SAGGEZZA E VIRTÙ NELLA PRATICA FILOSOFICA
INQUADRAMENTO
DELLA QUESTIONE
a) La nozione di filosofia.
Ciò che è da
chiarire è che la filosofia è una, è quella che nasce in Grecia molti secoli
fa, e che possiede una lunga storia, una tradizione, un corpus di autori, di
testi.
Ma non basta, la
filosofia si è realizzata nel corso del tempo attraverso pratiche differenti, (una pratica è un insieme di rituali, e di
linguaggi, di comportamenti e di attese) oggi la pratica dominante della
filosofia è quella che la intende come una disciplina
di studio e di ricerca, e che si materializza nelle aule scolastiche e universitarie,
e nell’editoria specialistica, e che si presenta per lo più nella forma della
conferenza o della lezione frontale, e che, infine, fa uso di un linguaggio
specialistico, talvolta molto settoriale (involuto).
Se questa è la
pratica attraverso cui noi tutti siamo stati abituati vivere e comprendere la
filosofia oggi bene la nostra proposta è quella di mettere in luce la
possibilità di una pratica filosofica di natura differente ciò che appunto chiamiamo
pratica filosofica che è nient'altro
che una modalità differente di realizzare la filosofia, una modalità differente
significa una diversa modalità di
presentazione, un diverso linguaggio, scopi differenti.
Possiamo dunque
cominciare a pensare a una nuova dimensione, nella quale la filosofia si
realizza non più soltanto attraverso la trasmissione accademica del sapere, né
attraverso la lezione frontale, né attraverso la diffusione di una parola
sapiente rivolta ad ammaestrare un pubblico assetato di verità.
Dobbiamo pensare delle
attività filosofiche che si realizzano in modalità differenti, alcuni parlano
di un ritorno all’antico cioè al modello originario socratico quello del
filosofo che va al mercato, va in piazza, va nella palestra, a parlare con la
gente comune, con le persone, non
semplicemente ed esclusivamente con gli altri filosofi. Un filosofo dunque che
va a porre questioni, fare domande, interrogare, talvolta anche a mettere in crisi
le certezze comuni, un filosofo che non ha risposte preconfezionate e non ha
soluzioni facili, non ha strategie
vincenti, [altre pratiche oggi magari alla moda che promettono di diventare
forti, belli, aggressivi, vincenti, venditori, ecc. in quattro lezioni…] ma una
attitudine interrogativa attraverso la
quale provare a vivere diversamente l’esistenza.
b) La dimensione della pratica filosofica.
All'interno di
questa nuova dimensione possiamo collocare differenti attività a partire da
quella che ha suscitato maggiore interesse, maggiore curiosità e anche, forse,
le maggiori perplessità e cioè la consulenza
filosofica individuale a seguire poi con l'attività di gruppo, il laboratorio
di pratica filosofica di cui faremo esperienza questa mattina, la P4C ma anche il dialogo socratico, la comunità
di ricerca, l’intervista filosofica
e altre possibili varianti da scoprire e da inventare della pratica.
Modalità pratiche
che possono essere realizzate in ambienti e in situazioni molto diversi, tanto all’interno
della scuola, ad esempio, quanto all'interno del mondo professionale, del mondo del lavoro, quanto all'interno
di enti e associazioni, in tutte le
occasioni, in tutte le situazioni nelle quali sia opportuno o necessario fare
una operazione collettiva di rischiaramento delle idee, fare una operazione di
condivisione di valori, fare una operazione di incontro collettivo di un gruppo,
fare una operazione di confronto, fare una operazione di fissazione di
obiettivi e di interrogazioni rispetto alla propria realtà, e quindi anche di
messa sotto esame dei propri valori personali e collettivi.
Ciò che caratterizza
queste diverse attività può essere riassunto in almeno tre formule molto
semplici:
1. alla base
naturalmente di tutto vi è il principio che la filosofia non è più soltanto
parola di verità e di auctoritas , ma essa si esprime prima di tutto nella
forma del con - filosofare ovvero un
discorso che si produce insieme, ovvero
una riflessione che nasce dal dialogo,
ma non basta.
2. Il secondo elemento
fondamentale in tutte queste pratiche (e che le accomuna tutte) certamente è il
fatto che esse si fondano su di un linguaggio
di esperienza, piuttosto che su quello del concetto e della storia,
naturalmente senza ignorare né l'una né l'altra e anzi servendosi spesso e
volentieri proprio della dimensione concettuale come proprio riferimento, ma
bisogna capire il modo in cui la pratica filosofica pensa i concetti che è un
modo diverso da quello cui siamo abituati pensando alla filosofia della
tradizione.
