STEFANO ZAMPIERI
IRONIA, CREAZIONE, RIDESCRIZIONE. RICHARD RORTY E LA CONSULENZA FILOSOFICA
In M.
L. Martini (a cura di) Filosofie nella consulenza
filosofica, Napoli, Liguori, 2013, pp. 7-32
Pratica filosofica e post-filosofia
Ciò che comunemente chiamiamo pratica
filosofica è una disciplina che si è sviluppata negli ultimi tre decenni, in
modo abbastanza confuso, da una prima intuizione di Gerd Achenbach che poi ogni
filosofo pratico ha, di fatto, coniugato diversamente, in funzione dei propri
percorsi, delle proprie attitudini, ma anche delle sensibilità culturali più
specifiche di un paese o di un altro.
Così, essa è cresciuta nutrendosi variamente
di psicoterapie e di psicoanalisi, di filosofia esistenziale e di filosofia
morale, con una spiccata predilezione per alcuni autori che, non a caso,
sembrano costituire riferimento obbligato e quasi esaustivo. Ora, è certamente
vero, ad esempio, che la rilettura della filosofia antica proposta da Hadot e
Foucault deve essere intesa come un passaggio necessario per addentrarsi nella
pratica filosofica, tuttavia assistiamo
al rischio che si compia un passo ulteriore verso uno schiacciamento
progressivo della pratica filosofica su certi autori antichi, in modo
particolare su una forma di stoicismo alla buona che sembra prestarsi molto
efficacemente a fornire soluzioni semplici al disagio contemporaneo attraverso
parole d’ordine come equilibrio, non attaccamento, imperturbabilità, benessere,
felicità, serenità, cura dell’anima,
ecc. che sembrano fatte apposta per essere usate come terapia a basso costo per
combattere la condizione di stress
che l’accelerazione dei tempi, dei gesti, degli impegni, tipica dell’attuale
società dei consumi, impone a tutti noi.
Purtroppo l’abuso di questi riferimenti
trasforma, talvolta, la pratica filosofica in un tentativo, piuttosto ingenuo,
di condizionamento, se non addirittura in una forma di ammaestramento. Ma la
pratica filosofica è ben altro. Per questo vorrei provare a uscire dai
riferimenti classici e mostrare, piuttosto, le affinità e le sintonie con
alcuni risvolti attualissimi di quella filosofia contemporanea che viene
definita comunemente post-modernismo
e che ha in Richard Rorty il suo principale punto di riferimento.
Tale accostamento, ad alcuni potrà apparire singolare,
ma basta fare un piccolo passo indietro ed assumere una visuale un po’ più
ampia per rendersi conto che, forse, c’è un motivo se nello stesso momento,
all’inizio degli anni ’80, nascevano, senza alcun contatto, sul continente
europeo la pratica filosofica di Achenbach, ovvero il tentativo di radicale
revisione di una disciplina destinata a sopravvivere “in un ghetto accademico,
dove ha perduto il rapporto con qualsiasi problema che opprime realmente gli
uomini”[1]; mentre dall’altra parte dell’oceano si
affermava con Richard Rorty dapprima una radicale messa in questione
della filosofia analitica, dominatrice indiscussa della scena accademica
americana, e poi della filosofia tout
court attraverso il tentativo di far scendere dal suo trono la disciplina
filosofica, e di metterla sullo stesso piano della letteratura nel grande scenario
della conversazione collettiva.
Due modi completamente diversi di affrontare
la stessa difficoltà, due narrazioni differenti della filosofia entrambe
impegnate a ricollocare la dimensione filosofica su un piano nuovo, da un lato
per uscire da una dimensione accademica ormai autoreferenziale in modo
claustrofobico, dall’altra per farla finita con la pretesa un po’ esagerata, un
po’ snob, della filosofia di avere l’ultima parola sulle questioni che
riguardano il destino dell’umanità. Due forme di decostruzione, due forme di
revisione. Probabilmente un’unica necessità, ridare vita a un organismo
morente.
A questo punto, però devo chiarire, a scanso
di equivoci, che la mia prospettiva è sempre quella della pratica filosofica, e
che il mio modo di leggere gli autori non muove affatto da un’adesione ai
principi e alle prospettive che essi rappresentano; la pratica filosofica,
infatti, non ha autori di riferimento, proprio perché si rapporta in altro modo
al corpus della letteratura filosofica, osservandolo in controluce, alla
ricerca di quanto corrisponde all’esperienza che di volta in volta vien messa
in discussione.[2]
In questo senso è possibile rapportarsi agli
autori senza alcuna necessità di prendere posizione o di schierarsi in funzione
delle schematiche contrapposizioni su cui si affanna la critica, si tratti
della polemica tra analitici e continentali o di quella tra essenzialismi e
relativisti.
In questo caso, dunque, vorrei provare a
mostrare la grande utilità di alcune riflessioni di Rorty per comprendere e
descrivere quello che, secondo me, cioè in base alla mia esperienza, è il reale
sviluppo del dialogo filosofico. A partire da quella che possiamo considerare
come la tesi di riferimento di Rorty, cioè la sua obiezione al
“rappresentazionalismo” (representationalism)
che egli formula in molti modi diversi a partire dall’opera che lo ha reso
famoso, La filosofia e lo specchio della
natura del 1979, ma che qui vorrei riprendere però da una formulazione più
recente: “Per teoria antirappresentazionalista intendo una teoria che
concepisce la conoscenza non come una corretta comprensione della realtà, bensì
come l’acquisizione di abiti di azione per fronteggiare la realtà.”[3] A
me pare che questa tesi corrisponda in pieno all’esperienza della consulenza
filosofica: eliminare o meglio superare il rappresentazionalismo significa,
come sintetizza magnificamente il principale interprete italiano di Rorty, Aldo
Giorgio Gargani, superare “la tesi che le interazioni fra gli uomini e la
realtà consistono di raffigurazioni, di immagini, di metafore visive, di
paradigmi oculari. Parlare, dire, asserire, domandare, rispondere non sono modi
di rappresentare la realtà, di porsi faccia a faccia con il mondo, ma sono essi
stessi azioni, modi di spuntarla con l’ambiente, strumenti per far fronte alle
perturbazioni, all’alea delle turbolenze che si originano dal mondo esterno.”[4]
L’uomo interagisce costantemente con gli
altri uomini e con le cose, e dunque la sua ragione non consiste tanto di una
obbedienza a regole e criteri stabiliti in linea di principio, quanto piuttosto
nella “partecipazione al processo di una comunicazione non distorta da dogmi,
autorità, violenza, tollerante, solidale, disponibile all’ascolto, alla
ricezione delle opinioni e dei bisogni degli altri, alla persuasione anziché
alla costrizione.”[5] Ma
questa ragione dialogica, tollerante, disponibile all’ascolto, è esattamente
quella che si mette in gioco nella situazione della consulenza filosofica. Tornerò
su questo aspetto della ragione, ma deve essere chiaro fin da subito che una
singolare sintonia lega immediatamente l’esperienza del dialogo filosofico e il
punto di partenza dell’esperienza filosofica di Richard Rorty. Un’esperienza
che egli chiama “pragmatista” con specifico riferimento alla tradizionale
corrente filosofica di James, Peirce e Dewey, ma come ho appena detto, con
molta libertà. Spesso egli sembra pensare alla filosofia pragmatista –
intendendo di fatto la sua filosofia – nella forma wittgensteiniana della
“terapia del linguaggio”, nel senso che la sua funzione sarebbe quella di
liberare da convinzioni vecchie e inadeguate: “Penso al pragmatismo – dice
Rorty – in primis come a una terapia filosofica – una terapia plasmata dai
filosofi che ci hanno preceduti. Nella misura in cui leggere il pragmatismo ti
libera da diverse abitudini e convinzioni, lo fa come lo farebbe un testo
sorprendentemente innovativo. Ti fa pensare: «Santo cielo, non avevo mai
pensato a questo modo di vederla!» Ma una terapia non è la stessa cosa che dare dei criteri, o una
teoria.”[6]
Anche Gargani ci conferma in q uesta lettura in base alla quale la
filosofia per Rorty avrebbe il compito sostanzialmente terapeutico di
“liberarci dalla tentazione di arrampicarci con la mente là dove nessuna mente
umana può installarsi”[7],
cioè nella posizione extra-umana, metafisica, da cui poter vedere il rapporto
tra rappresentazioni e realtà, la posizione di un Dio.
