STEFANO
ZAMPIERI
PRATICHE
FILOSOFICHE NELLA SCUOLA PER ADULTI[1]
In M.L.Martini
e A. Mignone, Paideia. Pratiche filosofiche come pratiche educative, Napoli,
Liguori, 2011, pp. 75-98
Vorrei portare testimonianza personale di un fenomeno nuovo:
l’ingresso della pratica filosofica
nelle aule scolastiche, raccontando di alcuni miei progetti e segnalando
qualche altra esperienza interessante a
titolo di esempio. La prospettiva dalla quale muoverà il mio discorso è
principalmente quella dell’Educazione degli Adulti, nella quale mi trovo ad
operare da molti anni, ma è immediatamente evidente che tutto ciò che di buono porta
la mia testimonianza vale, non di meno, anche se con gli ovvi adattamenti, per
lo scenario dell’adolescenza.
In primo luogo, bisogna osservare che il rientro in formazione rappresenta per
l’adulto una scelta di vita molto sofferta, che coinvolge la sua intera
esistenza e impone di rivedere profondamente tempi, luoghi, relazioni,
progetti, modi d’essere e di interpretare, e mette così a dura prova ogni
personale visione del mondo. Quel che entra in gioco è tutto il carico di
negatività derivante dai percorsi di studio precedenti, e quindi dagli
obiettivi falliti, dalle sconfitte, dalle delusioni, dalle rinunce. Allo stesso
tempo si creano, però, delle aspettative importanti di fronte ad un nuovo
impegno che appare significativo su molti fronti simultaneamente, quello del
lavoro in primo luogo, ma anche quello dei rapporti nella famiglia, con il
coniuge o con i figli, o con l’ambiente circostante. Mettersi in discussione,
mettersi in gioco, costruire una variante della propria identità personale,
sono operazione complesse, che talvolta l’adulto non è in grado di realizzare
nella sua autonomia, finendo piuttosto per rinunciare al percorso intrapreso
rassegnandosi così ad una nuova sconfitta.
Accoglienza filosofica
Per tutti questi
motivi, appare decisivo il momento dell’accoglienza
dello studente all’interno del percorso formativo. Si tratta oramai di una
pratica ampiamente diffusa a tutti i livelli di scuola, ma certamente nel campo
dell’Educazione degli Adulti va intesa come uno dei fulcri del lavoro preliminare
insieme ai momenti dell’accompagnamento
e dell’orientamento. Tuttavia, questo
momento può rappresentare anche il primo ingresso della pratica filosofica nel
processo formativo. Presenterò allora, prima di tutto, un modello di
accoglienza filosofica, così come è stato progettato e realizzato per due anni
consecutivi dai soci consulenti della sezione Veneto di Phronesis in un Istituto Professionale per il commercio di Mestre.
Si è tentato infatti di passare da una accoglienza centrata sul processo di
bilancio e di accreditamento delle competenze già acquisite - operazione
comunque necessaria, ma per certi versi successiva - , ad una accoglienza
rivolta piuttosto allo sviluppo di quelle che vengono di solito definite competenze trasversali, quali il saper
valutare il proprio potenziale, il saper riconoscere le proprie aspettative, il
sapersi collocare in un contesto nuovo, il sapersi orientare, insomma il saper
attribuire senso al proprio operare in una situazione particolare come quella
del rientro in formazione. Obiettivi che sono stati affrontati con una
strumentazione di natura pratico filosofica, centrata sul dialogo e la
condivisione, a partire da brevi testi-stimolo.
Nell’arco di tre
giornate di lavoro ci si è posto dunque l’obiettivo preliminare di costituire
il gruppo classe, operazione particolarmente complessa se riferita, come in
questo caso, ad un gruppo di adulti di età assai diverse, dai 18 ai 50 anni, di
varia provenienza sia per scolarità precedente, sia per nazionalità e
condizione sociale. Si è trattato, dunque, di facilitare la presentazione
personale, di realizzare una reale condivisione di significati e di creare un
senso di reciproca appartenenza al gruppo. Il passo successivo è stato quello
di tentare una integrazione delle esperienze, attraverso una immersione nelle pratiche
della condivisione e del colloquio, e un lavoro sulla dimensione della
comunicazione e dell’ascolto reciproco. Si è lavorato, inoltre, sulla verifica
e il consolidamento delle motivazioni, allo scopo di far emergere le ragioni
che portano un adulto a intraprendere un nuovo percorso di studi, per rendere
possibile una autovalutazione delle motivazioni individuali e poi per condurre
le motivazioni individuali a valori
generali da discutere e interrogare.
Il passo ulteriore è
stato quello di affrontare il tema della condivisione del progetto educativo,
per rendere possibile l’aprirsi dalla condizione individuale a quella di gruppo
e poi a quella istituzionale, e quindi formulare insieme i valori sottesi agli
obiettivi individuali, del gruppo classe e della scuola, per rendersi partecipi
del progetto educativo e così aprire un canale di scambio e di comunicazione
tra singolo, gruppo e istituzione.
Il percorso ha
trovato il suo coronamento nel passaggio finale, cioè l’apertura alla
dimensione etica dell’esistenza, che si è realizzata tematizzando e
interrogando la natura della relazione, sia come impegno personale, sia come
aspettativa, e promuovendo la stessa all’interno del gruppo classe. Si è
cercato inoltre di mettere a tema e fare esperienza del rispetto per le
diversità culturali e individuali, e di focalizzare la scuola come spazio etico,
cioè come luogo di scambio e di confronto reciproco nella diversità.
Lo spazio di pensiero
Il progetto ha
trovato un altissimo riscontro fra i corsisti, meno fra i docenti delle classi
coinvolte, che hanno avuto qualche difficoltà a comprendere il valore di un
processo di attribuzione di senso separato da processi valutativi e di
trasmissione di conoscenze. Ma questo è
da mettere nel conto: il percorso che la scuola italiana deve fare per
comprendere la funzione del lavoro filosofico non come disciplina ma come
modalità di vita e di lavoro è ovviamente molto lungo. In ogni caso l’attività di accoglienza è stato il primo
tentativo di aprire un vero e proprio
spazio di pensiero nella scuola, ed è su questo che bisogna fermarsi a
riflettere: sull’urgenza di aprire spazi di riflessione nelle nostre scuole e
sulla responsabilità che ne deriva per noi filosofi consulenti.
Vorrei partire da
una riflessione teorica di Luigina Mortari, secondo la quale “la chiamata a
esistere con autenticità non può che attuarsi attraverso il discorso e
precisamente in quel discorso che chiama alla cura di sé. Poiché l’essenza del
nostro essere può dirsi costituita dal pensare che pensiamo e dal sentire che
sentiamo, ossia dalla vita della mente, il discorso che chiama alla chiamata è
quello che ha cura della vita della mente.”[2] Sulla
base di questa fondamentale assunzione di schietto stampo heideggeriano e
arendtiano, appare la “necessità per l’educatore di possedere la tecnica per
educare a pensare, intendendo per «pensare» la pratica dell’interrogare le
questioni significative per l’esistenza umana, che si frequentano per cercare
direzioni di senso al proprio esserci”[3]. Se
questa è la prospettiva, diventa essenziale predisporre nelle nostre scuole degli
spazi del pensiero, delle comunità pensanti, nelle quali costruire il
laboratorio della mente, cioè delle forme di sviluppo delle attività
riflessive, con le quali maturare e intensificare la consapevolezza del nostro
agire nel mondo. Ed è proprio qui che
le attività di pratica filosofica possono proporsi come gli strumenti
essenziali di un rinato desiderio di riflessività.
