Milano, Jaca
Book, 1984, pp.107-143, tit. or., D’un
ton apocaliptyque adopté naguére en philosophie, Paris, 1983
[13] G. Bensoussan, L’eredità di Auschwitz. Come ricordare?
cit., p. 111
[14] Z. Bauman, Modernità e Olocausto, cit., p. 11
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