di Stefano Zampieri
La Philosophische Praxis ha occupato fin da subito in Italia
uno spazio al limite con le pratiche psicoterapeutiche. Sia perché il confine
tra filosofia e psicologia non è così netto come sembra e come filosofi e
psicologi – gli uni contro gli altri armati – vorrebbero farci credere. Sia perché
in entrambi i casi la domanda determina l’offerta.
Venduta come attività professionale la consulenza / counseling
assume comunque la parte di una pratica d’aiuto alla persona perché questo è ciò
che la persona è disposta ad acquistare, perché l’aiuto è ciò che il filosofo /
counselor è in grado di vendere.
Certo fra le due pratiche ci sono delle differenze d’impianto
e di natura, che derivano essenzialmente dalla flessibilità semantica dei
termini come aiuto o disagio, dalla possibilità di esplicitare o meno alcuni
passaggi, dalla opportunità o meno di fissare alcuni obiettivi, ma sono in
fondo solo sfumature, buone per costruire polemiche, oppure per fondare associazioni
distinte. Resta il fatto che, pur con modalità in parte diverse, pur con
finalità in parte diverse, pur con impianti teorici in parte diversi, il
filosofo consulente e il counselor filosofico finiscono per vendere lo stesso
prodotto. Ed è il prodotto di cui l’uomo d’oggi ha bisogno.
Ora, la questione non è se tra le rispettive attività ve ne
sia una che vende aiuto e una che non lo fa, perché entrambe, di fatto, operano,
in modi parzialmente diversi, sullo stesso mercato. Ed è un mercato più che
legittimo: c’è una domanda reale in tal senso, filosofi consulenti e counselor
filosofici possono offrire una risposta meno banale di tante altre, meno cinica
e predatoria di altri approcci, certamente più sana. Quindi buon lavoro ad
entrambi.
Però… c’è un però. Proviamo ad interrogarci un po’ più in
profondità sulla natura stessa di questo “mercato”. Qui abbiamo bisogno a
nostra volta dell’aiuto del grande filosofo e sociologo polacco Zygmunt Bauman la
cui vastissima opera ci offre una lettura del tempo presente che io ritengo
imprescindibile per chiunque voglia fare i conti con la realtà della vita, e
dunque primo fra tutti proprio il filosofo consulente / counselor filosofico che
con le contraddizioni e i disagi della realtà quotidiana si deve confrontare
continuamente. Nozioni chiave come quella di liquidità, o di cittadinanza
globale, o dell’uomo modulare, concetti come quelli della sicurezza e
dell’incertezza, tematiche come quelle del rischio, dello sradicamento, della
secessione, dovrebbero essere patrimonio condiviso di tutti coloro che si
occupano della esistenza vissuta degli uomini non solo da un punto di vista
sociologico, ma altrettanto da quello filosofico, politico o psicologico.
Tuttavia, proprio nella sua opera incontriamo una delle critiche
più profonde e più coerenti nei confronti delle pratiche di “consulenza”,
osservazioni che inevitabilmente coinvolgono anche la consulenza filosofica / counseling
filosofico. Per non lasciare, dunque, senza risposta osservazioni così
rilevanti e impegnative, mi pare molto opportuno provare a riflettere seguendo
le diverse argomentazioni che Bauman elabora intorno a questa tematica.
Osserviamo, in primo luogo, come egli descriva l’humus, il
terreno fertile sul quale ogni forma di consulenza può crescere e svilupparsi.
Secondo l’interpretazione di Bauman, la condizione in cui viviamo oggi è
caratterizzata da un sentimento diffuso di insicurezza,
che nessun sistema politico, e nessuna organizzazione sociale risultano in
grado di cancellare. Per descrivere tale situazione, Bauman si serve, in più
luoghi, di una immagine molto efficace: viviamo costantemente con quella
sensazione, egli dice, che possono provare i passeggeri di un aereo nello
scoprire che non c’è nessuno ai comandi. Sulla stessa scia, il sociologo Antony
Giddens, usa un’altra immagine non meno efficace: viviamo nella condizione di
chi si trovi a bordo di uno di quegli immensi “bisonti della strada”, quei Tir
pesantissimi e potentissimi, lanciato a tutta velocità, e che cerchiamo con
enorme fatica di manovrare.[1]
Così, dunque, in questa condizione di insicurezza e di
concomitante mancanza di punti di riferimento sicuri, ogni progetto di costituire la propria identità suona
incerto e velleitario. L’idea di costituire una identità solida, di elaborare
un piano di vita coerente e impegnativo nel tempo, appare inficiato
dall’imprevedibile mutabilità degli eventi e dalla costitutiva insicurezza che
li caratterizza.