3) Il terzo elemento
è che le pratiche filosofiche hanno
natura trasformativa. Entrare in una pratica, significa esercitarsi a
mettere sotto esame la vita, a fare quel passo indietro che ci consente di
esercitare l’arte del pensiero e vedere la vita da un’altra prospettiva. Ma
questo spostamento non avviene senza conseguenze, esso di per sé produce un
cambiamento, una trasformazione, che può essere variamente interpretata e che
può avere significati diversi, quel che è certo è che la pratica filosofica contribuisce
a fare di noi persone diverse, di fronte a noi stessi e di fronte agli altri .
LO SPECIFICO DEL
COLLOQUIO FILOSOFICO
Vorrei spendere due
parole almeno per chiarire alcuni possibili equivoci che possono stare sullo
sfondo del nostro ragionamento, equivoci che talvolta sono generati da una certa
superficialità giornalistica, sui media domina la tendenza a cercare lo scoop,
a cercare la notizia d'effetto quella che può aprire un articolo quella che può
costituire un titolo efficace e non sempre, c’è la pazienza di indagare
adeguatamente ciò di cui si parla, non sempre c’è la pazienza di andare oltre
la battuta, lo slogan facile. Per questo vorrei provare a questo punto a
smentire alcuni equivoci che so molto diffusi, vorrei provare a fare uno schema rapido, rapidissimo,
a proposito della consulenza filosofica individuale. Allora schematicamente vorrei dire che:
1. la consulenza
filosofica individuale è un colloquio
ovvero una forma del discorso nella quale due persone si scambiano esperienze
in una condizione di parità, una parità di status che non abolisce ovviamente
la differenza di ruolo che esiste tra il consulente e il suo ospite, tuttavia
entrambi parlano con la medesima autorevolezza e ciò che viene detto da
entrambi va preso da entrambi come vero e va accolto per ciò che significa
senza collocare le parole all'interno di una griglia interpretativa più o meno
rigida, senza interpretare le parole dell'altro come se fossero soltanto
l'affioramento di una verità nascosta, in ciò è di già molto evidente una
distanza significativa rispetto alle pratiche di natura psicoterapeutica e qui
bisogna fare subito la prima postilla importante, perché il primo degli
equivoci che è stato prodotto dalla diffusione giornalistica della consulenza
filosofica consiste proprio nel confondere il dialogo filosofico come una delle
molte pratiche di natura psicoterapeutica, si tratta di ambiti totalmente
differenti: il filosofo non è un medico, non fa diagnosi, non fa terapie, il
filosofo non affronta malattie, non ha
di fronte a sé malati, e dunque il suo sforzo è quello di accogliere le persone
in un colloquio autentico, e attraverso di esso di fare luce su alcuni punti di
riferimento, valori, scelte, decisioni, progetti, tutti elementi di cui
l’esistenza di ognuno di noi si nutre.
2. la consulenza
filosofica è dunque qualcosa ha a che fare con la filosofia, ciò significa che esse si serve di tutti gli strumenti
del pensiero critico, si serve delle figure del pensiero filosofico, si serve
delle esperienze che si possono dedurre, trarre dalla tradizione della
filosofia, ma io aggiungerei soprattutto che si serve di un atteggiamento filosofico che va al di
là della tradizione, della letteratura filosofica, e degli autori; questo
atteggiamento filosofico è la nostra disponibilità alla interrogazione è la nostra disponibilità alla messa sotto esame è la
nostra sensibilità nei confronti delle parole
che usiamo, alle quali ci sottoponiamo, è il nostro modo di sentire la condizione relazionale che ci
costituisce, è il nostro modo di sentire
il tempo lo spazio è la modalità attraverso la quale siamo consapevoli di
essere testimoni del nostro tempo,
di questo tempo e di questo mondo nel quale viviamo.
3. la consulenza
filosofica individuale, ha l'occhio centrato sul presente in quanto fondazione e fondamento del futuro; dunque è meno sbilanciata di altre pratiche
sul passato, e se l’inizio dei colloqui è di solito una fase di ricostruzione
biografica, ciò non serve a fare i conti con il passato ma serve essenzialmente
a costruire l'identità del presente, a delineare narrativamente l'identità presente,
e a far emergere i temi essenziali entro cui ruota la nostra esistenza, i punti
di riferimento che fino a oggi mi sono serviti nelle scelte e nei passaggi
della vita. Ma ciò che conta per la
consulenza filosofica è prima di tutto il presente, è questa la condizione
essenziale della consulenza filosofica in quanto essa ha a che fare con il
sistema dei valori ed i punti di riferimento che costituiscono lo sfondo entro
il quale io posso agire nel presente e dunque nel mio futuro. Allora la
ricostruzione biografica non punta a fare i conti con il nostro passato, con i
nostri traumi infantili, i conflitti della
nostra adolescenza, le difficoltà delle nostre relazioni parentali, ma
punta a ripartire dal momento presente, ripartire dall'oggi, certo facendo il
bilancio di ciò che c'è e di ciò che è stato, e quindi anche ricostruendo biograficamente la
propria identità, ma sempre soltanto sullo sfondo di una costruzione progettuale
dell'esistenza.