Ma è chiaro che pensare
ad una condizione pratico filosofica nell’attività formativa non è semplice,
perché investe profondamente l’aspetto organizzativo della didattica, ma anche quello
gestionale della professione docente, e quello della formazione dei formatori,
problematiche enormi, che qui non affronto. Tuttavia, è possibile – a titolo di
ipotesi provvisoria - abbozzare almeno alcune linee generali in vista di un ripensamento generale
della gestione della classe adulta (e non solo). È facile, a questo punto,
mettersi sulla scia delle più accreditate esperienze di quella che ormai
unanimemente viene indicata come andragogia[4], in quanto si
tratta di un discorso pedagogico che nasce alla luce del lavoro di un grande
pensatore come John Dewey e, dunque, carico di presupposti filosofici, anche se
talvolta non tematizzati a sufficienza. In questo senso, tenendo ben presenti
questi punti di riferimento, si può ripensare la gestione della classe adulta,
partendo innanzi tutto dalla necessità di realizzare un clima informale di
reciprocità, di rispetto, di collaborazione; mentre il clima tradizionale del
rapporto docente/studente è orientato verso l’autorità (anche in senso
positivo, non cioè solo nel senso dell’autoritarismo), e verso rapporti di
natura formale, oltre che alla competitività, la quale nell’adolescente può
anche costituire uno stimolo positivo ma che, nell’adulto, non può essere
prevalente rispetto a termini quali collaborazione, solidarietà, formazione del
gruppo, comunità di intenti.
In secondo luogo,
bisognerà determinare nella classe un ambito di pianificazione comune del
lavoro: mentre nella impostazione normale l’aspetto della pianificazione è
interamente demandato all’insegnante – e a tutte le fasi burocratiche della
programmazione – con l’adulto è possibile pensare a forme di pianificazione
comune che non mortificano l’autonomia del lavoro dell’insegnante, e il suo
dovere propositivo, né sminuiscono il suo ruolo e la sua competenza, ma rendono
possibile piuttosto un continuo adattamento del lavoro rispetto a una utenza le
cui competenze ed esigenze appaiono poco per volta, e non si manifestano
compiutamente con le prove di ingresso.
Di qui, allora, sarà
necessario pensare una continua auto-diagnosi dei bisogni individuali e
collettivi che devono in qualche modo orientare continuamente la scelta dei
materiali, delle tecniche di lavoro, dei metodi di studio, degli approcci diversificati
alle difficoltà che mano a mano insorgono. Ne deriva l’opportunità di una
negoziazione comune degli obiettivi che deve misurarsi rispetto a due esigenze
non sempre sintetizzabili: quella dello studente, cioè le sue aspettative -
talvolta solo parziali, limitate, occasionali -, e quella dell’istituzione che
punta a fornire diplomi o comunque attestazioni formali.
Se teniamo ferme
queste prime linee di riflessione per orientarci nel campo della formazione
dell’adulto, è facile osservare come il lavoro filosofico sia presupposto di
ogni passaggio. Io sintetizzerei gli snodi filosofici in questo modo: lavorare
sul vissuto e quindi sulla dimensione
dell’esperienza; lavorare sullo scambio
e quindi sulla comunicazione, sull’ascolto, sulla condivisione; lavorare sulla razionalità, cioè sulle competenze
riflessive; lavorare sulla progettualità,
individuale e collettiva.
La conduzione filosofica della classe
L’obiettivo preliminare, dunque dovrebbe essere quello di
introdurre nel lavoro quotidiano dell’insegnante una massiccia dose di
riflessività, per far fronte alla domanda
esistenziale che proviene dallo studente adulto che rientra in formazione, e
che attende di trovare subito una risposta, senza la quale essa rischia di
mettere in crisi ogni tentativo di trasmissione di contenuti o di sviluppo di
competenze. D’altra parte è proprio
questa la svolta dalla quale è possibile far emergere chiaramente il ruolo che
la pratica filosofica può assumere all’interno della dimensione scolastica.
L’ovvia considerazione di fondo è che la classe è, prima di
tutto, una piccola comunità d’intenti (oltre che d’apprendimento e di ricerca),
che deve vivere le situazioni del dialogo, della condivisione, dello scambio,
del progetto condiviso, tutte cose delle quali invece raramente ci si occupa, o
tutt’al più rientrano sotto la voce “condotta” che oggi merita una valutazione
ma non sembra meritare alcuna riflessione. Se invece partiamo dal presupposto
che l’insegnante non si limita a trasmettere conoscenze e valutare
profitti, ma è partecipe in prima
persona di una comunità, allora la prospettiva muta radicalmente, e la classe
diviene finalmente uno spazio aperto di pensiero, un luogo di pratiche, vale a
dire un luogo ove si materializzano e prendono corpo le teorie, confrontandosi
con la realtà e così verificando la loro consistenza. Questo passaggio va
valorizzato adeguatamente: possiamo provare a ripensare il nostro lavoro di
insegnanti alla luce di un simile intento e ricollocare, tutta la nostra attività
didattica sotto i profili di natura
pratico-filosofica che ho già indicato: mettere in questione il vissuto
problematizzando l’esperienza; esercitarsi allo scambio, alla comunicazione,
alla condivisione; esercitarsi a pensare criticamente cioè facendo uso di un
pensiero razionale e di una forma di riflessione critica e aperta e mettere in
primo piano la progettualità del singolo accanto a quello del gruppo.
In parte è quello che racconta, ad esempio, Simona Alberti,
nel suo Pratiche filosofiche a scuola[5],
nel quale testimonia di un lavoro svolto con gli studenti di un Istituto
Tecnico per Geometri in Lombardia, grazie al quale l’autrice ha sperimentato
per tre anni consecutivi un approccio alla didattica interamente progettato
alla luce delle pratiche filosofiche. Vi emergono con chiara evidenza alcuni
dei tratti che ho appena indicato, in particolare vi si sottolinea l’importanza
dell’ascolto e dello scambio, vero fondamento del lavoro in classe, spesso sottovalutato
e ridotto alla questione dell’attenzione (o distrazione), e dell’interesse (o
disinteresse), mentre dovrebbe essere interrogato come obiettivo da raggiungere
e capacità da sviluppare. Per questo sarebbe possibile proporre una ricchissima
sequenza di attività, ne elenco solo qualcuna: il far tenere la lezione allo
studente, l’ascolto del qui e ora attraverso esercizi di scrittura, esercizi di
assunzione del punto di vista dell’altro, messa in scena del dilemma etico (per
esempio sfruttando episodi storici come la vicenda di Attilio Regolo, o
letterari), l’intervista ai testimoni, esperienze di dialogo socratico o di
comunità di ricerca, cioè tecniche specifiche della pratica filosofica, i
laboratori di pratica filosofica su specifici concetti. È evidente che alcune
di queste sono iniziative che talvolta sono realizzate in classe
indipendentemente dall’approccio filosofico, ma ciò che è decisivo, in questo
caso, è proprio il fatto che tale prospettiva riassume e racchiude anche
esperienze didattiche già sperimentate e ciò conferisce loro un senso del tutto
differente: al di là della finalità specifica infatti, esse rientrano in un
lavoro globale di esercitazione all’ascolto e allo scambio, che in quanto
progetto unitario rappresenta un obiettivo esplicito e quindi verificabile nel
percorso.
Lo stesso vale per il secondo profilo, quello della messa in
questione dei vissuti. Qui il lavoro più semplice e più efficace è certamente
quello del racconto autobiografico, esperienza già ben nota agli insegnanti ma
che può essere perseguita in ogni momento dell’attività didattica ad ogni
livello perché è un modo essenziale per dare nome a sentimenti e mozioni
personali[6],
inoltre consente di ampliare spazi di riflessione e autoriflessione, e di
riattivare meccanismi di autostima e di motivazione; e ancora, consente di
pensare al proprio futuro riconsiderando il passato alla luce del presente, e
rende possibile dare spazio a nuove letture della propria storia, e di quella
di altri quando condivisa. “La scrittura autobiografica e la condivisione orale
– dice benissimo Simona Alberti – porta a un esercizio di auto-epochè: si
mettono in sospensione i soliti modi di rappresentarsi, quel modo di pensarsi
troppo noto, ovvio e conosciuto, e si apre uno spazio dubitativo che permette
di ripensarsi e raccontarsi in modo nuovo, prendendosi cura di sé: è cura
perché si diviene presenti a se stessi, ci si sente sentire, si pensa come ci
si pensa”[7].