Tutto ciò che acquisiamo nel tempo, tutto ciò che
progettiamo per la nostra vita è destinato a mutare incessantemente, come se
noi fossimo tenuti a perseguire una indefinita serie di nuovi inizi, di scelte repentine, di ricominciamenti, e ogni volta si
corre il rischio di sbagliare tutto sotto la pressione della mutevolezza delle
cose.
Secondo Bauman è questo il terreno su cui fiorisce
inevitabilmente la pratica della consulenza in generale: “il mondo – egli
afferma – è il luogo in cui fiorisce il counselling,
una serra in cui crescono schiere sempre più numerose e variegate di esperti
nel modo di fare qualcosa.”[2]
Secondo Bauman le incertezze della volontà che constatiamo
noi tutti nel momento in cui dobbiamo scegliere, e che nella consulenza
filosofica / counseling filosofico, aggiungo io, rappresentano una delle più
tipiche situazioni da sottoporre al dialogo[3],
non sono altro che il segnale di una costitutiva dimensione della realtà liquido-moderna, come lo definisce
Bauman[4],
nella quale tutto appare contingente, possibile incerto e sostanzialmente
ambiguo. Nel momento in cui la modernità ha fatto cadere tutto ciò che era
solido e affidabile, si è affermato in modo dirompente il “sospetto tormentoso
che le cose non siano quali sembrano essere e che il mondo in cui ci è capitato
di vivere non abbia fondamenti sufficientemente solidi da renderlo necessario e
inevitabile”[5]. Di qui
si apre il regno dell’incertezza, dell’ambiguità o della “ambivalenza” come talora
Bauman la definisce. Tutta la storia dell’età moderna si può leggere in fondo
come la storia di una battaglia contro questa condizione di incertezza e di
ambivalenza, a colpi di regolazione normativa, di indottrinamento ideologico,
di forme di controllo e di costrizione. Una battaglia, in definitiva, persa,
perché oggi l’incertezza, l’ambiguità, l’ambivalenza, non solo non appaiono
sconfitte o ridimensionate, ma anzi sono diventate funzionali alla condizione
post-moderna.
L’incertezza non è più, oggi, un nemico pubblico, ma
resta un problema privato: privatizzato
è stato soprattutto il compito di tenerla a bada: “L’ambivalenza – afferma
Bauman – può essere, come un tempo, un
fenomeno sociale, ma ciascuno di noi la affronta da solo come problema personale (e, non come si
affrettano a suggerire molti interessati consiglieri in quest’epoca di «boom
delle consulenze», come colpa e afflizione personale).”[6]
Ecco che allora ci troviamo nella situazione di dover fronteggiare le
conseguenze di questa costitutiva e radicale incertezza, che diventa sistematica
difficoltà di scegliere, ansia di sbagliare, pentimento per le scelte
effettuate, ossessione per quanto vi è,
in ogni scelta, di rinuncia ad ulteriori possibilità. E allora “siamo costretti
a ricorrere a quello stesso mercato di beni, servizi e idee mercificati (e
anche, presumibilmente, di consigli e terapie) che costituisce il principale
apparato di produzione dell’ambivalenza nonché il suo zelante e intraprendente
distributore. Il mercato tiene in vita l’ambivalenza e l’ambivalenza tiene in
vita il mercato.”[7]
È dall’insicurezza come motivo determinante della nostra
esistenza, dunque, che comincia ad aprirsi lo spazio in cui
si collocano le pratiche di consulenza, intese semplicemente come
l’attività del presunto esperto
impegnato a rassicurare ognuno di noi in merito al modo migliore di agire nella
vita. Nel mondo liquido-moderno, è
sempre più necessario “essere se stessi” anziché “come tutti gli altri”, e
adattarsi alla inarrestabile mutevolezza degli eventi, con tutta la
flessibilità possibile. Ma non solo, non è più sufficiente piegarsi alle
necessità derivanti dalla esecuzione di un compito, perché il sistema fluido
dei rapporti, la continua variabilità delle situazioni, l’esigenza di risposta
immediata a domande impreviste e capricciose del mercato, esigono che il
singolo sappia mettere in mostra doti personali, capacità di comunicazione,
apertura, curiosità, capacità di mettere in mostra, e in vendita, interamente,
il proprio carattere e la propria personalità.