4. la consulenza
filosofica può essere intesa anche come un
colloquio di chiarificazione dell'esistenza: chiarificazione significa
depurazione significa pulizia significa individuazione della nostra visione del
mondo ma anche individuazione delle nostre dipendenze e anche esplicitazione
degli schemi (che siano acquisiti, che siano imposti, che siano collettivi o
individuali) attraverso i quali noi abbiamo costruito fino ad oggi, fino a
questo momento, la nostra esistenza; si tratta cioè in qualche maniera di
individuare le maschere che ci siamo messi addosso e che sono servite fino ad
oggi per costruire la nostra vita.
5. la consulenza
filosofica individuale è un colloquio volta ad orientare le scelte non nel senso che il filosofo assuma la figura
del maestro che è in grado di proporre i valori giusti, le scelte buone
eccetera, ma bensì perché si presume che dallo scambio, dal confronto,
dall'interrogazione comune, dalla comune ricerca, possano emergere per tutti
gli interlocutori dello scambio sia esso duale sia quello collettivo, la
possibilità di fissare i propri valori,
fissare dei valori, dei punti di riferimento, che ci consentono di orientare la
nostra esistenza; a me piace la metafora spaziale quando descrivo queste
situazioni: la metafora spaziale mi consente di immaginare in questo modo l’esistenza,
come un percorso attraverso luoghi spesso sconosciuti, nel quale noi abbiamo
costantemente bisogno di fissare dei
punti di riferimento per non perdere l'orientamento, per non perdere
l'orientamento noi poniamo dei punti fissi all'orizzonte questi punti fissi
sono i nostri valori; però l'esistenza è perennemente in movimento e noi sappiamo
che lungo il nostro percorso alcuni riferimenti verranno perduti alcuni
elementi resteranno indietro nell'orizzonte e forse spariranno, sappiamo cioè
che questo mondo di valori e di verità locali, come le chiamo io, cioè di
verità che sono tanto forti da consentirci di essere regolative nell'esistenza
ma non così forti da diventare valori assoluti e definitivi perché la vita è un
percorso e dobbiamo essere pronti a interrogare i nostri valori a mettere in
questione i nostri punti di riferimento,
alcuni saranno più solidi e più stabili, alcuni saranno probabilmente da
rivedere, altri ancora andranno abbandonati, comunque tutti dovranno essere
sottoposti a interrogazione.
6. È evidente che la
consulenza filosofica individuale appartiene ad una sfera che possiamo chiamare
la sfera dell'etica, si tratta di
una dimensione nella quale ciò che è in gioco sono le linee guida della nostra
esistenza ciò che noi stessi poniamo come linee guida della nostra esistenza
ciò che noi stessi poniamo come valori di riferimento per la nostra esistenza.
Si tratta cioè di una dimensione in cui ciò che è in gioco non è l'armonia
della sfera interiore, ciò che in gioco non è un fatto medico né un fatto
psicologico ma è vissuto in una forma che non è quella individualistica della
tradizione in cui ognuno per trovare se stesso si chiude nella propria stanza,
ma viceversa una dimensione intimamente relazionale che ha bisogno della
presenza dell'altro perché ha fatto esperienza del fatto che noi siamo anche la
nostra relazionalità, noi siamo anche l'altro con cui ci rapportiamo, non siamo
isole abbandonate nell'oceano ma siamo un sistema di forze, siamo per restare
in questa metafora una rete di relazioni, un tessuto di relazioni nel quale
ognuno di noi è un nodo che tiene insieme molti fili differenti, che
continuamente stringe rapporti, rompe rapporti, allenta i propri rapporti in un
continuo movimento di relazioni nei quali siamo coinvolti, e che dobbiamo
costruire che dobbiamo realizzare.