L’esercizio
filosofico dell’autobiografia
Riflettiamo ancora su questo aspetto essenziale: la
scrittura autobiografica è stata progressivamente cacciata dalle nostre scuole.
È una osservazione che sorge spontanea, ad esempio, se si osservano i titoli
della prima prova del nuovo esame di maturità: il tema letterario è ormai solo analisi
del testo, e vi è sostanzialmente preclusa la possibilità di sviluppare la
dimensione dei valori e dell’esperienza che dalla letteratura sarebbe invece
facile ricavare; il saggio breve o l’articolo di giornale per definizione
richiedono un tono neutrale non soggettivamente implicato nella materia; resta
tutt’al più l’ultima traccia, che ormai è considerata refugium peccatorum per studenti zoppicanti. Non serve sottolineare
quanto le argomentazioni antiretoriche che hanno ispirato questi modelli siano
deboli e approssimative, basate su di una sostanziale incomprensione della
retorica stessa, confusa superficialmente con un generico parlar vuoto da
contrapporre ad una fantomatica concretezza anglosassone in una prospettiva di
scrittura funzionale molto aziendalistica.
È chiaro, inoltre,
che la prospettiva d’esame, per emanazione, informa tutta la pratica di
scrittura del triennio. In questo modo se ancora si può pensare ad un esercizio
di scrittura autobiografica ciò accade solo nel biennio ma nel contesto di una
facile introduzione alla scrittura, per esempio attraverso il genere del
diario, considerato forma ingenua ed immediata da superare al più presto nella
direzione di prove più alte e significative.
Ma l’autobiografia non è affatto una pratica ingenua. Non
voglio qui ripercorrere nemmeno a grandi linee un territorio di studi
vastissimo[8];
vorrei piuttosto proporre, ancora una volta, un discorso d’esperienza. Quella
che io stesso ho realizzato più volte in questi ultimi anni all’interno di un
corso di scuola secondaria superiore per studenti adulti.
È opportuno fare innanzi tutto una precisazione: per il
corsista adulto in modo particolare, il momento autobiografico non è soltanto
una occasione di scrittura ma, ancor più, il momento in cui può tracciare il
suo profilo esistenziale, ricollocandosi nella nuova situazione del rientro in
formazione e di tutto l’insieme dei progetti di vita che vi risultano connessi.
È facile constatare, tuttavia, che un meccanismo non molto
diverso si può riprodurre anche per l’adolescente che ha la necessità di
conquistare una capacità auto riflessiva che non gli è sempre naturale. Di
fronte alla continua lamentela nei confronti dei nostri giovani, accusati di
essere sempre meno presenti al loro tempo, sempre più preda di modelli
televisivi, sempre meno capaci di misurare la realtà, e quindi il campo delle
loro possibilità e dei loro limiti, ci si chiede spesso quali strategie reali
abbia adottato la scuola italiana, cioè l’ultimo baluardo formativo ancora non
interamente travolto dal modello mercantile che domina la società. Ecco, la
pratica della scrittura autobiografica è un piccolissimo contributo nella
direzione di un lavoro sulla consapevolezza che è qualità preziosa da coltivare
adeguatamente se si vuol creare persone complete e cittadini non emarginati. A
conforto di questa prospettiva vale la pena osservare che anche la recente Raccomandazione del Parlamento Europeo
del 18 dicembre 2006 pone la
Consapevolezza come
una delle otto competenze chiave per l’apprendimento e parla esplicitamente
dell’importanza dell’espressione creativa
di idee, esperienze ed emozioni.
Nel caso specifico della mia esperienza, il percorso si è svolto
nel corso di un intero anno scolastico e si è articolato, innanzi tutto, nella
stesura dei testi, senza letture preliminari e senza particolari presentazioni
di natura formale, per evitare che si sovrapponessero immediatamente dei
modelli estranei; la sola introduzione è stata una discussione iniziale sul
significato condiviso del termine autobiografia,
e sulla sua connessione col termine sincerità.
Discussione che ha stabilito i limiti riconosciuti dal gruppo rispetto a quanto
era opportuno raccontare tenendo presente che il progetto prevedeva la lettura
dei testi alla classe.
La scelta delle tracce di lavoro ha richiesto una
preparazione accurata. Innanzi tutto perché ho preferito evitare ogni sviluppo
di tipo cronologico che avrebbe reso, per certi versi, abbastanza monotoni e
prevedibili gli elaborati. Nello stesso tempo la scelta delle tracce doveva
essere realizzata in funzione dell’età e della provenienza degli studenti, ma
anche di specifiche problematiche locali (la presenza di diversamente abili ad
esempio). Nel mio caso lavorando con classi di adulti e con una presenza di
stranieri che col tempo è divenuta preponderante, ho scelto all’inizio tracce
che consentissero di ricostruire non solo l’immagine di sé, (Autoritratto) ma anche il passaggio da
una situazione di vita ad un’altra (Le
case della mia vita, Le città importanti
della mia vita) e, ancora, una ricollocazione nel tempo (Le grandi scelte della mia vita, Passaggi); oppure
rivolte alla narrazione di sé attraverso una ricostruzione del tessuto delle
relazioni (Le persone più importanti
della mia vita, Chi mi ha aiutato, Le eredità personali), o ancora puntate
alla focalizzazione degli eventi (Una
giornata da ricordare, Una giornata da dimenticare), ma anche alla
trasfigurazione immaginaria degli oggetti (C’è
un oggetto nella mia vita) o dei propri progetti (Il mio sogno).
È chiaro che se la classe entra pienamente nello spirito del
lavoro è possibile chiedere agli stessi corsisti di suggerire di volta in volta
le tracce da sviluppare. In questo modo il percorso diviene via via sempre più
fedele alla situazione specifica che si sta vivendo, e maggiormente capace di
rappresentarla.
Un’attenta considerazione è necessaria anche per quanto
riguarda la correzione e la valutazione
degli elaborati: meno sensibile alle inadeguatezze ortografiche e più a quelle
espressive. In base alla convinzione che, in certe situazioni, noi insegnanti
dovremmo liberarci di un certo assillo rispetto alla forma, che crea spesso una
sensazione di inadeguatezza e quindi di reattività di fronte alla pratica della
scrittura, soprattutto quando è personale, non guidata, non sostenuta da
materiali e da testi di riferimento.
Dare spazio all’espressività, dunque è stata la prima regola
che mi sono posto in questo progetto, cioè restituire dignità didattica alla
capacità dello studente di toccare le corde dell’emotività con gli strumento
della riflessività, dimostrando di saper mettere in scena se stesso di fronte
agli altri in maniera efficace e realistica, anche usando forme non del tutto
convenzionali, e facendo emergere valori, scelte, prospettive comuni a più
d’uno.
I testi sono stati letti e discussi alla classe mano a mano
che venivano realizzati, e si è sollecitato lo scambio di valutazioni e di
commenti, il confronto reciproco, l’immersione dell’intero gruppo nelle
situazioni di vita che sono state via via messe in scena. Individualmente lo
studente ha raccolto tutti i propri elaborati in un unico file che alla fine dell’anno scolastico ha preso la forma di una
vero e proprio Esercizio di scrittura
autobiografica.
Soltanto in una seconda fase il lavoro di scrittura è stato
fatto reagire con il testo letterario che è infinitamente ricco di esempi
utilizzabili. In questo modo si è lavorato sul filo di un rovesciamento della
prassi consueta, che è quella di cercare l’esperienza nel testo, per mettere
invece il testo stesso alla prova
dell’esperienza. Nella mia pratica ho constatato che l’attenzione, la
sensibilità, la reattività dei corsisti appare moltiplicata e ingigantita dalla
propria esperienza personale di scrittura autobiografica quando viene messa di
fronte al testo letterario. Così che anche certi topoi della letteratura autobiografica (ad esempio i sonetti
autobiografici di Alfieri, Foscolo, Manzoni, oppure le Confessioni di Agostino e di Rousseau, o le Vite di Cellini e di Alfieri, o le Memorie di Goldoni) possono essere riletti sotto un’altra luce,
meno astratta e meno distante, come prove ulteriori di riflessione e di analisi
di esistenze autentiche, piuttosto che come semplici elaborazioni formali,
lontane nel tempo e sostanzialmente astratte e impersonali. Ci si avvicina in
questo modo alla materia viva della letteratura che è vita prima di tutto, vita
messa in forma, cioè vita che diventa racconto, esperienza.