Tutto questo non si impara da un libro, e ciò mette in crisi
le forme classiche dell’educazione. Oggi ciò che fa la differenza non sono più
le conoscenze, si chiede piuttosto di avere competenze operative, di saper essere e di saper fare, e tutto ciò lo si apprende molto meglio da un consulente
che sappia scavare nella personalità individuale dove si presume possano
trovarsi i giacimenti preziosi da portare alla luce e sfruttare per il successo
personale.
Gli individui, allora cercano consulenti “che insegnino loro
a camminare, e non insegnanti che li portino a incamminarsi su un’unica strada,
già molto affollata.”[8] Il consulente, meglio di chiunque altro,
appare in grado di aiutare nel difficile processo dell’operare scelte, che è il
gesto con il quale quotidianamente dobbiamo confrontarci e spesso ci mette in
difficoltà. Perché la società contemporanea è fondata proprio su questa
necessità continua di scegliere: l’uomo consumatore, infatti, è un uomo cui si
offre una infinita varietà di possibilità entro le quali è continuamente
chiamato a muoversi.
In questo quadro, dunque, fiorisce la professione del
consulente i cui membri “forniscono il nuovo tipo di capacità negoziabili che
sorgono dalla necessità di scegliere, tanto più ricercate quanto più le scelte
si fanno abbondanti, complesse, scoraggianti.”[9]
Ma non è tutto, perché accanto e coerentemente con la
condizione di insicurezza viviamo la realtà della mancanza di punti di riferimento, e su questo è il caso di
soffermarci. L’uomo di oggi, infatti, sta vivendo una condizione senza precedenti
di emancipazione dai vincoli della natura, e dei modi di vivere trasmessi dalla
tradizione. Gli si offre ora l’opportunità di una vasta libertà di auto creazione. Tuttavia, allo stesso tempo, l’uomo
d’oggi sconta una drammatica assenza di punti di riferimento, ed è proprio qui,
in questa mancanza che, secondo Bauman, si apre nuovamente il campo d’azione
del consulente: “Voglio essere chiaro: c’è una fastidiosa carenza di punti di
riferimento saldi e attendibili, di
guide affidabili. Questa carenza (paradossalmente,
eppure non del tutto accidentalmente) coincide con una proliferazione di
suggestioni tentatrici e offerte seduttrici di guida e orientamento, e con una
marea montante di guide e manuali, e masse sempre più nutrite di consulenti.”[10]
È sotto gli occhi di tutti questo proliferare di una
editoria rivolta, in modo ammiccante e fascinoso, a regalarci quelle certezze e
quei punti di riferimento che la realtà ci nega, e ciò valga anche per il
moltiplicarsi dei consulenti, sotto le più diverse forme. In realtà, però,
dovremmo onestamente riconoscere che tale proliferare di aiutanti non produce
affatto l’effetto sperato: se l’intendimento era quello di fissare dei
riferimenti utili ad orientarci nell’incertezza e nella mutabilità della vita,
il risultato è, in primo luogo, quello
di moltiplicare ulteriormente il campo delle possibilità e dunque anche il caos
dei riferimenti, invece di semplificarlo e di chiarirlo, e in secondo luogo
quello di spostare, soprattutto, la prospettiva dalla focalizzazione sulla
società a quella sull’individuo.
In tanta varietà e pluralità di possibilità e di soluzioni
personali finiamo per perderci, o per passare indefinitamente da una soluzione
a un’altra come accade a coloro, e sono tanti, che di volta in volta
sperimentano tutte le forme delle terapie d’aiuto, e poi quelle della
meditazione, e quelle degli stili di vita orientali o naturisti, e via di
questo passo, da una psicologia a una religione, da una filosofia a una
pratica, da una ginnastica a una terapia.