LO SFONDO DEL COLLOQUIO FILOSOFICO E DELLE PRATICHE
FILOSOFICHE
a) Lahav
È opinione diffusa nella letteratura della consulenza filosofica
che essa debba essere avere per scopo finale una condizione che viene definita
di saggezza, esplicito sostenitore di
questa tesi, ad esempio, è Ran Lahav, il quale afferma appunto, in riferimento
alla consulenza filosofica, che
“la filosofia intesa come ricerca della
saggezza è una ricerca che mira ad ampliare e approfondire la vita. Il suo
ruolo non è quello di aiutare i consultanti a essere più soddisfatti, ma più
saggi: non a superare i loro problemi sul lavoro o nel matrimonio, ma ad
esplorare i domini delle idee e a crescere in saggezza.”[1]
Tuttavia, se poi andiamo a cercare una definizione più
stringente del termine, ci accorgiamo che è piuttosto difficile trovarla, Lahav
preferisce formule un po’ vaghe, un po’
allusive, più legate al modo d’essere speciale del filosofo. Quella
attraverso la quale più di recente egli ha cercato di rispondere alla questione
suona così:
“E questo è
precisamente il significato di saggezza: essere aperto al vasto orizzonte della
realtà umana. Aperto, non nel senso di pensare intorno al suo ambito complessivo, ma nel senso di essere a partire dal suo ambito. Il saggio –
l’idea verso cui la pratica filosofica è diretta – è uno che appartiene a un
mondo più grande e così dà voce alle molte voci della realtà attraverso il suo
intero stile di vita. È qualcuno attraverso cui la realtà parla.”[2]
Forse al di là delle intenzione del filosofo
israelo-americano, vi è, in formulazioni come queste, un’eco molto forte
dell’immagine di saggezza antica come appare dagli studi di Pierre Hadot, il
quale legge nell’antico una idea di saggezza come tendenza ad elevarsi dalla
limitata condizione individuale, ad una condizione di universalità: “In
generale, tenderei personalmente a rappresentarmi la scelta filosofica
fondamentale, dunque lo sforzo verso la saggezza, come un superamento dell’io
parziale, particolare, egocentrico, egoista, per raggiungere il livello di un
io superiore, che vede tutte le cose nella prospettiva dell’universalità e
della totalità, che prende coscienza di sé come parte del cosmo, che abbraccia
allora la totalità delle cose.”[3] È abbastanza evidente il limite di queste
formulazioni, ancora fortemente vincolate ad un linguaggio metafisico e quindi
assai distanti dalla realtà umana e dalla sua esperienza. Ma, al di là di
questo, deve apparire chiaro che il limite essenziale di simile prospettiva,
sia nella formulazione di Lahav che in quella di Hadot, consiste nel fatto che
essa è di principio parziale, perché ha
sempre come soggetto, esplicito o implicito, il filosofo: si tratta cioè di
percorsi di crescita e di formazione fuori dell’ordinario, che solo
apparentemente possono essere indicati a tutti, ma di fatto, per la complessità
della trasformazione che esigono, restano privilegio di pochi. È questo che
deve lasciarci del tutto insoddisfatti, e spingerci ad andare oltre
nell’indagine.
b) L’antico …
Qualsiasi pratica della filosofia deve aver fatto i conti
con il tema della saggezza, perché da sempre fra l’una e l’altra vi è un legame
intimo e complesso. Potremmo dire che da
sempre la filosofia ha inseguito la saggezza. Sotto le diverse facce del conoscere la verità, cioè la natura
delle cose (e qui si confonde con la sapienza[4]),
oppure nell’esigenza del dire la verità,
e infine in funzione del praticare la
verità, secondo una tripartizione che gli stoici tradurranno nei tre ambiti
della fisica, della logica e dell’etica. La filosofia dell’antichità è, in
questo senso, desiderio di saggezza, e per il mondo antico essa è considerata
un modo d’essere, “uno stato nel quale l’uomo è in modo radicalmente differente
dagli altri uomini”[5].
Poi però le caratteristiche generali che il mondo antico
attribuisce alla figura del saggio sono caratteristiche assai lontane dal modo
d’essere contemporaneo: il saggio antico
è colui che rimane sempre identico a se stesso anche al variare delle
situazioni, e che trova in se stesso la sua felicità, non ha bisogno cioè
né di orpelli esteriori (ricchezze, fama, gloria…) né di legami stretti (amore,
amicizia…). È l’uomo che sa manifestare indifferenza nei confronti del mondo
per non esserne coinvolto. Come dice Seneca:
“E se vedi un uomo
che il pericolo non intimorisce per niente, che le passioni non hanno toccato,
e che, felice nell’avversità, sereno in mezzo alle tempeste, vede gli uomini
dall’alto e vede gli dei al suo stesso livello, non ti sentirai forse colmo di
venerazione…”[6].
Per il mondo classico la saggezza non è comune, è esclusiva,
è oggetto di ammirazione.
c) …e il moderno
Invece all’epoca in cui ci si fida della ragione e ci si affida
alla volontà, può apparire con evidenza a Cartesio che
“chiunque ha una
volontà ferma e costante di usare sempre della ragione il meglio che gli è
possibile, e di fare in tutte le sue azioni, quel che egli giudica sia il
meglio, è veramente saggio, quanto la sua stessa natura permette che lo sia.”[7]
La ragione per giudicare, la volontà per fare, l’uomo
soggetto dell’età moderna usa le sue doti (vere o presunte) per realizzare una
vita saggia, ma quel che deve colpire è altro, è la limitazione di campo che
egli pone: la ragione va usata al meglio possibile, l’azione deve
essere ciò che egli giudica sia il meglio, e in definitiva egli ottiene così
tutta la saggezza che la sua natura gli consente. Insomma, essere saggi non
significa necessariamente, da questa prospettiva, sottoporsi a pratiche ed
esercizi selezionati, né accettare limitazioni e rinunce che richiedano
isolamento, autarchia, rinuncia, come nel mondo antico delle scuole, ove la
filosofia restava confinata alla comunità dei pochi capaci di viverla in modo
assoluto e impegnativo.