Una tale terapeutica non dà luogo ovviamente
a criteri forti, a teorie solide e definitive, ma porta piuttosto a
“ricontestualizzare la tradizione culturale del passato allo scopo di elaborare
un’autoimmaginazione creativa dell’uomo suscitata dalla continua ritessitura
dei suoi desideri e delle sue credenze.”[8]
L’operazione che dunque la filosofia ci porta a realizzare non è tanto la
formazione di teorie garantite, né quella della elaborazione di sistemi
articolati in cui far rientrare ogni aspetto della nostra esistenza, molto più
prosaicamente si tratta di una operazione legata a quello che Rorty chiama il nostro vocabolario.
La costruzione del vocabolario
La prima figura su
cui vorrei soffermarmi è proprio questa decisiva che ci offre il gesto della
costruzione del vocabolario personale: “Tutti
gli uomini dispongono di un certo numero di parole di cui si servono per
giustificare le proprie azioni, le proprie convinzioni e la propria vita. Sono
le parole con cui esprimiamo stima per gli amici e disprezzo per i nemici, i
nostri progetti a lungo termine, le nostre più profonde incertezze su noi
stessi e le nostre più grandi speranze. Sono le parole con cui raccontiamo, a
volte guardando al futuro e a volte retrospettivamente, la storia della nostra
vita.”[9]
Ognuno di
noi possiede il proprio vocabolario,
le proprie parole, quelle che ci consentono di esprimere la nostra vita, di
definirci, di esibire un’identità, e dunque di raccontarci, di momento in
momento, di dare voce alle nostre attese quanto alla nostra memoria, alla
nostra indignazione, quanto alla nostra speranza, alle gioie, ai dolori, ai
progetti, ai fallimenti. Ogni volta che ci mostriamo al mondo, ogni volta che
parliamo di noi, ogni volta che ci mettiamo in questione, di fronte al
tribunale della ragione, o nelle sacche delle lamentele, ogni volta non
possiamo che servirci di questo vocabolario nel quale sono elencati valori e
disvalori, fatti e sentimenti, idee e immagini. Da esso peschiamo, in esso ci
orientiamo quando dobbiamo produrre un discorso.
Di fronte a
questo vocabolario personale, è possibile adottare un duplice atteggiamento. È
possibile, in primo luogo, una forma di accettazione incondizionata che
identifica il nostro vocabolario con quello del senso comune e dà così per
scontato che esso sia perfettamente valido per comunicare con gli altri, perché
capace di ridurre le differenze ad un fondo comune valido universalmente, il
fondo contenuto nella risposta alla classica domanda socratica: “Cos’è X?”,
cioè la risposta che presuppone un’essenza.
Certo non si tratta, propriamente, di trovare l’essenza di ogni concetto, ma
semplicemente di ammettere che ogni nostra parola possa essere ridotta ad essenza, perché si riferisce a qualcosa che
ha un’essenza. Possiamo, seguendo Rorty, chiamare questo atteggiamento metafisico e vedere in esso il modo
d’essere proprio di colui che si rivolge ad un consulente filosofico
sottoponendogli un problema la cui soluzione gli sfugge di mano. Costui è
convinto che il difetto del suo ragionamento possa essere sanato attribuendo un
senso corretto al suo vocabolario (cioè all’insieme, egli direbbe, delle sue
parole e dei suoi pensieri), dal quale non riesce a staccarsi, e nel quale
vuole invece trovare quella verità che gli manca, ma che deve pur esserci.
Quella verità della vita e delle cose che gli impedisce di fare una scelta importante, o che gli rende così
difficile la vita matrimoniale, o professionale, che gli determina quel
disorientamento, quel senso di incapacità, dal quale non riesce a liberarsi.
Allora, da
questo punto di vista, si tratta soltanto di interrogare concettualmente la
realtà perché così facendo si potrà chiarire quel vocabolario che il singolo ha
ereditato da un tempo e da una cultura, e che deve in fondo, secondo questa
logica, essere soltanto chiarito, rischiarato, attraverso un confronto serio
con la realtà delle cose come sono lì
fuori. Non avremmo fatica a vedere in questa forma di realismo ingenuo, in
questo atteggiamento che, seguendo Rorty, abbiamo chiamato metafisico, non
soltanto il più diffuso luogo comune del consultante, ma anche una altrettanto
diffusa convinzione operativa della consulenza filosofica. Convinzione pienamente
legittima, e nella quale io stesso mi riconosco, ma non esclusiva, nel senso che essa arroga a
sé una verità che può anche essere pensata altrimenti, e che l’esperienza ci
spinge a pensare altrimenti. Così come proverò a fare seguendo Rorty.
Spostiamoci
allora sul campo dell’altro atteggiamento possibile di fronte a questo
vocabolario personale che ci consente di rappresentarci. Ecco che incontriamo,
invece, chi considera il proprio vocabolario come soggetto al dubbio, dubbio
che non può essere sciolto attraverso una qualsiasi argomentazione che si serva
di quello stesso vocabolario.
Costui non
pensa che il proprio vocabolario sia più vicino alla verità di quello degli
altri, così come non pensa che si possa trovare una sintesi comune dei vocabolari,
tale da fissare un campo di conoscenze definite. Non crede che la parola possa
essere ridotta ad una qualche essenza. Egli dunque vive nella “situazione di chi non è mai del tutto capace di
prendersi sul serio perché è sempre consapevole che le parole con cui si
autodescrive sono destinate a cambiare, di chi è sempre cosciente della
contingenza e fragilità del suo vocabolario, e quindi di se stesso”[10].
Possiamo dunque chiamare costui l’ironico,
e altresì possiamo vedervi una prima immagine del filosofo consulente che ha
accolto l’idea di mettersi in gioco nell’evento del colloquio. L’ironia,
dunque, deve essere intesa come la capacità che tutti possediamo di descrivere
e ridescrivere – tornerò su questo termine essenziale - , di farci vedere le
cose in un certo modo e al contempo è ciò che ci spinge a chiederci se, a
fronte di una difficoltà sopravvenuta, non ci sia un modo migliore di raccontare
il mondo, un modo che ci risulti più
funzionale, più efficace, più adatto alle nostre esigenze.
Per l’ironico
nulla possiede una essenza rinvenibile dal confronto con la realtà. Ed è quindi
costretto a ricorrere ad espressioni come visione
del mondo, schema concettuale, prospettiva, per descrivere il campo di
valori e di conoscenza su di sé nel quale è inserito. Egli sa che la sua
visione del mondo, il suo schema concettuale, cioè il suo vocabolario, gli
consentono di presentarsi al mondo, di darsi una realtà privata e pubblica, e
allo stesso tempo una autodescrizione, in tutte le situazioni in cui questo sia
richiesto. Ma sa anche che ciò non
rappresenta una verità assoluta, nè lo specchio di una realtà immutabile.
Non si tratta dunque, per lui, di confrontare il suo linguaggio con
qualcos’altro, con quello che sta lì fuori, e di ricavare così, in base alla
più o meno marcata corrispondenza, un criterio di verità.
Attenzione
però a non equivocare, come accade negli ambienti anti-relativisti, che
riducono spesso queste formulazioni a slogan molto superficiali, alquanto
irreali e quindi più facili da confutare. Che non vi sia una realtà lì fuori in
base a cui stabilire la verità assoluta dei miei discorsi, non significa
affatto che non ci sia una realtà lì fuori alla quale rapportarsi
continuamente. Il nostro discorso, e ancor più il discorso che si produce nel
dialogo filosofico, non ha senso senza il riferimento alla realtà vissuta
concretamente dall’ospite, il quale piuttosto ha l’onere faticoso di mettere
costantemente alla prova quanto realizzato nel dialogo, perché solo dal
confronto con l’esperienza vissuta, le proprie affermazioni, il proprio
vocabolario, possono acquistare un senso di autenticità.
Al
contempo, se guidata da un atteggiamento “ironico” così come inteso qui, il
nostro ospite – o noi stessi come filosofi consulenti – non si sentirà per
questo autorizzato a pensare che il proprio vocabolario sia definitivamente
fondato su una verità oggettiva. Se cadesse in questa trappola, ben presto si
ritroverebbe a fare i conti con il proprio disagio, di fronte ai mutamenti
della realtà, dei fatti, delle situazioni, per le quali il suo vocabolario
apparirà irrimediabilmente invecchiato e inefficace: se ora che ho passato la
mezza età continuassi a rapportarmi al mondo con gli stessi termini che mi
erano consueti a vent’anni non avrei la possibilità di interpretare
adeguatamente il mondo in cui vivo, la mia realtà di oggi, che non è più quella
di trenta anni fa. Ma si pensi alla situazione, frequente, in cui un
consultante si trova a vivere con difficoltà un passaggio generazionale, per
esempio quello dalla fase lavorativa alla fase del pensionamento. Simile
passaggio richiede una profonda revisione del proprio assetto esistenziale a
partire appunto da una profonda revisione del proprio vocabolario. Quanto era
“vero” nella fase precedente appare improvvisamente inadeguato non perché prima
fosse falso, ma solo perché ogni vocabolario esige di essere revisionato al
mutare della situazione circostante.