Non si può nascondere, naturalmente, che un’attività di questo
tipo pone un problema assai delicato e reale. Perché attraverso la scrittura
autobiografica condivisa è inevitabile andare a toccare i tasti dell’emotività
di fronte ai quali l’insegnante si sente spesso impreparato. Non è difficile
immaginare, infatti, la situazione che si crea in classe quando un corsista
straniero piange leggendo la descrizione della sua città natale. Il clima di
empatia che si realizza fra i corsisti ma anche la tensione delicatissima che
può sfociare in un momento di difficoltà individuale. Situazioni di questo
genere costituiscono, insieme, esperienze di crescita personale difficilmente
dimenticabili, ma anche assai delicate da gestire. Ciò pone il problema della formazione
dell’insegnante anche sotto questo profilo. Problema che può essere affrontato
solo se l’insegnante per primo si rende
conto della sua stessa necessità di adottare un atteggiamento interrogativo
verso di sé e verso il proprio mondo, una capacità riflessiva e introspettiva,
una capacità di riconoscere e comprendere le emozioni proprie e altrui, cioè in
definitiva se si accinge ad una vita
esaminata, la sola, a detta di Socrate, degna di essere vissuta.
Pensare razionalmente
e creativamente
Ho indicato, tra le linee di confine delle pratiche
filosofiche nell’attività formativa la pratica del pensare razionalmente, e su
questo è facile, ovviamente, immaginare il ruolo che la pratica filosofica può
rivestire in quanto strumento principe per il lavoro sulla razionalità. Ma non
ci si deve ingannare: proporre in classe attività di recupero e di sviluppo
delle abilità logiche è abbastanza facile, così, ad esempio, lavorare sulla
contraddizione, sulla tesi e l’antitesi, sui processi causa - effetto, ecc. è semplice per chi abbia un minimo di
preparazione filosofica, il rischio semmai, è quello di cadere nel limite
opposto del razionalismo: cioè far passare l’idea che il solo metodo giusto per
pensare sia quello strettamente razionale, subordinando così tutti i processi
creativi, di immaginazione, di metaforizzazione, figurali ecc.
A mio modo di vedere, invece, l’obiettivo più alto dovrebbe
essere quello di mostrare insieme l’efficacia di un processo razionale di
pensiero, e l’utilità di un suo utilizzo costante, e allo stesso tempo far
emergere l’indispensabile flessibilità che il pensiero deve conservare, il
bisogno di metafore, di immagini, di passaggi creativi. La stessa logica, in
realtà necessita di una creatività che va educata e sperimentata.
Il pensiero razionale non deve, dunque, essere pensato come
una applicazione di regole e di meccanismi, esso, infatti, è anche attività
creativa, e la creatività , dunque, è attitudine che deve essere messa in atto
filosoficamente. Lo si può fare attraverso mille attività, come racconta ancora
Simona Alberti , da quelle centrate sull’uso delle metafore, al gioco delle
scatole della memoria nelle quali vi sono alcuni oggetti dai quali bisogna
ricostruire una biografia, al gioco del “se fossi…” (un’ottima variante al
commento di Cecco Angiolieri), alla riscrittura di brani celebri (per esempio
l’incipit della Divina Commedia), all’esercizio tipico delle antiche scuola
filosofiche dello “sguardo dall’alto”, all’esercizio di descrizione di un
oggetto in base alle relazioni che lo hanno determinato (chi lo ha costruito,
chi lo ha progettato, chi lo ha pulito, chi lo ha portato, chi lo ha rotto,
ecc.), o ancora al gioco di immaginare di essere un altro, e via di questo
passo.
Certo, non si può non osservare, che queste pratiche
comportano anche dei pericoli: primo fra tutti che vengano scambiate per
semplici occasioni ludiche, diversivi, momenti di svago rispetto alla serietà
del lavoro didattico, ma ciò accade solo quando esse sono sporadiche,
occasionali, staccate cioè dal percorso, non quando sono inserite in un
progetto esplicito e condiviso, quando rientrano nel piano di un lavoro ben
definito anche se sostanzialmente “trasversale” rispetto agli obiettivi
specifici delle discipline. “Le pratiche – commenta Simona Alberti – non devono
essere momenti di sfogo che compensino la fatica e la serietà dell’impegno
scolastico tradizionale, momenti staccati dalla quotidianità della didattica;
se così fosse non avrebbero la possibilità di produrre cambiamento, ma
offrirebbero occasioni consolatorie di liberazione.”[9]
. D’altra parte, è anche evidente che lavorare in questo modo, forse non va
nella direzione efficientistica oggi in voga, perché introduce un certo
rallentamento nell’attività, e sappiamo quanto lo sviluppo dei programmi
costituisca una ossessione nei consigli di classe. Dobbiamo chiederci,
piuttosto, se questa ansia da prestazione non sia una delle cause del nostro
disagio, come osserva la stessa Alberti: “La scuola ha fretta, ha fretta di
accumulare saperi, di snocciolare informazioni, di completare programmi,
contagiata dai ritmi e dalla frenesia del mondo in cui si trova: una scuola che
deve stare al passo coi tempi, fornire risultati quantificabili, numerabili,
classificabili, e chissà, a volte, non così sostanziali. È una scuola che si
dimentica di sé”[10] .
Lo sportello di consulenza
filosofica
Ho accennato fin qui ad alcuni possibili punti di
riferimento pratico filosofici nella conduzione della classe, immaginando la
situazione di un insegnante filosofo, oppure di un insegnante affiancato da un
filosofo nel suo lavoro quotidiano, è ora opportuno fissare la prospettiva sull’offerta specifica che il
filosofo consulente può proporre allo studente e all’insegnante.
Nel primo caso il filosofo consulente può essere chiamato ad
intervenire a fronte delle difficoltà
che il singolo può vivere nella condizione scolastica. Da questo punto di vista
la consulenza filosofica nella scuola rappresenta un tipo di risposta
assolutamente innovativa. Già dal 2003 ho avviato con questo intento un laboratorio
filosofico per gli studenti che ha avuto molta fortuna e che continua tutt’ora.
Il passo successivo è stato quello di affiancare al laboratorio una attività di
sportello individuale.
D’altra parte, in un
certo senso, il passaggio è stato quasi naturale. Nel mio lavoro di
responsabile del corso per adulti ho infatti sempre avuto la necessità di
instaurare rapporti di dialogo personale con gli studenti, tanto in fase di
accoglienza, quanto nel corso dell’anno scolastico. Il lavoro con l’adulto è
infatti costantemente un lavoro di colloquio, di accompagnamento e di ascolto.
L’adulto stesso ha necessità di individuare una figura cui rivolgersi, cui
esternare le proprie difficoltà, alla quale rapportarsi nel momento in cui deve
gestire un cambiamento o prendere delle decisioni che riguardano insieme la sua
condizione esistenziale (famiglia, lavoro) e la sua condizione di studente. Una
simile figura anche quando non è indicata in modo esplicito è determinata dallo
studente stesso, che sa percepire da sé quale fra gli insegnanti è in grado di
prestargli ascolto. È chiaro che una specifica competenza nel campo della consulenza
filosofica rende sicuramente efficace e
non casuale il colloquio, ma insieme è altrettanto chiaro quanto l’esperienza
personale dell’insegnante sia essenziale per rendere operativa la consulenza filosofica
nella scuola.