D’altra parte nel nuovo mondo liquido moderno, è naturale
che ci si senta disorientati dalla pluralità delle strade che il singolo si
trova costantemente di fronte. Non è più possibile predire con certezza il
futuro di un’esistenza, come a suo tempo sapevano fare teologi e politici, ma
anche indovini e astrologi. È proprio questa straordinaria incertezza, questa
sconfinata apertura di possibilità, come già si è osservato, che crea lo spazio
per i consulenti, “dei cui servigi non c’è mai stata domanda tanto forte e offerta
tanto abbondante quanto oggi.”[11]
Così, allora, i singoli scoprono l’origine dei loro disagi
nel loro modo di essere:
“insufficiente autoaffermazione, insufficiente cura di sé o auto addestramento,
ma quasi certamente insufficiente flessibilità, un eccessivo attaccamento a
vecchie abitudini, luoghi o persone, un’assenza di entusiasmo per il
cambiamento e una reticenza a cambiare qualora fosse necessario.”[12]
Questa la diagnosi del consulente, e soprattutto queste le colpe attribuite al singolo, il
quale deve leggere in sé stesso
un’autosufficienza che forse non è solo sua. Cominciamo a intravedere la chiave
interpretativa che Bauman sta utilizzando in questa analisi. Riportata, allora,
l’origine del malessere all’interiorità individuale, al singolo modo d’essere,
allo stile di vita, dimenticandone o almeno oscurandone la portata collettiva e
sociale, ecco che il consulente ha gioco facile nel suggerire il rimedio: “più
autostima, auto attenzione e cura di sé, maggiore attenzione alla propria
capacità interiore di trovare piacere e soddisfazione, nonché minore
«dipendenza» dagli altri e minore attenzione alle altrui richieste di
attenzione e cura; più distanza e più assennatezza nel giudicare tra
ragionevoli speranze di guadagno e realistiche prospettive di perdite.”[13]
Qualsiasi sia il contenuto della pratica di consulenza,
resta il fatto che essa opera comunque per riportare tutta l’attenzione
all’individualità: errori, conseguenze spiacevoli, fallimenti, sono sempre e
comunque imputabili solo a se stessi. Di fatto, così, il singolo dovrebbe
reagire alla sua difficoltà richiedendo un maggiore spazio per sé a scapito
dello spazio altrui, nella certezza che nessun impegno è veramente destinato a
durare sempre. Il punto è proprio questo, nel clima di insicurezza, di
incertezza e di disorientamento in cui viviamo, è naturale la ricerca di una
soluzione privata, e le pratiche consulenziali tendono a ribadire proprio
questa scelta.
“L’insicurezza – precisa Bauman – attanaglia tutti noi, immersi come siamo in un
impalpabile imprevedibile mondo fatto di liberalizzazione, flessibilità,
competitività ed endemica incertezza, ma ciascuno di noi consuma la propria
ansia da solo, vivendola come un
problema individuale, il risultato di fallimenti personali e una sfida alle doti
e capacità individuali.”[14]
Questa dimensione di insicurezza dilagante non si arresta
nemmeno di fronte alle relazioni umane, che appaiono dunque esse stesse in via
di dissoluzione, perché non si riesce più a concepire un rapporto se non a
termine, possibilmente breve. È il destino di chi, come noi, è stato addestrato
fin da piccolo ad essere consumatore
(tanto quanto i nostri predecessori nell’epoca della modernità solida, venivano
addestrati ad essere produttori).
Questo processo di addestramento che inizia fin dall’età
dell’infanzia, si prolunga poi lungo tutto l’arco della vita, attraverso la
pubblicità, la televisione, i media in generale, la diffusione di stili di vita
adeguati ai tempi, per arrivare fino “agli ossessionanti esperti-consulenti che
offrono le ricette più all’avanguardia, frutto di accurate ricerche e
sperimentazioni di laboratorio, per individuare e risolvere i «problemi della
vita».[15]
Secondo Bauman ciò che questi esperti nel mondo delle relazioni finiscono per
trasmettere all’utente consumatore, è appunto la logica del consumo, per cui
appena il rapporto sembra indebolirsi va cambiato, e che quindi relazionarsi va
inteso piuttosto come un mantenere la distanza, un lasciarsi la porta sempre
aperta ad altre esperienze, un essere sempre pronti a cambiare rapporti come si
cambia look o pettinatura. “Quello che
impariamo dagli esperti di relazioni è che l’impegno, e in particolare l’impegno
a lungo termine, è la trappola che chi cerca di «relazionarsi» dovrebbe evitare
più di qualsiasi altro pericolo.”[16]
Certo, il filosofo consulente / counselor filosofico non è
solo un esperto di relazioni, anche se, di fatto, i motivi per cui la gente gli
si rivolge ruotano per lo più proprio intorno alle questioni relazionali, e
quindi lo diventa di fatto. Per
questo dovrebbe, a mio modo di vedere, essere ben consapevole del rischio che
corre di trasformarsi in questa sorta di educatore al consumo ipotizzato da
Bauman.