In questo
senso, possiamo leggere meglio una definizione dell’ironista e del metafisico:
“L’ironista è, grosso modo, un nominalista e storicista che cerca di non
dimenticare che il vocabolario della deliberazione morale da lui utilizzato è
un prodotto della storia e del caso, del suo essere nato in un certo tempo e
luogo; il metafisico crede invece nella esistenza di un solo vocabolario della
deliberazione morale che si possa dire giusto e corrispondente alla realtà, e
in particolare alla nostra umanità essenziale.”[11]
L’ironico,
dunque sa di dover essere pronto alla revisione del proprio vocabolario, senza
per questo ritenerlo falso. Non bisogna, cioè, cadere nell’errore dello
scetticismo , che portato all’estremo rende impossibile l’azione, o la affida
ai valori più bassi e inconfessati dell’individuo. L’ironico non è un
relativista scettico, è piuttosto individuo capace di mobilità intellettuale e
dunque sociale, capace di una riflessività applicata alla propria esistenza e a
quelle altrui, “la tolleranza è la principale virtù sociale dell’ironista e la
flessibilità la sua più importante virtù privata”[12]
Il metafisico, invece, ritiene che il problema
della sua esistenza si possa affrontare mettendo in discussione i termini più
deboli del suo vocabolario, cioè quelli più indefiniti: “vero”, “buono”,
giusto”, “persona”, e quindi cerca un’argomentazione logica che possa fare ordine
tra le contraddizioni delle sue proposizioni. Proviamo a confrontarci con una
precisa situazione dialogica. Immaginiamo un ospite che affermi:
-
Voglio cambiare
lavoro, perché questo non mi soddisfa ma non voglio fare cambiamenti che
mettano in crisi gli equilibri della mia vita.
Entrambe le
affermazioni / convinzioni (voglio cambiare lavoro / non voglio fare
cambiamenti), sono plausibili per quanto evidenzino una contraddizione di fatto.
Il metafisico prova allora a ragionare su di esse, definendo il termine
“lavoro”, facendo luce su cosa significhi “essere soddisfatti”, chiedendosi
cosa significa “cambiare”, e su cosa si basino gli “equilibri” e cosa
significhi “metterli in crisi” e cosa sia una “crisi”, ecc. Così facendo potrà interrogare con lucidità la contraddizione
insita nella visione del mondo del consultante, e forse finirà per far emergere
la sua visione del mondo, o almeno la porterà ad esplicitazione, e quindi ricaverà
la sensazione di avere fatto ordine nel vocabolario dell’ospite.
Il metafisico,
in questo modo, attraverso una serie progressiva di scoperte intorno alle
questioni chiave dell’esistenza, ha la convinzione di essersi avvicinato alla
vera essenza della realtà.
È del tutto
possibile che un colloquio filosofico così costruito (“metafisicamente”
costruito potremmo dire) realizzi il suo intento preliminare, cioè fare
chiarezza intorno al problema proposto. Diciamo pure che spesso una fase del
colloquio è proprio questa relativa al chiarimento e alla fissazione dei
significati. C’è un momento del colloquio, dunque, nel quale ci dobbiamo
comportare come “metafisici” nel senso di Rorty, perché abbiamo bisogno di
fissare con ragionevole stabilità il significato essenziale dei termini che
usiamo e dei concetti che mettiamo in discussione. Ma anche perché è ciò che,
di fatto, sembra chiederci almeno inizialmente, il nostro ospite alla ricerca
di una chiarezza che gli sfugge.
Tuttavia se
pensiamo che la cosa si esaurisca qui siamo fuori strada. La questione è che
nella consulenza filosofica non si tratta semplicemente di fare chiarezza e di risolvere
problemi, quanto piuttosto di creare
stabili propensioni ad affrontarli. E allora un atteggiamento “metafisico”
nel senso descritto, pur sicuramente utile e persino necessario, non è però mai
sufficiente.
La persona
che abbia ragionevolmente affrontato un percorso di consulenza così
“metafisicamente” impostato, e che abbia “fatto chiarezza” intorno al suo
problema, potrebbe non essere affatto in grado di affrontare il proprio
disagio, e molto probabilmente all’ostacolo successivo si troverà nella
necessità di rifare lo stesso percorso e di scoprire nuove verità, e di
avvicinarsi ancora di più alla presunta essenza di sé e delle cose. In un
movimento di continua interrogazione, di esame, di cura di sé, che rappresenta
una delle possibili modalità della vita filosofica.
Ma non la
sola.
Torniamo ad
osservare l’atteggiamento di quello che abbiamo invece chiamato l’ironico. L’ironico sa che il proprio vocabolario non
rappresenta tanto lo specchio un po’ opaco della natura, cioè il mezzo per
avvicinarsi progressivamente ad una ipotetica essenza delle cose, quanto
piuttosto una possibilità che si può rivelare, ad un certo punto, inefficace
rispetto alla sua vita. Così, nel momento in cui qualcosa in lui produce
incertezza, sofferenza, necessità di rivedere il proprio essere, non cerca le
ragioni interne nel proprio vocabolario, ma prova a rinnovarlo.
“Quando
cerca un vocabolario decisivo migliore di quello che sta usando al momento
impiega, per descrivere il proprio comportamento, le metafore della creazione e
non quelle della scoperta, della diversificazione e della novità e non della
convergenza verso qualcosa di preesistente.”[13]
In questo senso, mentre il metafisico crede nelle argomentazioni e nelle logiche
conseguenze del discorso, l’ironico crede piuttosto nella ridescrizione, cioè nella creazione di un vocabolario nuovo nel
quale le vecchie domande non trovano risposta semplicemente perché vi risultano
improponibili.
Così, se
riprendiamo il caso precedente, la questione del cambiare o meno lavoro può
trovare una collocazione del tutto diversa, che si riassume in una affermazione
di questo tipo:
-
Vivere ogni
giorno nel luogo in cui gli altri mi accettano e mi ascoltano ed io posso
parlare, è fonte di ricchezza per me.
A questo
punto, dunque, non si tratta più di fissare e chiarire significati di un
vocabolario vecchio, cioè di quel vocabolario nel quale la domanda iniziale è
sorta, e con essa la contraddizione che ha prodotto il disagio. O meglio: la domanda
“Devo cambiare lavoro?”,
irrisolvibile nei termini precedenti (perché associata al presupposto “Non voglio fare cambiamenti”), non ha
più senso. Perché il vocabolario nuovo impone una nuova domanda. E il
vocabolario nuovo si rivelerà migliore di quello vecchio se in esso la domanda
non sarà più viziata dalla contraddizione (oppure, sarà coinvolta in un sistema
di contraddizioni più tollerabile). Nel
nuovo vocabolario è diversa la domanda, dunque, prima ancora della risposta.
E da essa ne discenderà una analitica del tutto diversa, che metterà in gioco
termini nuovi, accettazione, ascolto, possibilità di espressione, ricchezza
povertà dell’esistenza ecc.
È chiaro
che attribuire in modo rigido l’atteggiamento metafisico al consultante e
quello ironico al consulente sarebbe una forzatura inaccettabile. E d’altra
parte qui, in generale, non si accoglie la contrapposizione rigida che propone
invece Rorty. Entrambi gli atteggiamenti, infatti, si incarnano in ognuno di
noi. Ed è altresì vero che abbiamo bisogno di entrambi, in momenti diversi,
nelle diverse fasi del colloquio filosofico, ma ciò non significa che i due
atteggiamenti siano equivalenti, perché il modo d’essere che abbiamo definito
metafisico risulta comunque decisamente meno stabile di quello che abbiamo
definito ironico, anche se potrebbe sembrare il contrario. In realtà accade che
la pretesa essenzialistica del metafisico finisce per essere continuamente
messa in crisi dal succedersi degli eventi e della realtà che ci mostrano
quanto le supposte essenze trovate una volta non siano mai veramente tali. E
d’altra parte, invece, l’atteggiamento apparentemente più relativistico e,
quindi, più instabile, dell’ironico, dovrebbe risultare capace di determinare
quell’attitudine alla continua ridefinizione del nostro vocabolario che ci
mette in condizione di affrontare le difficoltà. Il metafisico deve
ricominciare ogni volta da capo, l’ironico acquisisce un’attitudine[14].