Per presentarlo all’Istituto il progetto è stato costruito
in funzione di obiettivi coerenti con il Piano dell’Offerta Formativa e con il
progetto globale del corso per adulti:
rinforzare la motivazione
attraverso la chiarificazione esistenziale degli obiettivi individuali;
sviluppare tanto il senso di autonomia
dello studente quanto la sua disponibilità alla relazione con altri; introdurre lo studente alle pratiche della cura di sé e quindi: narrativizzare la propria esistenza,
delucidare il proprio sistema di valori, mettere in questione le acquisizioni
esistenziali assunte senza adeguata riflessione; rafforzare il senso di
appartenenza alla struttura formativa.
Appare chiaro l’intento di contemperare gli obiettivi propri
della consulenza filosofica (autonomia, relazione, cura di sé) con quelli
propri piuttosto del mondo scolastico (motivazione, senso di appartenenza). Ma
sarebbe facile mostrare come nel loro insieme questi traguardi appartengano al
campo dell’andragogia, ovvero il principale riferimento teorico nella
formazione dell’adulto.
È stato quindi fissato un orario di sportello di 2 ore
settimanali da ottobre a maggio. Anche se poi, nel concreto svolgimento, le
cose sono andate piuttosto diversamente, nel senso che è stato necessario
concordare di volta in volta con i consultanti gli orari migliori per non
interferire eccessivamente con le lezioni. Ma soprattutto perché le numerose
richieste mi hanno portato a svolgere una media di quattro/cinque incontri di
consulenza alla settimana.
L’atteggiamento dell’istituzione di fronte a questa
iniziativa è stato fin dall’inizio abbastanza problematico. Innanzi tutto
perché non c’è ancora una sufficiente conoscenza della consulenza filosofica e
quindi obiettivamente è risultato difficile spiegare in che cosa consistesse il
progetto. Per appianare questi ostacoli esso è stato presentato insieme ad
alcune pagine di introduzione generale alla pratica filosofica, ad una serie di
citazioni e ad una bibliografia. Materiali che sono stati diffusi all’interno
dell’Istituto e che se pur non hanno
fugato le perplessità, almeno hanno contribuito a diffondere una prima
informazione rispetto alla possibilità di un uso diverso delle competenze
filosofiche.
Delicati si sono rivelati anche i rapporti con i colleghi. I
quali si sono preoccupati essenzialmente del fatto che i colloqui potessero in
qualche modo incidere sui loro rapporti con i corsisti. Anche in questo caso lo
scetticismo è rimasto l’atteggiamento più diffuso, con l’eccezione di alcuni
insegnanti che sono stati coinvolti nelle attività di laboratorio e hanno così
potuto fare esperienza diretta della pratica filosofica.
L’iniziativa, denominata S.O.F.I.A. ovvero Sportello di
Orientamento Filosofico Individuale per Adulti, è stata presentata ad un
pubblico di oltre duecento studenti adulti sottolineando il ruolo del filosofo consulente,
come quello di uno specialista in pratiche filosofiche, che ha esperienza di
ascolto, di orientamento individuale, di motivazione. E l’attività in sé è
stata definita sinteticamente come un dialogo
di chiarificazione dell’esistenza nel quale non si indaga il passato ma si
discute il presente, per orientare alle scelte (lavoro, università ecc.), per prepararsi
ad un cambiamento, per affrontare un dilemma, per orientarsi fra diverse
possibilità esistenziali, per fare chiarezza sulla propria visione del mondo, per
mettere a fuoco i propri valori morali, per vincere un disagio momentaneo; un
dialogo, dunque, nel quale il Filosofo consulente non dà risposte, ma usa gli
strumento della riflessione filosofica per mettere l’interlocutore in
condizione di trovare le proprie
soluzioni ai problemi proposti, oppure fare
chiarezza intorno ai propri valori, alla propria visione del mondo; attraverso
il dialogo, infatti, il filosofo consulente sviluppa analisi, formula ipotesi,
confronta diverse possibilità, propone sintesi, apre scenari, mette ordine
nella complessità, ma è sempre il consultante che costruisce la propria
riflessione su di sé, e si avvia così lungo una nuova esperienza di vita
esaminata.
Quasi tutti gli studenti si sono presentati con l’intenzione
di affrontare la preoccupazione nei confronti dell’Esame di Maturità, oppure
quella relativa ad un possibile insuccesso scolastico. Entrambi questi eventi
hanno per l’adulto un significato complesso, poiché si collocano nella
dimensione del possibile scacco esistenziale e coinvolgono in questo senso
l’intera persona dello studente, i suoi progetti, le sue speranze, le sue
prospettive. Il fallimento dell’obiettivo scolastico, per chi rientra in
formazione da adulto, rappresenta un giudizio radicale sulla sua stessa
persona. Si comprende bene, allora, il carico di preoccupazioni e il disagio
cui può dare luogo. Naturalmente, questo punto di partenza, è stato anche il
tema che si è risolto più facilmente ragionando sulla dinamica del progetto
esistenziale, degli obiettivi e dei limiti. Tuttavia le consulenze non si sono
mai chiuse su questo, perché ogni volta il consultante ha richiamato al di là
delle questioni più strettamente pertinenti al suo percorso scolastico, altre
problematiche di natura personale. L’apertura del consultante è andata
ampliandosi mano a mano che si è sviluppata la fiducia nei confronti
del consulente e che si è chiarita, attraverso il dialogo, la natura non
terapeutica e non consolatoria, ma etica, della consulenza filosofica.
Sono così venuti alla luce problemi relazionali ed
esistenziali che hanno richiesto percorsi talvolta abbastanza lunghi. È venuta
ad esempio alla luce la difficoltà per molti di ripensare, riprogettare, la
propria vita dopo un cambiamento importante, una separazione, un lutto. Mentre
i più giovani hanno messo in campo tutte le difficoltà relative alla precarietà
del proprio futuro professionale e familiare.
Certo, generalizzare esperienze come queste forse non è
facile anche perché richiede competenze ancora poco diffuse. Ma io resto
convinto che la consulenza filosofica nella scuola rappresenti una novità di
grande rilievo, perché è chiaro che comporta un modo diverso di intendere la
funzione stessa del servizio che si offre, rivolto prima di tutto alla infinita
complessità della persona piuttosto che alla semplice trasmissione delle
conoscenze. Essa potrebbe dunque, secondo me, rappresentare un momento importante
in un percorso di ri-umanizzazione della vita scolastica, che è sempre più
urgente a fronte delle forzature
aziendaliste di questi ultimi tempi. Oggi che i luoghi dell’incontro,
dello scambio di relazioni, sono stati cancellati, Socrate non saprebbe più
dove andare per incontrare i giovani ateniesi, e rivolgere loro le domande
necessarie a togliere l’esistenza dalla banalità e dal luogo comune. Le piazze
sono state ridotte a luoghi telematici, ove fluttuano soltanto presenze
virtuali, oppure a mercati ove s’incontrano solo consumatori. Resta ancora la scuola, come luogo in cui,
almeno potenzialmente, ci si può incontrare senza utile, senza che l’incontro
sia mediato da un interesse o da un valore di scambio. Luogo in cui agiscono e
interagiscono persone, non semplicemente ruoli e funzioni. In cui le discipline
umanistiche in modo particolare possono mostrare di essere testimonianze
autentiche, elementi di una inesausta ricerca e di una problematizzazione
dell’esistenza umana, che non è solo un luogo comune dello spirito, ma ciò
che in cui tutti noi, studenti e
insegnanti, ogni giorno ci troviamo a vivere.
Sempre che la scuola sappia difendersi dall’attuale ubriacatura di metodi e processi, di parole d’ordine
efficientistiche volte a blandire un cliente attraverso una offerta formativa
sempre più simile ad un catalogo di vendita, la cui realtà è determinata solo
da un adeguato processo di marketing.
A margine di questo avviatissimo processo restano ancora dei
momenti di libertà, sempre più rari, in cui possiamo, noi insegnanti, proporre
esperienze che vadano in un’altra direzione.