Con la modernità si mostra la possibilità che ognuno viva la propria saggezza, come dice Cartesio, anche
“quelli che non hanno un grande ingegno
possono essere così perfettamente saggi quanto lo permette la loro natura”[8]
Dunque si tratta di una condizione potenzialmente
universale, quanto sono universali le due qualità fondative dell’uomo soggetto:
la sua ragione, la sua volontà. Non c’è dubbio, a mio modo di vedere, che il
colloquio filosofico si colloca all’interno di questo universalismo moderno e
non del modello elitario antico. Ma altrettanto, dobbiamo essere lucidi nel
vedere che il modello filosofico intellettualistico[9]
della modernità, non corrisponde all’esigenza della pratica filosofica, che da
questo punto di vista si sente più vicina alle forme antiche di una filosofia
vissuta, intesa cioè come stile di vita. Cominciamo a comprendere quanto sia
difficile trovare una collocazione genealogica alla pratica filosofica, e
quanto siano insufficienti le rievocazioni della filosofia antica come suo
immediato riferimento.
UNIVERSALISMO E VITA FILOSOFICA
A questo punto mi trovo allora nella necessità di chiarire
meglio la dimensione “filosofica” di
questa saggezza di cui vado cercando. In primo luogo, quel che deve essere
chiarito adeguatamente è proprio il rapporto che il colloquio filosofico
intrattiene con queste strutture essenziali della soggettività moderna: la
ragione e la volontà.
-
oltre il culto della ragione. L’esperienza delle
ragioni (plurali) e la costituzione di una ragione collettiva che nasce nello
scambio e nrelal situazione
-
oltre la volontà di potenza dell’uomo occidentale che
si crede padrone dell’universo, una visione ecologica del rapporto uomo
/natura, uomo /natura umana: assunzione di responsabilità (Jonas).
Questi sono gli elementi in gioco nel momento in cui si
torna a pensare la saggezza all’interno delle pratiche di vita. Ma essa ha già
di fatto mutato di senso, trattenendo la caratteristica moderna della
universalizzazione, e revisionando i fondamenti soggettivistici entro cui il
moderno l’ha pensata, essa assume piuttosto, nella mia lingua filosofica il valore di vita filosofica. Ecco allora che se diciamo che il colloquio
filosofico si deve dare come obiettivo la vita filosofica diciamo assai più di
quanto si direbbe assumendo il termine tradizionale di saggezza, non si tratta
infatti in nessun modo di una forma di nostalgia per l’antico ingenuamente idealizzato,
quanto piuttosto di una radicale occasione per ripensare le coordinate
dell’umano nel tempo della tecnica.
DALLA SAGGEZZA ALLE VIRTÙ LOCALI
Quanto ho appena proposto potrebbe assumere la forma di un
ragionamento concluso, ma in realtà non è così. C’è un passaggio ulteriore che
ci è necessario e ancora una volta ci viene in aiuto Aristotele il quale definisce
la saggezza come “una disposizione vera, ragionata, disposizione all’azione
avente per oggetto ciò che è bene e ciò che è male per l’uomo”[10]
e quindi come il criterio in base al quale è possibile rinvenire quella medietà che è necessaria perché
un’azione sia virtuosa. In questo
senso la saggezza è il fondamento della virtù, e “la virtù vera e propria non
nasce senza la saggezza”[11].
Sarebbe difficile d’altra parte fare esperienza della saggezza, se non nelle
concrete occasioni in cui l’agire umano si realizza, nei casi concreti in cui si tratta di fare o non fare e di fare in un modo
piuttosto che in un altro, di scegliere, o di rifiutare, di aderire o di
contestare, ecc. È solo nella concretezza dell’azione che la saggezza come
tale emerge, ma nella concretezza dell’azione il gesto di saggezza è in realtà
sempre riconducibile alla dimensione della virtù. Emerge come una delle virtù.
All’interno della quale il meccanismo deliberativo, quello che per Aristotele è
la ricerca del giusto mezzo, è appaltato alla dimensione della saggezza, alla
quale spetta, di volta in volta, di stabilire il confine tra temerarietà e
viltà che circoscrive il coraggio, tra insensibilità e intemperanza ove sta la
temperanza, tra la prodigalità e l’avarizia
ove si incontra la liberalità ecc. In questo senso la virtù è quella
disposizione che è congiunta con la retta ragione, cioè appunto con la
saggezza, e quando uno possiede la virtù della saggezza, gli apparterranno
tutte le virtù. Appare così in netta evidenza il concetto antropologico di base dell’etica di Aristotele, ovvero il
concetto di disposizione acquisita (héxis,
l’habitus dei latini). Le virtù per
Aristotele sono infatti disposizioni acquisite in conformità alla giusta regola
e sotto il controllo del giudizio dell’uomo prudente.