Certo è
anche vero che l’atteggiamento ironico dovrebbe
essere quello del consulente, innanzi tutto per sé, perché soltanto un
atteggiamento di questo tipo rende possibile un confronto sereno con gli altri
vocabolari, e scongiura l’idea di cercare fra essi una composizione, una
ragione comune sottostante (o trascendente, a seconda dei punti di vista). Il
filosofo consulente per fare bene il suo lavoro deve sapere, invece, che ognuno
coltiva il proprio vocabolario ma che questo si arricchisce proprio dal
confronto e dallo scambio, deve sapere che il destino dell’uomo è quello di
passare attraverso una continua ridescrizione di se stesso, cioè attraverso una
serie di mutazioni del suo vocabolario, che deve ricreare ad ogni svolta della sua vita. E in questa
operazione è fondamentale il confronto con un altro vocabolario: ecco perché il
colloquio filosofico è così importante, perché esso ci mette di fronte un altro
vocabolario e così può indurci a quella opera di creazione del vocabolario nuovo
di cui noi stessi abbiamo bisogno. Ed ecco infine perché è così importante che
il filosofo consulente si sappia muovere come un metafisico, ma abbia adottato
una prospettiva ironica, perché è solo alla luce di essa che il confronto può
prodursi efficacemente, cioè senza tentazioni universalistiche, trascendentali,
essenzialistiche, cioè in definitiva senza illusioni.
Una possibile obiezione: ironia e sincerità.
L’ipotesi
dell’atteggiamento ironico come uno dei fondamenti del colloquio filosofico che
qui sto sostenendo si espone a una giusta critica alla quale è necessario
rispondere immediatamente. Perché appare abbastanza chiaro il rischio che un
simile modo di rapportarsi al dialogo potrebbe comportare, che è poi la stessa
trappola in cui cade un certo pensiero post-moderno. L’atteggiamento ironico,
infatti, portato all’estremo, non contenuto, scivola inesorabilmente in una
condizione di profonda e definiva mancanza di sincerità. Non sarebbe più
possibile cioè fermare il movimento continuo dei vocabolari, e di conseguenza
soprattutto non sarebbe più possibile rinvenire quel margine di coerenza tra
convinzioni personali, credenze e desideri, e azioni che noi prendiamo in esame
ogni volta che cerchiamo di rispondere alla domanda rispetto alla sincerità di
colui che ci sta di fonte (e quindi specularmente anche rispetto alla nostra).
Un atteggiamento ironico fuori controllo, senza limite, renderebbe di fatto
impossibile per il singolo l’assunzione
di responsabilità rispetto alla propria azione. Perché se considero che il
vocabolario sia esclusivamente mio e quindi infinitamente ridescrivibile, e non
mi rendo conto che esso è invece “nostro” cioè appartiene ad un tempo e a uno
spazio, ad una comunità di valori e di significati, ad una rete di relazioni, mi sottraggo tanto alla possibilità di
condividere me stesso quanto alla possibilità di agire in modo razionale e
indipendente in quella condizione. È vero che io posso continuamente ricreare
la descrizione di me, quindi intervenire sul mio vocabolario (è quello che
facciamo sempre nella realtà della nostra esistenza), ma è anche vero che il
nostro vocabolario è, nello stesso tempo,
anche il nostro agire, esso non è soltanto un tessuto di suoni e di
significati ma è anche l’insieme dei nostri gesti delle nostre scelte, del
nostro muoverci, del nostro toccare, del nostro esserci quotidiano nei
rapporti, nei conflitti, nell’economia del dare e del ricevere che costituisce
l’esistenza.
In questo
senso, dunque, ha ragione Alasdair MacIntyre nel rilevare che il vocabolario
assunto in modo ironico per comprendere e giustificare i miei gesti all’interno
di una situazione “non è mai semplicemente mio.
È sempre nostro.”[15] Esso, cioè, consiste sempre “di una serie di
espressioni condivise esposte a usi condivisi, usi che sono incarnati in una
vasta gamma di pratiche comuni di dare e ricevere, in una forma comune di vita”[16].
Se non fosse così, il distacco ironico finirebbe per determinare un prendere le
distanze dal nostro linguaggio comune e dai nostri giudizi condivisi e con
questo dalle relazioni sociali che presuppongono l’uso di quel linguaggio nel
formulare quei giudizi.”[17]
Ma non è possibile realmente separare la cautela ironica rispetto al
vocabolario che adottiamo (cioè al sistema di valori e significati che ci
orienta nella vita), e che esprime il nostro impegno nel mondo, da
quell’impegno, cioè dal concreto nostro agire nel mondo, rispetto al quale
abbiamo una responsabilità che non può essere annullata da un continuo
arretramento, in una continua presa di distanza dal nostro gesto: a questo
punto quel che ci può salvare da questo pericolo, è proprio la nozione che io propongo
di verità locale[18],
cioè una formula che ci consenta
di tenere assieme l’ironia in quanto atteggiamento filosofico di continua
interrogazione rispetto ad un mondo privo di essenze definitive, e la
necessaria adozione di valori, criteri e significati in base ai quali assumere
le nostre responsabilità nel mondo: la verità locale è tale per cui so che essa
non ha fondamento metafisico e quindi è incollata saldamente al suo tempo, al
suo spazio, alla comunità in cui si realizza e alla storia da cui fuoriesce, ma
è abbastanza ferma da consentirmi di assumere in base a essa le scelte
responsabili che la mia condizione di uomo mi impone e delle quali sono tenuto
a rispondere.
Questa
considerazione ci consente, insieme, di correggere l’impianto ironico di Rorty
senza però accettare la conclusione negativa che ne propone McIntyre, secondo
il quale in definitiva “non ogni tempo è un tempo per l’ironia” e dunque “ci
sono anche tempi nei quali la critica deve essere messa da parte”[19].
A mio avviso, alla luce della considerazione suesposta, l’atteggiamento ironico
è fondamentale per scongiurare il rischio della fissità impropria e inadeguata
delle nostre comprensioni del mondo, ma non deve essere tale da rendere
impossibile l’assunzione di valori sufficientemente stabili da poter essere
presi per punti di riferimento nella vita, nelle scelte, nelle assunzioni di
responsabilità.
L’io: rete di credenze
Sulla scorta del pragmatismo di Peirce,
Rorty considera l’individuo come un insieme indistricabile di credenze e di
desideri, ove, si noti, i desideri a
loro volta potrebbero essere intesi come particolari forme di credenza. L’io
individuale consiste proprio in questa rete che è immediatamente azione
superando qualsiasi rigida distinzione o separazione tra mente e corpo. “La
rete delle credenze – dice Rorty – va considerata come un meccanismo che non
solo si ritesse da sé, ma produce anche movimenti nei muscoli dell’organismo,
movimenti che spingono quest’ultimo all’azione. Le azioni dell’organismo,
spostando oggetti nell’ambiente circostante, producono nuove credenze da
intessere, che a loro volta producono nuove azioni, e così via per l’intero
arco dell’esistenza dell’organismo.”[20]
Mano a
mano, dunque, ognuno di noi rinnova le proprie credenze a confronto con
le esperienze che la vita propone, o per effetto di inferenze o di metafore,
cioè percorsi immaginativi. Quando il rinnovamento diviene consistente si può,
secondo Rorty, parlare di un nuovo
contesto.
“Questo nuovo contesto può essere una nuova
teoria esplicativa, una nuova classe di confronto, un nuovo vocabolario
descrittivo, un nuovo fine privato o politico, l’ultimo libro che abbiamo
letto, l’ultima persona con cui abbiamo parlato; le possibilità sono infinite.”[21] Si
tratta dunque di assecondare questa naturale capacità dell’individuo di
rideterminare il proprio contesto, cioè il quadro entro cui sistema le proprie
credenze e quindi il proprio agire. Questa risistemazione, è ciò che stiamo
chiamando con Rorty “ridescrizione”, e che io ritengo sintetizzi il principale
meccanismo di trasformazione indotto dal dialogo filosofico.
È chiaro, però, che tutto questo comporta
una profonda e impegnativa revisione della nozione di “coscienza”, in base alla
quale possiamo affermare che “non c’è niente di male nel continuare a parlare
di un’entità distinta chiamata «l’io», costituita dagli stati mentali
dell’uomo: le sue credenze, desideri, stati d’animo, ecc. La cosa importante è
pensare che la collezione di quelle cose è
l’io, non qualcosa posseduta
dall’io.”[22]
È opportuno, dunque, secondo Rorty,
liberarsi della tradizionale idea dell’occhio
interiore che scandaglia e ispeziona gli stati interni dell’io. Al suo
posto è possibile pensare in modo più efficace e più coerente con l’esperienza,
l’immagine della rete di credenze e
desideri che continuamente si ritesse a contatto con la vita vissuta, con nuove
esperienze, con nuove credenze e nuovi desideri. È certamente molto complesso
ripartire da questa nozione rinnovata di coscienza senza più un “vero io”
proprietario di credenze e desideri, senza più un “centro dell’io” da
identificare e raggiungere e addomesticare.