Questo, comunque, il cuore della sua argomentazione: l’osservazione della nostra tendenza a vivere
isolatamente le difficoltà imposte da una condizione di insicurezza
costituzionale e di conseguente crisi delle relazioni e in generali dei modi di
essere tradizionali. Intendiamoci, anche qui dobbiamo riconoscere il portato
storico della condizione fortemente individualistica centrata sul presente del
consumo illimitato, che governa il nostro tempo e la nostra società. Una
condizione in cui ognuno di noi è ridotto a spettatore di eventi ai quali
partecipa passivamente senza determinarli e senza comprenderne adeguatamente le
dinamiche. In questa condizione viviamo un processo di soggettivizzazione dei
rischi e delle contraddizioni, che ci porta a cercare ovunque “soluzioni personali a contraddizioni sistemiche;
cerchiamo la salvezza individuale da problemi comuni”[17],
senza renderci conto del fatto che ogni soluzione privata diventa di fatto una
soluzione solo apparente perché perpetua il gesto originario dell’isolamento e dunque
certo non lo risolve. “Paure, ansie e risentimenti sono fatti in modo tale da
dover essere sopportati in solitudine; non si sommano, non si coagulano in una
«causa comune», non possiedono un «destinatario naturale».”[18]
Piuttosto così si perpetua l’equivoco per cui da un lato
l’individualizzazione fa sì che non si possa più incolpare qualcun altro delle
proprie frustrazioni e dei propri guai, ma al contempo ci si trova nella
situazione di non poterci tirar fuori dai guai da soli al modo del Barone
di Münchausen che si salvava dalla
caduta prendendosi per i capelli.
E da questa contraddizione non si esce, perché di questo
essenzialmente si tratta, del fatto che viviamo con straordinaria incertezza il
momento in cui dobbiamo scegliere, il momento in cui dobbiamo emettere un
giudizio, il momento in cui dobbiamo collocarci rispetto ai fatti del mondo e
al tessuto di relazioni in cui siamo presi. È un dato epocale: il tempo del
mondo solido, delle certezze, della fiducia nella ragione, della sacralità, è
ormai venuto meno e quindi la volontà esita, disorientata di fronte a tutte le
possibilità che le si offrono, e l’azione assume un carattere di costitutiva
contingenza.
Ma come possiamo fondare i nostri giudizi e le nostre scelte
dunque? Oggi sono soltanto due le fonti di autorità alle quali siamo disposti
intimamente a dare credito, la prima è quella dei numeri, che fissano eventi,
fatti, condizioni con una solida e immobile veridicità. Il numero è quello, è
sicuro e più è grande meno è probabile che sia errato, di fronte ai numeri ogni
opinione deve piegarsi, la stessa politica ormai utilizza il dato numerico
statistico – il PIL, i tassi di rendimento, lo spread, ecc. - come arma per
definire senza repliche possibili l’inesorabile necessità delle proprie
decisioni. E d’altra parte, l’altra
fonte di autorità capace di fondare i nostri giudizi (e le nostre scelte)
garantendo la loro affidabilità, è “l’autorità degli esperti, persone «che ne
sanno più di noi» (il cui campo di competenze è troppo vasto perché possiamo
esplorarlo e verificarlo).”[19]
Chiaramente è proprio da questa convinzione che si sviluppa il
mercato della consulenza, e in particolare quello della consulenza rivolta
all’esistenza. Ma se davvero fosse così, non potremmo che convenire con Bauman
e quindi ritenere anche la consulenza filosofica /counseling filosofico
coinvolta in una impresa impossibile perché “non esiste nessuna strategia
personale che possa arrestare (e tanto meno prevenire) i capricci delle
«opportunità della vita», o che possa almeno attutirne o superarne l’impatto”[20]
Il rischio, infatti, è che il lavoro di consulenza si
concentri in una tormentata ricerca di interiorità, una ricerca decisa a far
emergere tutto quello che siamo indotti a immaginare che ci sia. Così se ci si
ammala si dà per scontato che sia perché non ci si è presa sufficiente cura del
proprio organismo, e perché non si è seguito il corretto regime dietetico e
igienico sanitario; se si resta disoccupati è perché non si è stati capaci di
affrontare correttamente il colloquio di lavoro o perché si è stati pigri e
inefficaci nel cercarlo, se lo si è perso è perché si è stati scansafatiche e
non si sono accettate le proposte vantaggiose quando ci venivano offerte; se si
è in crisi di fronte alle prospettive del proprio futuro è solo perché non
siamo abbastanza bravi a determinarlo. E via di questo passo.