Il disagio
dell’insegnante
Per completare il quadro del ragionamento, dopo aver preso
in considerazione la gestione della classe e il rapporto con lo studente, è
opportuno, ora, prendere in considerazione specificamente il compito della
pratica filosofica rispetto al ruolo, alla funzione e alla condizione
dell’insegnante.
A mio modo di vedere, e in base alla mia esperienza di
formatore e di filosofo, nella scuola italiana manca del tutto la capacità di
pensare ai rapporti tra istituzione studente e insegnante come ad un’unica
relazione complessa. L’istituzione vive il suo rapporto con l’insegnante
prevalentemente in termini burocratici, così come, di riflesso, l’insegnante
vive il suo rapporto con l’istituzione prevalentemente in termini sindacali,
dall’altra parte lo studente è percepito sempre più dall’istituzione come un
cliente cui vendere un prodotto, e dall’insegnante come un problema da
risolvere. Ancora, dalla prospettiva dello studente l’istituzione appare sempre
più come un mediocre fornitore di servizi, del quale appaiono chiaramente tutte
le manchevolezze e raramente appare l’utilità. Manca, in tutto questo, la
capacità di leggere il rapporto tra questi tre termini, istituzione - studente
– insegnante, come un rapporto unitario, come un sistema unico inserito nella
realtà della vita e della società.
Probabilmente se riuscissimo a mutare in questo senso la
prospettiva degli attori di questa vicenda, potremmo più facilmente intervenire
sulle debolezze del sistema stesso. E, in particolare, sul disagio
dell’insegnante che deve mediare tra l’istituzione e lo studente, e al quale
viene attribuita la responsabilità individuale dei successi e dei fallimenti,
senza più alcun riconoscimento sociale, senza più un mandato chiaro, senza
alcuna capacità di incidere realmente sui processi formativi. La situazione
generale sembra essere, per lo più, quella di una perdita generale di
consapevolezza del proprio ruolo e della propria funzione. Ma una scuola che
perde la capacità di interrogarsi autenticamente sul proprio lavoro non può che
trovarsi impreparata e distratta di fronte alle difficoltà degli studenti, a
quei disagi che sono frutto del nostro tempo. E a sua volta il disagio dello
studente si riversa sull’insegnante. La leggerezza degli studenti, la loro
incapacità di realizzare comportamenti efficaci e di manifestare profondi
desideri di conoscenza, il disinteresse e l’indifferenza, si ribaltano così
addosso all’insegnante che si ritrova a vivere la propria professionalità in un
ambiente segnato dal malessere, da conflitti di cui non comprende né l’origine
né il senso, così come gli sfugge il senso del proprio operare e ha la costante
e mortificante sensazione di “non lasciare il segno”.
Non è difficile, soprattutto all’inizio dell’anno
scolastico, percepire il disagio con cui gli insegnanti affrontano il loro
mestiere. Senza voler generalizzare, è però sotto gli occhi di tutti il clima
di irritazione che spesso si realizza nelle riunioni e nelle attività comuni,
la scarsa capacità di operare insieme, ma ancor prima la scarsissima
disponibilità allo scambio, al confronto, alla discussione. Il più delle volte
ci si limita a riproporre di anno in anno ciò che è stato già fatto e che
comunque bisogna fare, o che altri istituti hanno già fatto e dunque “dobbiamo
farlo anche noi”, perché la competizione tra scuole è oramai motivo ricorrente
e punto di riferimento nei Collegi.
Così l’insegnante assume spesso un atteggiamento di
disincantata rinuncia, che si manifesta o come abbandono delle proprie
progettualità, che significa ad esempio “tenere un profilo basso”, fare solo il
dovuto, accontentarsi del minimo senza mai rilanciare, senza pensare
l’innovazione, senza dominarla, oppure in una forma di attesa irritata, per cui
si resta all’angolo fino a che qualcuno, il ministero, il mondo politico, il dirigente,
non proponga la novità, il progetto, che quando giungono, ammesso che giungano,
appaiono sempre e comunque inadeguati.
Può sembrare, talvolta, che questi atteggiamenti finiscano
per essere di comodo, perché riducono oggettivamente l’onere del lavoro, ma non
si fa caso abbastanza al fatto che essi manifestano in realtà una reale
condizione di disagio, raramente infatti sono vissuti con serenità ed
equilibrio, nella maggior parte dei casi sono l’effetto di una difficoltà
personale e contribuiscono ad alimentarla.
Certo vi sono motivi strutturali che spiegano questa
condizione di difficoltà diffusa, motivi su cui non intendo qui inoltrarmi. Ciò
che invece mi preoccupa è l’idea che ci si affidi a poco probabili future
trasformazioni della nostra scuola come ad un alibi per perseverare nel proprio
atteggiamento di passività e di rinuncia. Senza cogliere il fatto che
indipendentemente dalle strutture e
dalle loro inefficienze dentro le aule ci siamo sempre noi insegnanti e che la
qualità del nostro lavoro non è soltanto un fatto di “produttività”, anzi non
lo è affatto, se non per chi pensa una scuola sul modello industriale, ma è prima
di tutto la costruzione di un ambiente di
vita.
Così accade che ci si preoccupa, giustamente, della
condizione dei nostri studenti e si inventano i progetti più bizzarri per
migliorare la qualità del loro stare a scuola, senza rendersi conto che per rendere
positivo e accogliente un ambiente è necessario che in esso si ritrovino senza
difficoltà tutte le parti in gioco.
Non si può, dunque, immaginare che gli studenti possano “stare bene a scuola”
se gli insegnanti vi stanno male. Ma il disagio degli insegnanti pare non
essere mai messo a tema, se non a
supporto di qualche campagna giornalistica, o a margine di un confronto
sindacale, cioè in forme essenzialmente strumentali.
Così, dalla mia doppia prospettiva, di insegnante e di filosofo
consulente, sto tentando di osservare le cose mettendo a fuoco prima di tutto
la scena che si realizza quotidianamente nell’ambiente scolastico. Non è
difficile individuare, ad esempio, il disagio che si manifesta attraverso le
varie forme dell’attesa: l’insegnante
precario che attende inutilmente la regolarizzazione della sua posizione,
l’insegnante che vive in perenne attesa di un trasferimento, l’insegnante che
aspetta solo di andare in pensione, quello che aspetta la riforma… Oppure della
delusione: l’insegnante deluso dagli
studenti, deluso dai colleghi, dalle gerarchie, dall’istituzione. E ancora le
incertezze rispetto al fare e non fare:
l’insegnante che vorrebbe fare ma nessuno lo aiuta, e dunque non fa, quello
che farebbe se poi gli altri
riconoscessero il suo lavoro, quello che
ha fatto tanto in passato e ritiene che ora tocchi agli altri, quello che ha un
altro lavoro che gli dà status e risorse. Quello che fa, progetta, partecipa
solo per ottenere un ruolo sociale che altrimenti gli risulterebbe impossibile.
Mettiamoci infine anche l’insegnante che
noi tutti vorremmo essere, quello presente, attivo e partecipe: anch’esso non
può non soffrire di un mancato riconoscimento da parte dei colleghi, delle
gerarchie, degli studenti, e in generale dell’opinione pubblica.
La questione è che, per la natura speciale del suo lavoro,
l’insegnante non può, neanche volendo, separarsi dal frutto del proprio
operare, cioè agire come se fosse uno strumento in mani altrui. L’insegnante
non può fare a meno di esserci, cioè
di essere presente nella situazione, con il proprio linguaggio, le proprie
conoscenze, il proprio modo di intendere lo scambio, le relazioni, i rapporti.
Proprio per questo anche l’atteggiamento rinunciatario, disinteressato e
attendista, per quanto possa creare un vantaggio apparente - la riduzione del
carico di lavoro - in realtà comporta
conseguenze pesanti per l’insegnante che in questo modo si ritaglia un ambiente di vita asfissiante, povero di
scambi e di sollecitazioni, mortificante per la sua professionalità ma
soprattutto per quella parte della sua vita che rientra nel tempo-lavoro e che
sarà per questo vita sottratta, vita rubata, vita alienata.