Da questo punto di vista dire che l’io non è qualcosa che possiede credenze e
desideri, ma è piuttosto la rete di tali credenze e desideri, comporta anche
dire che “possedere una credenza o un desiderio significa possedere un filo di
un vasto ordito”[23],
ciò che qualunque filosofo consulente ha sperimentato nel corso di ogni dialogo
filosofico, venendo a contatto con la labirintica disposizione di argomenti e
di racconti attraverso i quali ogni consultante prova a collocare se stesso nel
dialogo. In questa rete caotica il filosofo prova non solo a portare un po’
d’ordine e di chiarezza, ma anche a determinare una qualche mutazione che
consenta al consultante di affrontare al meglio il proprio disagio. Si tratta
dunque di realizzare una forma di persuasione – ma dal punto di vista del
consultante, non da quella del filosofo! – tale persuasione determina la
ridescrizione, cioè la revisione radicale della rete di credenze che
costituisce il nostro io.
Così, “una volta che si rinunci ai tentativi
metafisici di trovare un «vero Sé» per l’uomo, possiamo continuare a parlare
nella veste dei Sé storici contingenti che scopriamo di essere.”[24]
Percezione, inferenza, immaginazione.
Ho
già accennato al fatto che la prospettiva della consulenza filosofica è quella
che punta alla ridescrizione
dell’ospite, cioè ad un suo cambiamento inteso come una nuova tessitura della
rete delle credenze e dei desideri che lo individualizza.
Ma
come ciò può accadere? In che modo una nuova credenza si aggiunge e si colloca
accanto o in sostituzione di quelle precedenti? È una domanda essenziale per il
filosofo consulente che lavora proprio in vista di questo. In che cosa
consiste, in definitiva, l’invenzione di nuovi vocabolari? Consiste
nell’”introduzione di nuovi modi di parlare, giudicati in quel momento più
efficaci o comunque preferibili a quelli in vigore”[25], nuovi modi di parlare che consentono di
fare cose nuove o di fare diversamente le cose che si facevano prima. Chiariamo
subito: non bisogna credere che la soluzione dei problemi del consultante sia
circoscritta alla sfera linguistica, non è una soluzione puramente linguistica.
Certo essa si realizza nella dimensione del dialogo, ma la trasformazione che
avviene nei vocabolari si getta nella realtà della vita, nei gesti, nelle
azioni, nelle decisioni, nelle scelte della persona.
Secondo
Rorty vi sarebbero tre modi per aggiungere una credenza nuova: la percezione, cioè il rapporto diretto con
l’esperienza del mondo, l’inferenza e
la metafora.
Sia
la percezione del mondo che l’inferenza impongono una revisione almeno parziale
della rete delle credenze fra le quali deve trovare posto quella nuova derivata
dall’esperienza o realizzata per inferenza da quelle precedenti. Entrambe,
tuttavia lasciano inalterato il nostro linguaggio. In questo senso percezione e inferenza sono
sufficienti se pensiamo che il lavoro della filosofia sia essenzialmente quello
della chiarificazione, e ciò equivale,
secondo Rorty, ad “assumere che il linguaggio che noi parliamo attualmente sia,
come è sempre stato, tutto il linguaggio che esiste, tutto il linguaggio di cui
potremo avere bisogno.”[26]
Ma
c’è una terza possibilità di allargare il campo delle credenze: la metafora.
L’uso della metafora comporta invece l’idea del linguaggio come “lo spazio
logico e il dominio del possibile senza limiti predeterminati”[27], in questo senso la metafora si realizza
come “un appello alla trasformazione del proprio linguaggio e della propria
vita”[28].
Questo
ruolo essenziale attribuito da Rorty alla metafora, lo porta ad una
iper-valutazione del ruolo della poesia in Heidegger e ad una rivalutazione
esplicita del Romanticismo, inteso come quell’esperienza culturale e artistica
che attribuisce un ruolo fondamentale all’immaginazione. Vale la pena di
soffermarsi un momento su questo passaggio che mi pare essenziale per la
consulenza filosofica, ma anche foriero di significative incomprensioni.
Che
nel dialogo filosofico ci si serva di tutte e tre le possibilità per rivedere e
arricchire il sistema delle credenze dell’individuo – la sua visione del mondo
come spesso si usa dire[29] – è cosa certa, almeno per la mia
esperienza. Vi è dunque lo spazio non solo per un serrato confronto con la
realtà, e per un accurato lavoro inferenziale, ma anche per una dimensione
metaforica, come la chiama Rorty, ove però è il caso di precisare che non si
tratta semplicemente – e banalmente – di “fare poesia”, di usare il linguaggio
attraverso formulazioni estetizzanti secondo un modello piuttosto new age, quanto piuttosto di rendersi
conto che la produzione di concetti filosofici non è, come talvolta si crede,
soltanto un fatto logico, ma
altrettanto una questione immaginativa. La
questione è delicata e merita un approfondimento per il quale mi servirò di una
articolata riflessione contenuta nell’ultimo volume dei Philosophical Papers di Rorty.
In
Pragmatism and Romanticism[30], Rorty sostiene che la differenza tra le
cose intese in senso ordinario e la Realtà della metafisica è che quando, nella
vita quotidiana, impariamo a usare una parola, impariamo anche una serie di
verità intorno ad essa. Invece la Realtà metafisica pretende di dire l’ultima
parola sulla realtà. E se l’Ontologia resta viva è solo perché siamo riluttanti
ad accettare l’argomento centrale dei Romantici: che l’immaginazione fissa i confini del pensiero. In realtà,
afferma Rorty, “l’immaginazione è la fonte del linguaggio e il pensiero è
impossibile senza il linguaggio”[31]. Certo, se accettiamo questa idea dobbiamo
accettare anche una diversa idea di Ragione, non più intesa come una caccia
alla verità, ma piuttosto come una pratica
sociale: essere razionale, allora, è solo conformarsi a una serie di norme
sociali per l’uso delle parole. Bisogna dunque intendere l’immaginazione, come prima la metafora, non tanto come una
creazione di immagini fantastiche, ma prima di tutto come la capacità di
cambiare pratiche sociali proponendo e realizzando nuovi usi delle parole. È
proprio così che il linguaggio si arricchisce e non resta sempre uguale a se
stesso. È così che si superano continuamente le soluzioni passate, e si
incrementa la conoscenza. Anche se tale incremento non può essere inteso come
un progressivo avvicinamento al reale, ma come uno sviluppo delle capacità di
realizzare pratiche sociali utili alla vita umana. Non si tratta dunque di
porsi in una relazione tra umano e non umano (il Reale, la Verità, Dio), ma di
cogliere piuttosto la relazione tra l’umano del passato e l’umano del presente,
per cui il valore dell’immagine del cosmo offerta da Copernico va rivalutata
non tanto in funzione della sua capacità di descrivere il cosmo come veramente
è, ma piuttosto un funzione della sua
superiore capacità di dare risposte utili alla comprensione, all’interpretazione
e alla vita in generale, rispetto alla precedente visione tolemaica.
In
generale, dunque, la lettura di Rorty – che si immagina a capo di una linea su
cui pone Nietzsche, Wittgenstein, Sellars, Davidson e Brandom – aiuta a rendere
plausibile l’affermazione del Romanticismo che la natura è un Poema che gli
uomini stessi hanno scritto, che la ragione può solo seguire i percorsi aperti
dall’immaginazione e può solo riarrangiare elementi che la ragione stessa ha
creato.
L’immaginazione,
così, dà origine al gioco giocato dalla ragione: perché senza immaginazione non
c’è linguaggio, e senza confronto linguistico non c’è progresso morale e
civile. In questo senso, secondo Rorty, l’immaginazione ha la priorità sulla
ragione.”[32] Questa affermazione, tuttavia, non va
enfatizzata oltre misura, essa, mi pare, significa principalmente che il
Romanticismo – e sulla sua scorta Nietzsche, Wittgenstein, ecc.- mina
l’assunzione propria a Platone quanto a Kant che vi sia sempre “il miglior
argomento”, cioè quello dotato di validità universale. I Romantici invece sono
convinti che qualsiasi argomentazione si debba concludere con i puntini di
sospensione e non con il punto fermo.