Ritornare al discorso della saggezza, dunque, significa
necessariamente tornare a parlare di virtù. Ma qui si aprono numerose e solide
difficoltà di cui bisogna dar conto. Perché le virtù non sono un bene innato, sono
una conquista, e non sono un bene
stabile: anche l’habitus più
assestato può, infatti, essere messo duramente alla prova dei fatti, c’è sempre
un fatto nuovo e imprevedibile di fronte al quale la virtù dell’amicizia o della
sincerità può essere messa alla prova, e anche essere sconfitta. In questo
senso nessuno raggiunge mai uno status definitivo (quello oltre il quale sia
possibile buttar via la scala), ognuno di noi però ha la possibilità, vivendo
filosoficamente, di guadagnare una serie
di atteggiamenti profondamente assimilati e dunque coerenti, attraverso i
quali vivere la propria esistenza eticamente. Senza che questo possa mai
significare un venire meno della vigilanza rispetto al nostro agire, che in
ogni istante, in ogni atto, può contraddire la nostra persuasione, può
dimostrarsi incoerente, può manifestarsi con violenza, può danneggiare l’altro,
o me stesso. L’acquisizione non è mai
stabile, ma anzi, è costantemente sottoposta a revisione, alla casualità
dell’esistenza e delle esperienze che viviamo. Ogni disposizione positiva è
tale dunque in funzione di una storia e di una condizione, è legata al tempo e
allo spazio in cui si realizza. È necessario allora, anche in questo caso,
introdurre una limitazione, e cominciare a parlare di virtù locali.
VIRTÙ E PRATICHE SOCIALI
È meglio chiarire che il senso delle virtù nel mondo antico
(e in quello cristiano) è strettamente legato ad un modello teleologico di vita buona che oggi appare assai difficile
da sostenere[12]. Le
teorie morali moderne, infatti, rifiutando il bene assoluto e oggettivo, devono
occuparsi di ciò che è bene di volta in volta, cioè di ciò che è meglio in una
data situazione. Ma così cadono da un lato nel rischio della dispersione
assoluta, e dall’altro lato tendono a
ridursi in una forma di disciplinamento, di ammaestramento sociale,
configurandosi come schemi di comportamento prefissato e previsto
sostanzialmente rigidi e ripetitivi. Il rischio della virtù nell’età
moderna è che esse divengano risorse prodotte e distribuite dai processi di
formazione e oggi anche dai modelli mediatici, e in questo modo finiscano per
costituire forma di disciplinamento sociale, di irregimentazione, di
assoggettamento.
Le virtù cui dobbiamo tornare a pensare rimettendo in gioco
qualcosa come la saggezza (almeno sotto la forma debole della vita filosofica)
devono essere altra cosa tanto dal modello classico (e cristiano) rivolto al
bene assoluto, quanto da quello moderno di schema di interpretazione di ruoli
sociali. In questo senso non possiamo fermarci alla definizione sostanzialmente
aristotelica che ne dà Rawls, secondo il quale
“Le virtù sono
sentimenti, e cioè famiglie di disposizioni e inclinazioni, correlate fra loro
e regolate da un desiderio di ordine superiore, in questo caso un desiderio di
agire in base ai principi morali corrispondenti”[13].
Egli stesso, d’altra parte è costretto a precisare meglio
questa definizione generale sottolineandone la natura sociale, nel senso che le
virtù rappresentano ciò che è razionale che gli uni si aspettino dagli altri.
Aggiunge infatti:
“Le virtù
fondamentali sono tra le proprietà a base generale [cioè comuni, non
specifiche] che è razionale che i membri di una società bene ordinata vogliano
l’uno dall’altro.”[14]
È necessario, dunque, intendere la virtù come l’habitus, l’acquisizione di un modo
d’essere, o meglio delle modalità d’essere, plurali, proprie della vita
filosofica, il che non significa soltanto che esse rappresentano “il risultato
vivente e attivo della propria scelta di costituirsi e di costruirsi come
soggetto morale”[15], ma
soprattutto che le virtù costituiscono
un fatto sociale e dunque non sono semplice frutto di esperienza individuale,
non sono un fatto privato.
MacIntyre
Lo comprende, secondo me, meglio di tutti, Alasdair
MacIntyre, il quale appunto, elabora una definizione capace di connettere
l’acquisizione della disposizione con le pratiche sociali di cui si trova a
realizzare i valori.