In realtà questa operazione di individualizzazione dei
problemi e delle colpe serve soltanto a commercializzare anche questo aspetto
dell’esistenza, obbedendo così al mandato imperativo della società dei consumi
che non può lasciare nessuna aspetto della vita al di fuori del mercato.
“Nella nostra società di individui disperatamente in cerca
della propria individualità – conferma Bauman – non manca chi, sulla base della
propria qualifica, magari di una semplice autocertificazione, ci offre il suo
aiuto (naturalmente al giusto prezzo) per farci da guida nelle oscure segrete
della nostra anima, dove si troverebbe imprigionato il nostro io che lotta per
uscire alla luce.”[21]
A questo punto, l’intero impianto di questa pratica consulenziale
come già si è fatto notare, deve fare i conti con una serie di profonde
contraddizioni: in primo luogo la pratica di consulenza pretende di manipolare
una supposta interiorità, di cui però offre solo un’immagine limitata, se non
addirittura falsata, nel momento in cui la separa dal mondo reale della vita,
dei rapporti, dei gesti e ne fa piuttosto un ambito circoscrivibile (di
discorsi, di esercizi, di metafore, di immagini) intorno a cui realizza un vero
e proprio mercato (della consulenza, delle pratiche di benessere e di cura
dell’anima, dell’editoria specializzata).
In secondo luogo la pratica di consulenza così intesa
contribuisce ad alimentare quella caotica pluralità di soluzioni apparentemente
possibili e a disposizione del singolo per la risoluzione privata dei suoi
problemi, ma così invece di ridurre incertezza, insicurezza e mancanza di punti
di riferimento, li amplifica e se ne serve come premessa necessaria del suo
lavoro.
Infine, puntando alla soluzione individuale di problemi collettivi
una pratica così realizzata finisce per indurre un atteggiamento profondamente
impolitico, che ignora o almeno sottovaluta la dimensione della vita associata
e contribuisce in questo modo a creare quella situazione per cui “ci andiamo
abituando all’idea che il nostro itinerario di vita individuale sia l’unica
realistica preoccupazione e l’unico terreno su cui concentrare un’azione che
sia efficace e non uno spreco di tempo.”[22]
C’è poco da fare, i consulenti, osserva Bauman, “hanno costantemente timore di
oltrepassare l’area recintata del privato. Le malattie sono individuali, e
altrettanto le terapie; le preoccupazioni sono private, e altrettanto i mezzi
per combatterle.”[23]
In questo senso il lavoro dei consulenti sembra appartenere a quella “politica della vita” che ben si
distingue dalla politica in senso stretto, e che si occupa di quanto le persone
potrebbero fare da sé e per sé, ovvero ciascuna per se stessa, e non piuttosto
a quanto potrebbero raggiungere tutte insieme, e per ciascuna di esse, se unissero
le proprie forze.[24]
Secondo questa lettura della modernità liquida e della
società dell’incertezza, il consulente / counselor filosofico potrebbe essere egli stesso parte
di tale apparato che da un lato contribuisce ad allargare, sviluppare,
confermare l’incertezza delle cose e delle scelte, problematizzandole,
mostrando le alternative, aprendo lo scenario delle possibilità, e dall’altro
lato pretenderebbe di intervenire sulle incertezze individuali per risolverne e
contenerne gli effetti negativi. Se fosse davvero così, tale attivià
risulterebbe perfettamente funzionale al perpetuarsi della condizione
post-moderna.
La critica radicale alla consulenza che Bauman ci prospetta,
deve porci , a mio modo di vedere, di fronte ad una scelta altrettanto
radicale: per chi si occupa di consulenza filosofica /counseling filosofico si
tratta cioè di scegliere in modo netto tra due prospettive: quella
perfettamente delineata nella ricostruzione del sociologo, la prospettiva di
seguire il flusso della nostra condizione liquida moderna accettando di essere
soltanto una delle molte componenti di questa fluidità, dando così vita ad una
pratica professionale del tutto coerente con l’impianto della società dei
consumi e della condizione dell’individualismo incerto, dell’individualità
inconclusa e incoerente, della socialità disgregata, del tutto inabile a
modificare realmente questa condizione perché anzi contribuisce a perpetuarla e
confermarla.
Dall’altra parte si tratterebbe di assumere invece una
prospettiva critica, imboccando un percorso di analisi di questa condizione, di
svelamento dei suoi presupposti, di messa in luce delle sue contraddizioni, di
confronto intorno alle possibilità che il singolo ancora possiede di
emanciparsi da questa condizione adottando stili di vita più rispettosi della
propria umanità sociale, pur senza alcuna pretesa di smontare dalle fondamenta l’intera
impalcatura che sorregge l’uomo d’oggi, ma certo accettando la sfida che questa
realtà ci impone.