Ecco
allora ribadita la tesi centrale di Rorty: che il pragmatismo, cioè la
filosofia come lui la intende, deve essere visto come un’alternativa tra il razionalismo
della “validità universale” e il ricorso a dimensioni altre dalla ragione, la
poesia, la religione, la pura fantasia…
Qui
si inserisce il confronto con Habermas, il quale critica Rorty proprio quando
questi nega che la validità universale sia un obiettivo della ricerca e lo
accusa di sostituire “l’aspirazione all’oggettività con l’aspirazione alla
solidarietà all’interno della comunità linguistica”[33], ma per restare in questa logica in cui la
verità delle affermazioni è legata al contesto, egli si troverebbe costretto a
“evitare qualsiasi idealizzazione e, ancor meglio, rinunciare anche al concetto
di razionalità; infatti razionalità è
un concetto limite avente un contenuto normativo che oltrepassa i confini di
ogni comunità locale in direzione di una comunità universale.”[34]
Secondo
Rorty, invece, la nozione di ragione comunicativa che appartiene allo stesso
Habermas, e nella quale egli si riconosce, cioè una ragione come pratica
sociale che fa emergere la verità dal dialogo, rende superfluo l’utilizzo della
nozione di validità universale[35]. Il rifiuto della metafisica per Rorty,
l’ho detto, contiene il rifiuto della validità universale, mentre Habermas
resterebbe alla ricerca – vana – di una nozione non metafisica di validità
universale.
In
questo senso Rorty non rinuncia affatto alla nozione di ragione, certo la
rivede profondamente. “Dal punto di vista pragmatista – egli afferma -, la
razionalità non è l’esercizio di una facoltà chiamata «ragione», una facoltà
che intrattiene una qualche determinata relazione con la realtà. Né si
identifica con l’uso di un metodo. Essa è semplicemente
un modo di essere aperti e curiosi e di affidarsi alla persuasione invece che
alla forza.”[36]
È
questa forse la nozione più originale e impegnativa che Rorty ci propone
revisionando la nozione di razionalità in base alla sua tesi di riferimento
ovvero la critica antiessenzialista e la conseguente ripresa della prospettiva
che egli chiama pragmatista e la riconsiderazione del ruolo del linguaggio
vissuto dialogicamente.
L’insieme
di queste componenti lo porta ad una nozione di razionalità di natura sociale:
“Siamo semplicemente animali che possono parlare, che possono quindi
apprezzarsi o accusarsi l’un l’altro, discutere su ciò che si dovrebbe fare e
istituire delle pratiche sociali per controllare che sia fatto. Quello che ci
eleva al di sopra degli altri animali è semplicemente la nostra capacità di
partecipare a queste pratiche.”[37]
Da
questo punto di vista, dunque, essere razionali non significa affatto essere in
grado di risalire a una verità stabile, definitiva, universale, quanto
piuttosto consiste semplicemente nell’essere socievoli.
Con
ciò, Rorty si ritrova perfettamente in una distinzione che appartiene proprio
ad Habermas, tra una ragione centrata sul soggetto e impegnata nella ricerca di
specularità con il reale, e una ragione comunicativa e dialogica. Il passaggio
dall’una all’altra rappresenta la svolta fondamentale del nostro tempo. “A me –
sostiene Rorty – questo sembra un cambiamento paragonabile, per importanza, al
passaggio da una prospettiva cristiana e aristotelica a una atea e galileiana.
È un cambiamento che non ci fa più chiedere “Quali dei miei concetti, delle mie
distinzioni, delle mie pratiche sono correlati al reale?” ma, casomai, “In che misura li condivido o posso
condividerli con altre persone?”; ci fa passare dall’amore per una verità
concepita come relazione corretta con la realtà al bisogno di una
giustificazione concepita come relazione con altri esseri umani.”[38]
Cambiamento del paradigma
Non
dimentichiamo mai che la nostra prospettiva d’indagine è strettamente legata al
rapporto tra la filosofia pragmatista di Rorty e la pratica filosofica. E
dunque ritorniamo alla domanda iniziale e cioè come sia possibile agire
dialogicamente nella prospettiva di una ridescrizione dell’ospite, ovvero di un
cambiamento inteso come una nuova tessitura della rete delle credenze e dei
desideri che lo individualizza.
Riassumendo
ciò che abbiamo detto, tale cambiamento può avvenire realizzando un nuovo insieme di atteggiamenti
rispetto a condizioni già presenti. È il caso di quel procedimento logico che
si chiama inferenza, ma è anche il
caso in cui, fissate delle verità locali,
si riesamina la propria biografia e la propria condizione di vita attuale alla
luce dei nuovi punti di riferimento (se improvvisamente scopro che il mio punto
di riferimento è un’idea di libertà come libertà di scelta, allora riesamino i
miei problemi familiari alla luce di questo punto fermo e scopro ad esempio che
certi miei comportamenti improvvisamente riacquistano senso, ecc.). Oppure il
cambiamento può avvenire realizzando
atteggiamenti nei confronti di nuovi valori di verità (rispetto ai quali prima
non avevo atteggiamenti di alcun tipo). È il caso di quel procedimento che
chiamiamo dell’immaginazione. Ove per
immaginazione dobbiamo intendere ad esempio i nuovi usi metaforici di vecchie
parole, oppure l’invenzione di neologismi, o ancora il collegamento tra testi,
concetti ed emozioni mai posti prima in correlazione.
Il
processo della ridescrizione determina la trasformazione che appartiene al
colloquio filosofico come suo elemento. Ma per comprenderne meglio la dinamica,
è forse possibile operare una ardito parallelo con la nozione di paradigma, elaborata da Hans Kuhn[39], perché è facilissimo constatarne la
straordinaria somiglianza con ciò che accade all’interno della consulenza
filosofica.
Dunque,
seguendo Kuhn possiamo pensare i paradigmi
come quelle conquiste conoscitive pienamente riconosciute, ovvero pienamente
accolte, appropriate, dal singolo il quale attraverso il suo paradigma – la sua
rete di credenze, la sua visione del
mondo - si dota dello strumento
necessario per vedere il mondo,
interpretarlo, agire in esso. Il paradigma mi dice come rapportarmi al mondo e
mi fornisce il modello entro cui collocare tanto i miei problemi, quanto le
possibili soluzioni di essi. Tuttavia nel corso dell’esistenza può capitare che si percepiscano delle anomalie nel paradigma, a fronte di
fatti rilevanti che accadono, oppure per conseguenza del confronto tra i fatti
e la teoria contenuta nel paradigma. E le anomalie possono mettere in crisi il
paradigma che può mostrare improvvisamente la sua insufficienza. Si percepisce
cioè che qualcosa non funziona. Dalla crisi del paradigma nasce l’esigenza di
nuove teorie. Il primo momento si escogitano magari articolazioni e
modificazioni parziali alla teoria per far rientrare in essa le anomalie, ma se
la crisi non rientra può portare alla necessità di una radicale rielaborazione
del paradigma stesso. Così si avvia un
momento di transizione che richiede la ricostruzione del campo su nuove basi
(la ridescrizione di cui si è detto).
Qui
si innesta la necessità della filosofia, tanto per lo scienziato quanto per il
singolo rispetto alla sua esistenza, perché l’analisi filosofica può fornire
gli strumenti razionali per affrontare gli enigmi del campo. Dal momento che la
crisi allenta gli stereotipi e fornisce così dati supplementari per la ricostruzione
del paradigma che vanno però gestiti adeguatamente, attraverso una pratica riflessiva. La crisi,
inoltre, porta a mettere in discussione i fondamenti e ciò implica la messa in
questione del campo dei valori e delle scelte e questa è materia in cui il
discorso filosofico è competente.
Quando
un vecchio paradigma è sostituito con uno nuovo si ha, secondo Kuhn la rivoluzione scientifica, nel nostro caso
possiamo parlare di ridescrizione. Ma
ciò non toglie che la ridescrizione possa avere il valore di una vera e propria
“rivoluzione”, quando si rende necessaria una scelta tra forme incompatibili, e
le forme incompatibili possono imporsi solo con un atto di forza, perché ogni
paradigma è difendibile solo in base a se stesso.
Quando
muta il paradigma, muta il mondo stesso insieme ad esso. Perché, guidati da un
nuovo paradigma, si guarda in nuove direzioni e si adottano nuovi strumenti, e
anche gli oggetti familiari sono visti sotto una luce nuova. Sebbene il mondo
non cambi per un mutamento di paradigma, l’individuo si ritrova però a vivere
in un mondo differente. Non si tratta solo di interpretazioni diverse di una
natura immutabile e neutra, un nuovo paradigma, infatti, rende possibili nuove
esperienze (per restare agli esempi di Kuhn, Aristotele vede solo corpi che cadono, Galileo, vede il pendolo, ecc.).