“Una virtù – afferma
infatti MacIntyre – è una qualità umana acquisita il cui possesso ed esercizio tende
a consentirci di raggiungere quei valori che sono interni alle pratiche, e la
cui mancanza ci impedisce effettivamente di raggiungere qualsiasi valore del
genere.”[16]
Da questa prospettiva è opportuno considerare le virtù molto
più come un agire che come un essere. Ma
non un agire solitario, perché è vero che nel moderno le virtù divengono
risorsa soggettiva sempre più slegata da un ideale astratto di vita buona, cioè
ad una idea di bene assoluto, ma il perseguimento del bene proprio, nella
singola situazione di vita, non può essere slegato dalla realizzazione del bene
comune; le virtù moderne dunque
impongono il riconoscimento dell’altro, in quanto si realizzano in uno spazio
sociale e non possono aver senso se non nella divisione reciproca di tale spazio.
In questo senso afferma Natoli
“La virtù non invade
lo spazio dell’altro, ma libera spazio e fa distanza perché l’altro possa
essere meglio e più autenticamente raggiunto nella sua libertà. La virtù, così
intesa, ritengo si disponga a un livello più alto del dovere. È arte discreta
del ben vivere.”[17]
Ma se davvero le virtù, io preferisco il plurale, si
configurano come i tratti di una determinata modalità di vita, ciò ancora non
significa che esse siano ben comprese nella loro natura. Si rischia ancora una
volta di fermarsi ad un livello di superficie trascurando la nostra
realtà d’esperienza, quella che dà ragion d’essere a questo mio
discorso.
Allora, operare oggi la scelta a favore di un’etica delle
virtù rispetto all’etica del seguire una regola (in tutte le sue declinazioni,
da Kant a Rorty), significa chiarire che le virtù in questione non sono
-
né quelle della tradizione classica rivolte alla vita
buona,
-
né quelle della tradizione teologica ispirate da dio
-
né quelle della tradizione moderna soggettivistica e
individualistica,
-
ma sono qualcosa di diverso, in primo luogo perché si
realizzano necessariamente all’interno di ben precise pratiche sociali e quindi
relazionali alle quali sono strettamente connesse, in secondo luogo, e di
conseguenza, perché si inseriscono all’interno di quella dinamica dei ruoli e
dei personaggi di cui ho già detto altrove
e in terzo luogo, perché esigono un diverso modello di individualità non
rappresentativa ma relazionale.
LE NOSTRE VIRTÙ
Questo assoluto relativismo De FACTO dell’agire che nella
pratica viene solitamente risolto nell’adozione di un criterio basso di utilità
spicciola, o di egoismo più o meno temperato, o di interesse momentaneo, non
può essere accettato come regola se non vogliamo anche noi contribuire alla
cancellazione dell’umano che questo nostro tempo sta già ampiamente
realizzando.
In questo contesto allora riemergono le buone abitudini, i
comportamenti che abbiamo acquisito con l’esercizio e con l’esperienza, le
attitudini che abbiamo appreso e coltivato e che nel loro insieme costituiscono
quella che abbiamo chiamato vita
filosofica. Certo non si tratterà più di quell’elenco antico nel quale si
articolavano coraggio, temperanza, liberalità, magnanimità, veracità,
socievolezza, ecc. quanto piuttosto di
virtù nuove, meno immediate forse, ma più radicalmente vicine al nostro agire
reale, come
L’esitare (passo indietro)
l’interrogare,
il mettere sotto esame,
l’aderire al colloquio,
l’essere presenti,
l’aver cura delle parole
il saper fare tesoro dell’esperienza
l’esigenza della sincerità
l’esigenza di raccontare e raccontarsi (di testimoniare)
Se dunque la saggezza è divenuta per me vita filosofica,
universalizzandosi e perdendo ogni tentazione di superbia volontaristica o di
culto della ragione, allora le virtù sono diventate queste attitudini volte
alla realizzazione di valori il cui senso è solo all’interno delle pratiche
sociali in cui si realizzano. È possibile, dunque, tornare senza nostalgie al
tema della saggezza e delle virtù, ma a condizione che s’imponga una revisione
radicale del modo in cui pensiamo e descriviamo la nostra esistenza.
D’altra parte deve essere chiaro che tutte queste
competenze, attitudini, abiti, sono messi alla prova nel momento del colloquio
in quanto ne costituiscono il presupposto, ciò che lo rende possibile, ma anche
ciò che si persegue, in termini di esercizio e in termini di messa alla prova.