Forse potremmo riassumere questo disagio dell’insegnante con
una espressione filosoficamente rilevante, potremmo infatti parlare di una
diffusa e profonda crisi di senso,
per indicare la difficoltà che noi operatori della scuola troviamo ogni giorno
nel pensare il nostro lavoro: ignorati dal mondo politico, poco stimati
dall’opinione pubblica, poco riconosciuti sul piano economico - l’unico rilevante nella nostra società -, poco
rispettati dagli studenti che hanno ben altri miti e che vivono il
bombardamento di chi cerca di convincerli che sia più importante la linea, il
look e l’appeal dello studio. È comprensibile che in questa condizione si
diffonda una domanda, senza risposta, rispetto al senso del nostro agire.
Ma come si risponde ad una crisi di senso?
Innanzi tutto dobbiamo chiarire un possibile equivoco: se
qualcuno spera di poter trasformare un lavoratore insoddisfatto in un
lavoratore entusiasta senza modificare le condizioni del suo lavoro, ma
semplicemente trovando la formula di un suo adattamento
non conflittuale alla situazione, certamente si sbaglia. È chiaro che non può essere pensato in questo
modo un intervento di natura filosofica sul disagio dell’insegnante. E la consulenza
filosofica non può prestarsi a simili operazioni perché negherebbero la sua
stessa natura di attitudine riflessiva, di pratica volta alla elaborazione di
un modello di vita esaminata, e quindi di messa in questione di ogni
fondamento, di ogni valore, di ogni nostra convinzione. Non si tratta, dunque,
di dare vita ad un lavoratore che si accontenti beatamente della sua condizione
trasformando le crisi di senso in un ottundimento generale della sua capacità
di leggere criticamente le situazioni
nelle quali è inserito. Non si tratta di fissare certezze, né di offrire
formule morali o modelli etici preconfezionati, quanto piuttosto di individuare
gli strumenti attraverso i quali ognuno può giungere alla propria moralità
individuale, al di là dei luoghi comuni e delle pretese esterne. Ciò non significa, dunque, operare al fine di un
adattamento, quanto piuttosto in funzione di una personale costruzione di
valori a partire dai quali ritrovare il senso del proprio operare quotidiano.
Un senso né pacificato, né conciliante, ma tale da consentirci quantomeno di
contrastare il nostro disagio e di vivere il nostro lavoro, e anche i nostri
conflitti, senza esserne travolti.
Non c’è dubbio che tutto questo dovrebbe avvenire fin dalla
fase della formazione. Come afferma giustamente Luigina Mortari, “la formazione
dell’educatore dovrebbe prevedere percorsi di rielaborazione riflessiva della
propria esperienza allo scopo di comprendere come i propri modi esistentivi
dell’aver cura si vanno modellando. A questo scopo è essenziale sviluppare la
capacità di auto-osservazione critica, che deve avere quello sviluppo temporale
necessario per descrivere analiticamente l’evolversi dei modi propri di stare
nella relazione.”[11]
Nel momento in cui l’insegnante mette piede in classe dovrebbe portare con sé
un bagaglio di attitudini ben sviluppate relative alla sua capacità di far
tesoro dell’esperienza, ad esempio, cioè di interrogarsi sui propri gesti, di
esaminare la situazione in cui si viene a trovare e quindi di mettere in
discussione la rete di relazioni, complessa, avvolgente, intricata che lo
stringe agli studenti ogni volta che fa lezione. Ciò significa per un insegnante aver
acquisito la pratica della cura di sé: “apprendere la tecnica dell’aver cura di
sé è doppiamente essenziale per chi svolge la funzione di educatore dal momento
che la ragione d’essere della pratica educativa consiste nell’aver cura che
l’altro apprenda la passione e la tecnica dell’aver cura di sé e per essere
capaci di promuovere tale atteggiamento è necessario essersi esercitati a lungo
in esso.”[12] Solo
un insegnante autenticamente capace di interrogarsi potrà trasmettere ai suoi
allievi questa essenziale capacità. Ma non sembra che nella scuola italiana si
operi mai in questa direzione. Di qui, allora, tutto quel malesse e quel
disagio personale che prende, talvolta, la forma del cosiddetto burn-out.[13]
Il burn-out, si
badi non è solo la sindrome riconosciuta ma, in generale, credo che dovremmo
fare riferimento a tutte quelle condizioni di frustrazione, apatia,
disillusione, crollo delle motivazioni, e disinvestimento sempre più ampio del
proprio interesse nel lavoro. Atteggiamenti che si riversano dannosamente sugli
studenti ma che finiscono per rendere la vita dell’insegnante una sofferenza
continuamente rinnovata. L’idea che vorrei proporre è che la pratica filosofica
possa positivamente intervenire su di un disagio facilmente riconoscibile e molto
diffuso, prima che esso divenga una patologia. Non si tratta di confondersi con
le pratiche di natura terapeutica, ma di realizzare un modello di “filosofia
come vita vissuta e non come sistema, come ricerca di senso”[14]
, una filosofia che non cura, che non ha cioè né finalità né approcci
terapeutici, ma si prende cura del
disagio dell’esistenza, si assume cioè la responsabilità di interrogarlo e di
metterlo sotto esame. In questo senso, pensare filosoficamente, può servire a
vivere meglio, può aiutarci a scoprire un senso nella vita, e quindi può
contribuire a ridurre le difficoltà esistenziali, e in questo senso, come
sostiene Carlo Molteni, “riflettere sul valore e sui limiti dell’insegnamento
può permettere di prevenire il burn-out
professionale”[15].
Uno dei meccanismi attraverso i quali la filosofia pratica
può agire è sicuramente quello della “trascendenza” rispetto allo specifico
problema. “Trascendere – precisa Molteni – significa aiutare gli insegnanti a
guadagnare una prospettiva più ampia, ad uscire in un certo senso fuori di sé,
in una visione che ridimensiona e legge diversamente la difficoltà”[16].
Il filosofo consulente può agire, in questo senso, tanto lavorando sul gruppo quanto lavorando
sul colloquio individuale, si tratterà di volta in volta di valutare quale tipo
di intervento può essere più efficace, anche se forse, questa è la mia
personale esperienza, gli effetti più interessanti si realizzano proprio
combinando entrambe le prospettive, cioè agendo sia sul gruppo che, secondo la
necessità, sui singoli.
In generale il lavoro con il gruppo di insegnanti, può
essere centrato su esperienze di sostegno, di riconoscimento, di
collaborazione. Il conduttore si
ritaglia un ruolo di facilitatore della comunicazione ma anche di
catalizzatore del dialogo, proponendo di volta in volta le attività, tenendo le
redini del discorso collettivo, tracciando le linee di un percorso. Si può far
uso del dialogo socratico, volto a far emergere una visione più chiara dei
presupposti che bloccano una più critica visione della vita, a favorire l’utilizzo
della ragione riflessiva, e a utilizzare il pensiero creativo per prospettare
nuovi scenari possibili, nello spirito del con-filosofare, attraverso il quale
“formare alla responsabilità comune, alla cultura del dialogo e alla
cooperazione solidale per la soluzione dei conflitti”[17].
Certamente gli incontri devono svilupparsi a partire da un momento preliminare
di epoché, cioè di sospensione del
giudizio, delle logiche comuni, dei pregiudizi, e poi attraverso pratiche
autobiografiche ed esperienziali, dalle
quali può nascere la necessità di analizzare concetti, di criticare stereotipi
sociali, di esplicitare visioni del mondo sottintese. Si possono così mettere
in luce le criticità e gli aspetti positivi dell’insegnare, cioè i limiti del
proprio operare. E si può recuperare collettivamente la categoria della possibilità, nel tentativo di fare della
vita professionale un progetto e non la dichiarazione di una sconfitta.