Il filosofo, da questo punto di vista, si può assumere, se
vuole, se decide di farlo, simile compito, di sollecitare alla consapevolezza
individuale e collettiva, di chiamare al confronto con l’altro, con gli altri,
alla condizione delle sofferenze e delle difficoltà, alla misura della propria
responsabilità individuale e collettiva, alla presa d’atto del posto che ognuno
di noi riveste nella società, alla delineazione
dei ruoli che ognuno di noi interpreta in questo grande gioco
collettivo. Egli può dunque, perché possiede gli strumenti per farlo, porsi il
compito di superare la condizione di indifferenza, e di elaborare viceversa una
forma avanzata di soggettività morale.
Piuttosto che mettersi al servizio dei processi di
individualizzazione che caratterizzano la società contemporanea, la filosofia
che torna alla vita deve articolarsi come pratica di cittadinanza, ove il ruolo del cittadino deve essere inteso proprio
come l’opposto di quello dell’individuo: tanto questi è concentrato sulla
propria esclusiva interiorità, quanto piuttosto quello appare “incline a
cercare il proprio benessere attraverso il benessere della città”[25],
rivalutando espressioni come “causa comune”, “bene comune”, “buona società”,
“società giusta”, ecc. Così, mentre la società cerca di riempire uno spazio
pubblico preventivamente svuotato, con le rappresentazioni di una intimità
spettacolarizzata, di una individualità fatta di immagini e di suggestioni, di
una sapere teatralizzato, il cittadino
prova a riempire nuovamente lo spazio pubblico del suo contenuto originario,
facendone di nuovo lo strumento per chiudere, come dice Bauman, l’abisso che
oggi separa la realtà de jure
dell’individuo, da quella de facto,
che si può sintetizzare nella condizione di uomini e donne capaci di tornare
“padroni del proprio destino e in grado di fare le scelte che hanno veramente a
cuore”[26]:
riconquistando così una libertà, un’autonomia individuale, una capacità di
autodeterminazione che appaiono proclamate di diritto ma poi mortificate nei
fatti. “L’individuo de jure –
conclude Bauman – non può trasformarsi in individuo de facto senza prima diventare cittadino.”[27]
La critica radicale alla consulenza proposta da Bauman è,
dunque, da considerarsi davvero utilissima perché ci dà l’occasione di metterci
come filosofi praticanti di fronte alla necessità di una scelta altrettanto
radicale, di fronte al bivio in cui essa oggi si trova: adattarsi
all’esistente, confermandolo, o contribuire ad aprire il passaggio verso una
nuova inesplorata condizione. Qui appunto tutto dipende dalla nostra libera scelta.
[Una prima versione di questo saggio, assai diversa nella premessa e nelle conclusioni, è stata pubblicata sulla rivista Phronesis, a. X,
n. 18, aprile 2012, pp. 9-21]
[1]
La prima immagine si trova ad esempio in Z. Bauman, La solitudine del cittadino globale, Milano, Feltrinelli, 1999,
p.28, ma anche in Modernità Liquida, Roma.-Bari,
Laterza, 2011, pp.57-58; la seconda in A. Giddens, Le conseguenze della modernità, Bologna Il Mulino, 1994, p. 138,
[2]
Z. Bauman, La solitudine del cittadino
globale, cit., p. 28,
[3]
Per una panoramica delle tematiche più frequenti in consulenza filosofica si
veda la mia ricerca I temi della consulenza
filosofica. Un’indagine, in «Phronesis», a. VII, n. 13, ottobre 2009, pp.
29-44
[4]
Cfr. Z. Bauman, Modernità liquida,
cit., oppure, Vita liquida,
Roma-Bari, Laterza, 2008
[5]
Z. Bauman, La società individualizzata,cit.,
p. 78
[6]
Z. Bauman, La società individualizzata,
cit., pp. 91-92.
[7]
Ivi, p. 92.