Creare / Scoprire
Abbiamo visto come, all’interno del colloquio, si realizzi
un movimento di trasformazione che ha varie connotazioni, una delle quali è
questa che sto cercando di approfondire: cioè il movimento della ridescrizione,
il cambiamento della visione del mondo, la mutazione dei paradigmi che
costituiscono una esistenza.
Secondo Rorty questo ci pone di fronte ad una questione
chiave, che egli sintetizza affermando che “siamo creature storiche, che si
riaffermano continuamente ridescrivendosi”[40],
in questo senso non abbiamo altra scelta che quella di ridescriverci
continuamente, perché continuamente sottoposti alla contingenza della realtà,
degli incontri, delle pressioni, dei contatti, delle esigenze, dei desideri,
ecc., certe nostre soluzioni si rivelano inesorabilmente provvisorie, altre
sembrano più durature, ma non abbiamo certezza che valgano all’infinito. Nella
nostra pur breve esistenza, l’imprevedibile varietà dei fatti che ci circondano
e degli eventi nei quali siamo coinvolti, ci costringe ad una approssimazione
continua, ad una manutenzione quotidiana dei nostri vocabolari, cioè delle
nostre credenze, dei nostri desideri, dei nostri progetti, della nostra visione del mondo. In questo
stato di cose, se vogliamo trovare davvero una coerente immagine di noi stessi,
la troviamo solo se “ci contentiamo di concepire ogni vita umana come quel
ritessere sempre incompleto, eppure talvolta eroico, di una trama.”[41]
Da questo punto di vista, per Rorty anche il diventa ciò che sei di Nietzsche, è da
intendersi appunto come una forma di auto descrizione: “Nel senso in cui la
intendeva Nietzsche l’espressione «chi si è veramente» non significa «chi in
realtà si è sempre stato», ma «ciò che si è fatto di se stessi mentre si creava
il gusto in base al quale si è arrivati, poi, a giudicarsi».”[42]
E ugualmente su questa base Rorty riprende il tema del progetto come appare ad
esempio in Heidegger e in Sartre. In linea generale, egli ritiene che il
rifiuto dell’essenzialismo apra uno spazio di possibilità nel quale l’uomo non
solo deve entrare ma soprattutto deve trovare la forza per esserci, per costruirsi costantemente, per dare vita a se stesso,
passo dopo passo, giorno dopo giorno, scelta dopo scelta, “ci sarà sempre
spazio per l’autocreazione, perché nessun precedente atto di auto creazione può
essere ratificato da una qualche autorità non umana.”[43]
Per comprendere ancora più a fondo questo passaggio,
soprattutto in funzione del dialogo filosofico, può essere utile riflettere
sulle metafore della creazione e
della scoperta, per approfondirne
alcuni aspetti che mi paiono essenziali allo scopo. E per farlo mi servirò di
un altro autore, George Steiner, il quale si è occupato con ricchezza di
elaborazione e infinita vastità di conoscenze proprio di questo di tema
nell’opera Grammatiche della creazione,
ove per grammatica egli intende “l’organizzazione articolata della percezione,
della riflessione e dell’esperienza, i percorsi nervosi della consapevolezza
quando comunica con sé stessa e con gli altri”[44],
offrendone così una definizione che non si allontana molto da quella di
vocabolario che abbiamo mediato da Rorty. Certo, c’è uno scarto da una
dimensione più immediatamente individuale, quella del vocabolario, ad una
prospettiva più spostata sul versante della comunità culturale e linguistica,
ma non è molto importante per noi che operiamo in entrambi i casi un viraggio
forzato verso la specifica dimensione del colloquio filosofico e quindi della
singolarità condivisa nel dialogo.
In secondo luogo va chiarito che Steiner ragiona intorno ad
una contrapposizione tra creazione e invenzione laddove invece Rorty
contrappone creazione e scoperta. Ma
anche su questo, almeno al fine del nostro ragionamento, è possibile trovare un
compromesso onorevole. Il termine “invenzione” (come l’inglese invention) infatti, viene dal latino invenire che contiene in sé il senso del
“trovare”. La connessione semantica fra invenzione e scoperta è, in questo
senso ben chiara e lo stesso Steiner la mette in evidenza[45].
D’altra parte lo sfondo di entrambi i termini, ciò che li distingue dalla
dimensione creativa, sta nel fatto che essi implicitamente suppongono una
preesistenza, una realtà che li precede e che li rende possibili: inventare e scoprire
sono appunto gesti possibili perché c’è già un mondo alle spalle che si tratta
nel primo caso di rielaborare, nel secondo di portare alla luce.
Ancora una volta va detto che, al di là delle formulazioni
teoriche, è l’uso che ci guida nel distinguere i termini in questione: nessuno
direbbe che Dio ha “inventato” o “scoperto” l’universo, né che Picasso abbia
“inventato” Guernica. Creare infatti non è inventare, non è scoprire. Così
egualmente è per noi immediato l’atto mentale con il quale associamo l’inventare
alla dimensione della “forma” (si inventano nuovi modelli poetici o nuove
soluzioni coloristiche o armoniche, o nuove forme retoriche…) e il creare a
quella del “contenuto”. Per quanto poi sappiamo bene che forma e contenuto non
sono affatto separabili e l’uno dà vita all’altro, e che ogni creazione umana
avviene in realtà a partire da ciò che esiste, da una tradizione, da un
linguaggio, da una grammatica, da un vocabolario personale. In questo senso
invenzione e creazione sono concetti che tendono a sovrapporsi parzialmente e a
confondersi, conservando tuttavia un margine di differenza nel quale dobbiamo
entrare. È proprio percorrendo questo margine che Steiner può offrirci una
definizione essenziale della creazione come “una libertà attuata che include ed
esprime nella sua incarnazione la presenza di ciò che in essa è assente o di
ciò che sarebbe potuto essere radicalmente altro.”[46]
In base a questa prospettiva, dunque, l’atto creativo è innanzi tutto un atto
di libertà, e in secondo luogo esso conserva, marchiata su di sé la sua
condizione di radicale contingenza, cioè il fatto che avrebbe potuto essere
diverso o addirittura non essere affatto. Già qui appare chiara la possibilità
di un trasferimento dell’argomentazione nella situazione del colloquio
filosofico il quale ugualmente si fonda sulla possibilità di un agire libero
(cioè non costretto, non determinato rigidamente dalla situazione ambientale o
giuridica, o logica o psichica della persona) e da una condizione di
contingenza radicale. Tuttavia se ci atteniamo al campo del linguaggio, il
mezzo nel quale il colloquio avviene, comprendiamo facilmente come la libertà
del gesto creativo trovi il suo limite nel fatto che ogni creazione (ogni
ridescrizione, ogni messa in cantiere di un vocabolario nuovo) non può che
realizzarsi sulla preesistente potenzialità del linguaggio, cioè della densità
storica dei significati, che rende possibile una infinita combinatoria che non
ci fa mai uscire dal linguaggio medesimo.
Ma se le cose stanno così, come è possibile pensare in modo nuovo? Cioè creare una
ridescrizione che renda possibile affrontare diversamente un evento, una fase
della mia vita? Considerata la posta in gioco nel colloquio, l’esistenza
stessa, la sofferenza, il disagio, la sua possibilità, si comprende come la
domanda contenga in sé una sfumatura drammatica. Ma se in fondo noi operiamo
sempre con lo stesso materiale, ci esprimiamo sempre con parole vecchie, entro
un campo semantico che ci appartiene e al quale apparteniamo, come possiamo
avere la certezza di trovarci di fronte ad un pensiero nuovo?
La necessità di scegliere e utilizzare le metafore della
creazione piuttosto che quelle della scoperta o dell’invenzione che abbiamo
messo in campo seguendo Rorty e Steiner, appare dunque piuttosto come una pretesa difficilmente realizzabile, o
meglio, una pretesa necessaria, anche
se intimamente sappiamo che ogni ridescrizione è soltanto una ulteriore
combinatoria del mio vocabolario essenziale. D’altra parte qui si tratta di usare le metafore della creazione non
propriamente di creare: perché
sappiamo che una creazione in senso stretto, cioè assoluta, ex nihilo, non è
umana, è quella che appartiene soltanto al Dio o, forse, al folle. A noi resta
la facoltà di imitare quel gesto, usando metafore che lo evochino, anche se
sappiamo che la dinamica della creazione nel mondo umano è ben diversa, molto
più implicata alla dimensione inventiva e a quella della scoperta. Possiamo,
anzi, dobbiamo, ironicamente porci
nelle vesti del creatore quando elaboriamo il nostro nuovo vocabolario per
affrontare le difficoltà dell’esistenza.