Insomma, la pratica filosofica può essere una risorsa tanto
nel lavoro con lo studente, quanto nei confronti dell’insegnante, perché
costringe chi se ne serve a una continua messa in discussione del proprio
operato, e si pone come obiettivo non un astratto criterio di efficacia, ma la
realtà delle persone, delle loro aspettative, dei loro diritti, dei loro
desideri, dei loro valori, e soprattutto aiuta
a rompere l’isolamento dei soggetti che vivono dentro la struttura
scolastica, perché parte dal principio della relazione che si instaura fra
essi, una relazione complessa, che si articola sui molti piani e molti livelli,
e che non si riduce ad un fatto tecnico, ma è prima di tutto una questione
esistenziale.
A questo punto, tuttavia, è necessario porci un’altra
domanda: è possibile agire sul disagio intervenendo sulle persone piuttosto che
sulle strutture? Io credo di sì. Ma la risposta ha bisogno di essere
adeguatamente argomentata.
Innanzi tutto bisogna smentire l’idea che si tratti soltanto
di condizioni “individuali”. E ciò significa in primo luogo che ci si deve
difendere da un fenomeno che caratterizza la nostra società, cioè quello della patologizzazione del disagio: il
tentativo, non infrequente, di circoscrivere ogni condizione di difficoltà
personale in termini di disfunzione risolvibile con un adeguato intervento
terapeutico se non addirittura farmacologico. Il disagio dell’insegnante non è
certo una malattia, ma piuttosto una condizione, rispetto alla quale è
possibile intervenire agendo sulla dimensione delle scelte, dei valori, dei
progetti. Cioè sul profilo etico dell’esistenza.
Ciò che è in questione non è quindi un’emozione fuori
controllo, uno stato d’animo, quanto
piuttosto una inadeguata capacità di mettere sotto esame la propria condizione,
il proprio essere nel mondo, cioè la rete delle coordinate in base alla quale
ci orientiamo nelle nostre scelte e nella fissazione dei nostri obiettivi.
Questa incapacità è condizione altamente diffusa in quanto rappresenta
propriamente il segno distintivo del nostro tempo e della nostra civiltà, nella
quale ciò che conta è assumere, da un lato, il ruolo del consumatore convinto e,
dall’altro, quello del funzionario di un Apparato tecnico mediatico per il
quale ogni occasione di riflessione personale appare soltanto come una inutile
perdita di tempo, cioè come una condizione improduttiva e tale quindi da essere
messa sotto accusa.
Da un punto di vista meramente operativo, dunque, la prima
mossa di una strategia volta a fare i conti con il disagio dell’insegnante, è
quella di ritagliare degli spazi e dei tempi all’interno dei luoghi di lavoro,
cioè in situazione, dal momento che,
come si è detto, il disagio non è un fatto privato, ma attiene al modo del nostro
“stare al mondo”. Lo spazio e il tempo così circoscritti, ovviamente, devono
diventare lo scenario di una attitudine autoriflessiva e insieme di scambio
delle ragioni, cioè racchiudere pratiche di cura di sé, quanto pratiche di
condivisione, essere luogo di riflessione personale ma anche di confronto
collettivo. I luoghi del pensare,
potremmo chiamarli, a condizione di comprendere che il pensare solitario, la
riflessione, l’esame di coscienza, rischiano di essere pratiche volte ad un
inutile auto compiacimento narcisistico se non sono accompagnate dal pensare insieme, cioè da un esercizio di colloquio.
In questo senso la pratica filosofica si offre come
strumento adeguato alle nostre scuole, e può offrire le proprie competenze
relativamente alla conduzione della classe, e alle relazioni che intercorrono
tra studenti, docenti e istituzione, sullo sfondo di una rinnovata attenzione
etica, individuale e collettiva, che forse è quanto di più necessario, oggi, per la società stessa.
[1] Alcuni passaggi di questo
lavoro sono stati da me anticipati, in altra forma, nei seguenti articoli:
”Pratiche filosofiche nella scuola”, in Chichibìo,
a. XI, n. 53, mag.-giu 2009; “I luoghi del pensare. Una prima ipotesi intorno
al disagio dell’insegnante”, in Chichibìo,
a. IX, n. 44, set-ott. 2007; “Vite esaminate. L’esercizio dell’autobiografia in
classe, in Chichibio n.40, a.VIII,
novembre-dicembre 2006; “S.O.F.I.A. Lo sportello di consulenza filosofica a
scuola”, in Chichibio n.38, a.VIII,
maggio-giugno 2006.
[2] L. Mortari, La pratica dell’aver cura, Milano: Bruno
Mondadori, 2006, p. 145.
[3] Ibidem
[4] Per andragogia si intende
il discorso pedagogico specificamente rivolto all’adulto. Il riferimento è
ovviamente alle opere di Malcom Knowles,
in italiano si puo leggere Quando
l’adulto impara, Milano: Franco Angeli, 1993 e la formazione degli adulti come autobiografia, Milano: Cortina,
1996. Su questa linea si vedano anche i lavori di Duccio Demetrio, in
particolare Manuale di educazione degli
adulti, Roma-Bari: Laterza, 2003, e Filosofia
dell'educazione ed età adulta. Simbologie, miti e immagini di sé, Torino:
UTET, 2003; e ancora, di D. Demetrio e A. Alberici, Istituzioni di educazione degli adulti Milano: Guerini e associati,
2002; interessante, in questa direzione, il lavoro della rivista «Adultità».
[5] S. Alberti, Pratiche filosofiche a scuola, Vimodrone
(Milano): Ipoc press, 2009
[6] Abbiamo ben presenti le
parole di Umberto Galimberti che rinviene nei giovani d’oggi un “analfabetismo
emozionale” di cui fa colpevole proprio la scuola: cfr U. Galimberti, L’ospite inquietante, Milano:
Feltrinelli, 2007
[7] S. Alberti, Pratiche filosofiche a scuola, cit., p. 143
[8] Mi limito a ricordare,
almeno come punto di riferimento ancora ineludibile, il saggio di Marziano
Guglielminetti Memoria e scrittura.
L’autobiografia da Dante a Cellini,Torino: Einaudi, 1977, e, anche per la
bibliografia, il testo di Duccio Demetrio, Raccontarsi.
L’autobiografia come cura di sé, Milano: Raffaello Cortina Editore, 1995;
sul versante didattico resta fondamentale il testo di Malcom Knowles, La formazione degli adulti come
autobiografia, Milano: Raffaello Cortina Editore, 1996, mentre su quello
filosofico voglio segnalare un piccolo aureo libretto di Maria Zambrano, La confessione come genere letterario, Milano:
Bruno Mondadori, 1997.
[9] S. Alberti, Pratiche filosofiche a scuola , cit., p.
221
[10] Ivi, p. 275
[11] L. Mortari, La pratica dell’aver cura, cit., p. 148
[12] Ivi, p. 152
[13] Per quanto segue mi è
stato utile il bel testo di Carlo
Molteni, Filosofia preventiva. Il
Philosophical Counseling per la prevenzione del burn-out degli insegnanti,
Torino: Isfipp Edizioni, 2009, nella quale l’autore rende conto di un suo
progetto di pratica filosofica con un gruppo di insegnanti.
[14] Ivi, p. 33
[15] Ivi, p. 137
[16] Ivi, p. 47
[17] Ivi, p.64
Questo lavoro analizza con chiarezza la complessità che costituisce il sistema-scuola dall'interno, le dinamiche di scambio e la genesi delle masse critiche. Pur condividendo l'impostazione principalmente focalizzata sulle pratiche filosofiche,la parte di maggior interesse si apre nell'ultimo capitolo, emergendo quale chiave di volta il disagio dell'insegnante. Anche storicamente, il disagio, la crisi, sono spia sentinella, a cui è necessario rivolgere la propria attenzione per comprendere il mutamento di prospettiva sociale in atto e intervenire per portare chiarezza: la stratificazione di senso in formazione genera ammassi critici ed è proprio lì che portare una chiarificazione di senso contribuisce a metamorfizzate il disagio in quel nuovo significante che deve diventare, perché già in atto.
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