[8]
Z. Bauman, Capitalismo parassitario,
Roma-Bari, 2009, pp. 50-51
[9]
Ivi, p. 138
[10]
Z. Bauman, L’etica in un mondo di
consumatori, Roma-Bari, Laterza, 2011, p. 25
[11]
Z. Bauman, Amore liquido, Roma-Bari,
Laterza, 2006, p. 81
[12]
Ibidem
[13]
Ibidem
[14]
Z. Bauman, Voglia di comunità,
Roma-Bari, Laterza, 2003, p. 9
[15]
Z. Bauman, Intervista sull’identità, a
cura di B. Vecchi, Roma-Bari, Laterza, 2003, p. 109
[16]
Ivi, p. 110
[17]
Z. Bauman, Voglia di comunità, cit., p. V. Da notare che Bauman riprende qui e
altrove una argomentazione originariamente di Ulrich Beck, vedi di quest’ultimo
La società del rischio, Roma,
Carocci, 2000, p. 197
[18]
Z. Bauman, La società individualizzata,
cit., p. 36
[19]
Z. Bauman, Voglia di comunità, cit., p.
62
[20]
Z. Bauman, La società sotto assedio,
Roma-Bari, Laterza, 2005, p. 213
[21]
Z. Bauman, Vita liquida, cit., p. 6
[22]
Z. Bauman, La società sotto assedio,
cit., p. 239
[23]
Z. Bauman, Modernità liquida, cit.,
p. 65
[24]
Ibidem, vedi anche Z. Bauman, Modernità liquida, cit., pp. 65-66
[25]
Z. Bauman, Modernità liquida,
cit., p. 28, cfr. anche pp. 34-35
[26]
Z. Bauman, La società individualizzata,
cit., p. 138
[27]
Ivi, p. 139
Interessante analisi se non avesse come presupposto un equivoco derivato forse dalla polemica cui fai riferimento: consulenza non è l'equivalente di counseling (o counselling nella versione british). Purtroppo la traduzione che in Italia si è fatta dell'espressione Philosophische Praxis è stata una vera sciagura per la disciplina perché oggi potremmo discuterne su basi diverse.
RispondiEliminaL'analisi di Bauman non fa una piega ma la Philosophische Praxis non è nata per essere consulenza secondo l'accezione che ne dà il sociologo polacco ma – come ben sai per avermelo insegnato anche tu - per filosofare direttamente con le persone, per riaccendere in loro la capacità di pensare in proprio, di affinare la personale filosofia (fosse pure contro corrente e antisistema). In questo senso anch'essa offre una forma di aiuto (si dà una mano a qualcuno che è impigliato in un pensiero asfittico) ma non secondo il modello della “relazione di aiuto centrata sul cliente” tipica del counseling – che è una precisa struttura concettuale con i suoi derivati e corollari di metodo, di approccio e di strumenti e non una mera espressione del linguaggio comune. Non è offensivo per nessuno mantenere chiara questa distinzione che non delegittima né il counseling né la consulenza.
C'è un punto importante da non perdere di vista: la Philosophische Praxis ha una valenza politica esattamente come la filosofia. Questo è il suo discrimine e lo sanno perfettamente, in altro contesto, coloro che provano a ridurla ai minimi termini nei programmi scolastici da cui prima o poi verrà eliminata. Diranno che ci sono cose più utili da imparare ma sappiamo bene che il messaggio implicito è che “far pensare è pericoloso, meglio evitare”. Il senso della Philosophische Praxis è dire no proprio a questo paradigma, fin dall'orgine. E' una pratica, si, ma di resistenza.
Cara Marta,
RispondiEliminacondivido tutte le cose che scrivi, ma forse non sono riuscito a spiegarmi bene, so bene quali sono le differenze teoriche tra consulenza e counseling, ciò che sostengo è nelal pratica operativa, il consuilente filosofico e il counselor filosofico agiscono nello stesso mercato. E quindi, poichè la domanda condizone l'offerta, finiscono per fare cose indistinguibili. La polemica erstya puramente teorica, perchè le diverse intenzioni, le diverse finalità, e perfino la difversitàò diparte dei mezzi, si riducono a questioni marginali nel momento che entrambe le pratice insistono sullo stesso terreno di economia dell'esistenza. Che le intenzioni siano diverse, e che gli opoeratori si pensino diversi fra loro non dice nulla al 0potenziale fruitore che continuerò a chiedere di comprare un aiuto al proprio disagio. Allora, io sostengp che se davvero vogliamo "salvare" la consulenza filosofica "come noi la intendiamo" (e sia chiaro che l'intenzionalità non è una verità assoluta ma solo una possibilità, un modo, una forma intorno alla quale alcuni di noi si sono incontrati - , non c'è altro da fare che "abbandonarla". Intendo: fare un salto radicale, e accedere a quella che ho chiamato FASE DUE. Ma per questo c'è bisogno di un lavoro comune, coraggioso e determinato. Stefano