Questa condizione assomiglia terribilmente a quella che si
realizza nel mondo della letteratura, ove noi abbiamo soltanto una serie
infinita di variazioni rispetto ad alcuni temi essenziali, la ricerca, il
ritorno a casa, l’assedio, la discesa agli inferi… Essa dunque, a dispetto
delle proprie esplicite pretese di creatività e originalità è piuttosto il
dominio dell’invenzione (e della scoperta nel senso indicato precedentemente). Ma
questo riferimento esemplare alla letteratura ci è ancora utile. Perché è
difficile non essere d’accordo con Steiner quando rileva la profonda e insieme
sottile congruenza tra l’invenzione letteraria e la natura del personaggio, dell’homo fictus che essa produce. Di costui, Ulisse o Don Giovanni,
Chisciotte o Madame Bovary, ben sappiamo che non ha la stessa consistenza di
coloro che ci siedono a fianco in treno, eppure la loro “realtà” può invadere la nostra coscienza con
“un impatto visivo e una memorabilità del tutto sproporzionati rispetto a ciò
che definiamo «reale» o tangibile”[47].
È un fatto che il personaggio della letteratura possiede un’energia
descrittiva, una capacità di presentazione, una identità definita ben più ampia
e realizzata di quelle della maggior parte di noi. Tanto da spingere
all’immedesimazione o anche all’imitazione: in età romantica si imitava il
Werther di Goethe, oggi più facilmente il personaggio attore o cantante o
sportivo (che non è meno “personaggio”, si badi, perché nasce e cresce nel
dominio para-letterario dei mass media, non nella realtà).
Certo, nel momento in cui l’artista, il poeta, lo scrittore,
dà vita al suo personaggio, egli sta mimando l’atto divino della creazione. Ma
noi sappiamo che si tratta, appunto, solo di una imitazione.
Ma torniamo nel colloquio filosofico perché è qui che
dobbiamo riportare l’esito del nostro percorso. Posto che in esso noi
assistiamo ad un confronto continuo e necessario tra due diversi atteggiamenti,
quello metafisico e quello ironico, e posto, ancora, che vorremmo far prevalere
in definitiva, l’atteggiamento ironico, abbiamo poi messo in luce come la
ridescrizione del proprio vocabolario debba essere intesa più come una
creazione che non come un semplice recupero o ricollocazione di elementi già
esistenti. Abbiamo fatto osservare come questa pretesa, che noi sappiamo in
fondo essere insostenibile, debba tuttavia essere tenuta ben ferma. Ed infine
abbiamo notato come un simile gesto creativo di ridescrizione del proprio
vocabolario si confonda con il gesto attraverso il quale la letteratura elabora
il personaggio.
E qui nuovamente ci dobbiamo fermare. Che cosa intendo dire?
Che nel colloquio filosofico si tratta di configurare un nuovo personaggio?
L’obiettivo più alto del colloquio filosofico è forse, al di là di ogni
illusione di saggezza, o della realizzazione di un supposto saper vivere, o
della ricerca della serenità e dell’equilibrio, è forse soltanto la creazione di un nuovo personaggio? La
questione va approfondita a partire da questa domanda. Ma lo farò in un’altra
occasione.
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Rorty Richard, Scritti filosofici, Volume II, Roma-Bari, Laterza, 1993, tit. or.: Essay on Heidegger and Others. Philosophical
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Rorty Richard – Vattimo Gianni, Il futuro della religione. Solidarietà,
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Rorty Richard, La filosofia e lo specchio della natura,
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"Phronesis", a. VII, n. 12, aprile 2009, pp. 12-27
Zampieri Stefano, L’esperienza
della filosofia, Milano, Apogeo, 2007
[1] G. Achenbach, La consulenza filosofica, Milano,
Apogeo, 2004, p. 15, (ed. originale 1987).
[2] Un tipo di lettura, per
altro, condiviso e sostenuto dallo stesso Rorty, che afferma recisamente: “Io
scelgo semplicemente le idee che voglio usare dal testo del filosofo e ignoro
il resto della sua vita e del suo lavoro” (R. Rorty, Verità e libertà. Conversazioni
con Richard Rorty. Il testamento spirituale di uno dei principali filosofi americani,
Massa, Transeuropa, 2008, p.106, ma
vedi anche “On Heidegger’s Nazism” in R. Rorty, Philosophy and Social Hope, New York, Penguin, 2000).
[3] R. Rorty, Scritti filosofici, vol. I, Roma-Bari,
Laterza, 1994, p.3
[4] A. G. Gargani, Il soggetto di credenze e desideri, in
R. Rorty, Scritti filosofici vol. I,
cit., p. XI
[5] Ibidem
[6] R. Rorty, Verità e libertà, cit., p. 123
[7] A. G. Gargani, Il soggetto di credenze e desideri,
cit., p. IX
[8] Ivi, p. X
[9] Richard Rorty, La filosofia dopo la filosofia,
Roma-Bari, Laterza, 2001 (ed. or. 1989), p. 89. Ma si veda in particolare tutto
il cap. 4: “Ironia privata e speranza liberale”.
[10] Ivi, p. 90
[11] R. Rorty, Verità progresso. Scritti filosofici,
Milano, Feltrinelli, 2003, p. 373
[12] Ivi, p. 81
[13] Ivi p. 94
[14] Sottolineo solo di
sfuggita che l’acquisizione di un’attitudine è il gesto che porta alla
determinazione della virtù. Dovrebbe
già apparire, dunque, come il movimento “ironico” del colloquio filosofico
abbia per sfondo una formazione morale. Ho cominciato a sviluppare questo tema
nel saggio La chiave della saggezza e della virtù nel colloquio filosofico, in
"Phronesis", a. VII, n. 12, aprile 2009, pp. 12-27
[15] A. McIntyre, Animali razionali dipendenti, Milano,
Vita e Pensiero, 2001, p. 150
[16] Ibidem
[17] Ibidem
[18] Rimando per un
approfondimento di questo tema ad altre mie opere, in particolare Introduzione alla vita filosofica.
Consulenza filosofica e vita quotidiana, Milano, Mimesis, 2010, e L’esperienza della filosofia, Milano,
Apogeo, 2007
[19] A. McIntyre, Animali razionali dipendenti, cit., p.
152
[20] R. Rorty, Scritti filosofici, vol I, cit., p. 128
[21] Ivi, p. 129
[22] Ivi, p. 163
[23] Ivi, p. 164
[24] Ivi, p. 288
[25] Manconi, Dopo la svolta linguistica, in R. Rorty,
La svolta linguistica, Milano,
Garzanti, 1994, p. 11
[26] R. Rorty, Scritti filosofici, vol. II, Roma-Bari,
Laterza, 1993, p. 19
[27] Ivi, p. 19
[28] Ibidem
[29] Ci sarebbe parecchio da
chiarire in merito all’uso, assai diffuso tra i filosofi consulenti, della
nozione di visione del mondo,
introdotta da Ran Lahav il quale però la intende essenzialmente come ”uno
schema astratto che interpreta la struttura e le implicazioni filosofiche della
concezione che un individuo ha di se
stesso e della realtà” (R. Lahav, Comprendere
la vita, Milano, Apogeo, 2004, p. 14), cioè secondo una prospettiva kantiana,
ovvero essenzialista che qui, sulla scorta di Rorty si sta mettendo in
discussione. A mio parere invece il solo modo di intendere efficacemente questa
espressione è appunto come sinonimo della rete
di credenze.
[30] R. Rorty, Pragmatism
and Romanticism, in Philosophy as
cultural politics, cit., pp. 105-119
[31] Ivi, pp. 106-107
[32] Ivi, p. 115
[33] J. Habermas, Il pensiero post-metafisico, Roma-Bari,
Laterza, 1988, p. 172
[34] Ibidem
[35] Cfr. R. Rorty, Philosophy as cultural politics, cit., p. 78
[36] R. Rorty, Scritti filosofici, vol. I, cit., pp.
80-81
[37] R. Rorty, A sinistra con Heidegger, in «Micromega,
n. 5/2011, p.37
[38] R. Rorty, Verità e progresso, cit., p. 267
[39] cfr. T. S. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche,
Torino, Einaudi, 1999
[40] R. Rorty, A sinistra con Heidegger, cit., p. 31
[41] R. Rorty, La filosofia dopo la filosofia. Contingenza,
ironia, solidarietà, Roma-Bari, Laterza, 2001, p. 54
[42] R. Rorty, La filosofia dopo la filosofia, cit., p.
120
[43] R. Rorty, Verità e libertà, cit., p. 74
[44] G. Steiner, Grammatiche della creazione, Milano,
Garzanti, 2003, p.11
[45] Ivi, p. 103
[46] Ivi, p. 124
[47] Ivi, p. 152
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