La sincerità, l’interrogazione, la messa in esame, l’attenzione all’esperienza
e alle parole, la percezione della presenza, la capacità della testimonianza e
tutte le altre attitudini che costituiscono una vita filosofica, vengono messe
alla prova del colloquio filosofico e nelle pratiche filosofiche, perché
mettendole in scena esse si saldino e si solidifichino nella vita della
persona, perché la sospensione, il passo indietro, la distanza che il colloquio
introduce, è ciò che ci consente di osservare il percorso, il movimento, la
trasformazione che accade in noi. Ciò che si ottiene non è purtroppo qualcosa
di definitivo, che si possa esibire, che si possa manifestare come exemplum, non è condizione che crei
diversità, ma soltanto una via da percorrere, e non da soli.
[Conferenza, Acuto Luglio 2009]
[1] R. Lahav, La consulenza filosofica come ricerca della
saggezza, in Comprendere la vita, Milano,
Apogeo, 2004, p. 62
[2] R. Lahav, Philosophical
Practice: Have we gone far enough?
In “Practical Philosophy”, vol. 9, N.2 Luglio 2008, pp. 13-20
[3] P. Hadot, La filosofia come modo di vivere,
Torino, Einaudi, 2008, p. 117
[4] Il termine saggezza, com’è
noto è fin dal principio piuttosto ambiguo, perchè tende a confondersi con la “sapienza”, phronesis e sophia in greco, ma come è noto in molte lingue moderne le due
parole sono tradotte con lo stesso termine, wisdom,
sagesse, Weisheit. Sappiamo bene che, infatti, la distinzione secca tra i
due termini appartiene ad Aristotele, perché tutti i primi pensatori greci e
soprattutto Platone, danno ancora una valenza pratico operativa al sapere, e la
stessa philo-sophia, nell’accezione platonica è volta prima di tutto alla scena
politica, infatti egli può affermare che
“la forma più alta e più bella del pensiero concerne la costituzione degli
stati e delle case, che si chiama saggezza e giustizia” (Simposio, 209a). È Aristotele, dunque, che si preoccupa di
distinguere nettamente la saggezza, sia dalla scienza, in quanto al contrario
di questa, si occupa di cose che possono essere diversamente, sia dalla
tecnica, perché non ha un fine produttivo esterno. La saggezza diviene in
questo modo la virtù propria di quella parte della ragione umana che si occupa
della realtà contingente e naturale. Ed è quindi collocata ad un livello
inferiore rispetto alla sapienza (sophia)
che è la parte più alta dell’uomo, quella che ha a che fare con le verità
eterne. Il rapporto tra le due corrisponde al rapporto che la medicina
intrattiene con la salute: come la medicina cerca di produrre la salute senza
però esserne padrona, così la saggezza opera in vista della sapienza. La
saggezza dunque è ciò che porta a deliberare bene, cioè a compiere le scelte
opportune rispetto ai limiti di possibilità dell’individuo e diviene fondamento
di quella vita attiva che ha un ruolo essenziale nell’antropologia aristotelica
ma resta comunque subordinata alla vita contemplativa che si fonda piuttosto
sulla sapienza ed è il presupposto della vera felicità.
[5] P. Hadot, Che cos’è la filosofia antica?, Torino,
Einaudi, 1998 (ed. or. 1995), p. 211.
[6] Seneca, Lettere a Lucilio, 41.4
[7] Cartesio, I principi della filosofia, Roma-Bari,
Laterza, 1986, p. 4
[8] Cartesio, I principi della filosofia, cit. p. 4
[9] Anche le riprese della
saggezza antica come arte del ben vivere da Montaigne a Nietzsche, non riescono
più a liberarsi del tutto da questo intellettualismo per cui la saggezza si realizza
prima di tutto nel saggismo , ovvero
in una forma di scrittura che ha a che
fare con le questioni cruciali della vita, e ha per soggetto in primo luogo, la
vita dell’autore.
[10] Aristotele, Etica nicomachea, VI, 5, 1140b
[11] Aristotele, Etica nicomachea, VI, 13, 1144b
[12] Anche se esistono
tentativi eminenti di recuperare l’ideale di una vita buona, come nel caso
dell’etica di Paul Ricouer, o in quella di Alasdair MacIntyre.
[13] J. Rawls, Una teoria della giustizia, Milano,
Feltrinelli, 2008, p. 193
[14] J. Rawls, Una teoria della giustizia, cit., p.
4141
[15] A. Tagliapietra, La virtù crudele. Filosofia e storia della
sincerità, Torino, Einaudi, 2003, p. 56
[16] A. MacIntyre, Dopo la virtù. Saggio di teoria morale,
Roma, Armando, 2007, p. 235
[17] S. Natoli, Dizionario dei vizi e delle virtù,
Milano, Feltrinelli, 1996, p. 157. Si noti che il richiamo di Natoli ad una
prospettiva deontologica, l’essere norma a se stessi, rischia di introdurre
nuovamente una dimensione solipsistica se la norma individuale non è quanto meno
temperata da una prospettiva di responsabilità generale. Ma non è questo il luogo per approfondire la
questione.
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