Recensione a : Davide Miccione, Guida filosofica alla sopravvivenza, Milano, Apogeo, 2008
in "Phronesis",
a. VI, n. 11, ottobre 2008, pp. 103-107
Di Stefano Zampieri
Entrando con piglio deciso nella categoria degli
“apocalittici” in compagnia di personaggi come Gunther Anders, Galimberti,
Cioran, Davide Miccione inaugura questa riflessione certamente non
accondiscendente, né indulgente intorno alla nostra condizione di uomini nel
tempo estremo della tecnica, facendo luce sulla categoria del “perplesso” cioè
di colui che si trova ad affrontare l’esistenza senza l’ausilio del luogo
comune della tradizione e senza l’illuminazione del saggio. Una condizione
quasi sotterranea, perché difficile, socialmente, da interrogare e da
manifestare: meglio tenerla per sé, nasconderla, perché a esibirla troppo
vivacemente si finirebbe per attirare l’attenzione del medico.
Una volta l’inquietudine dell’esistenza era materia da
filosofi ma, fa notare Miccione, da molto tempo ormai i filosofi hanno smesso
di agire conformemente a quel che dicono e pensano e sono anch’essi dunque
responsabili di quella “schizofrenia ideale” (p. 8) dell’occidente dove nessuno
più si aspetta che a certe idee corrispondano comportamenti conseguenti.
Nel migliore dei casi il filosofo è anch’esso un perplesso,
ma egli proprio perché non subisce la perplessità ma la interroga, ne fa motivo
di studio e di pensiero e così si mette nella condizione di poter fornire
“guide di mera sopravvivenza” (p. 13) all’uomo comune, come quella che abbiamo
fra le mani.
Così, dunque, si presenta questo straordinario libretto, come
una guida filosofica nella perplessità del presente. Ovvero in un tempo in cui
bisogna difendersi dalla velocità ottusa della tecnica, dall’idea che essa
possa supplire ai nostri difetti senza sforzo, senza fatica alcuna da parte
nostra (così la liposuzione è meglio della palestra, le pastiglie più efficaci
dell’esercizio con il quale potremmo imparare a vivere la nostra tristezza).
Ciò che appare necessario è difendersi dagli oggetti che
condizionano la nostra esistenza chiedendo di esserne la parte essenziale,
prima che gli oggetti stessi possano fare a meno di noi. Per questo Miccione si trova a dover evocare
“un’etica e una pratica della fatica, dell’agone con le cose” (P. 38), per
tornare a “fissare il senso profondo della fatica per l’uomo” (p. 39) e così
prendere le distanze da quella condizione di dipendenza dalle cose che ci
ammaliano con il loro potere di rendere facile la vita divorando però le nostre
residue energie, la nostra capacità di essere.
In questa prospettiva si comprende bene l’esilarante
rappresentazione del “tecnopellegrino”, quello che fa il cammino di Santiago di
Compostela spedendo i bagagli col taxi: insuperabile emblema di questo modo di
intendere l’esistenza come un avere senza lottare, un ottenere senza competere,
un vincere senza fatica e senza sforzo, un provare esperienze senza esserci mai
veramente, un “progettare le cose che facciamo senza calcolare noi stessi in
queste cose” (p. 44); è questo il modello cui ci induce la moderna civiltà
occidentale, un modello in cui l’artificio tecnico si offre di liberarci dal
dolore, dalla paura, dalla fatica, ma così lentamente e inesorabilmente ci
sottrae la realtà stessa.
Da questo punto di vista, fa notare Miccione, la scuola
buonista, accogliente, garantista, tollerante, terrorizzata dei suoi effetti
traumatici, incapace di suscitare passioni, e di esigere responsabilità,
incapace di porsi, direi io, come esercizio
in funzione della vita stessa, rappresenta di certo “l’avamposto della follia”
(p. 47), e non fa altro che coltivare un modello di uomo di “incredibile
debolezza”, un uomo che “conosce poco le
frustrazioni dei suoi desideri, poco il dolore, poco le privazioni, è
inoltre abituato a considerare l’autocontrollo come un delitto di lesa
spontaneità, l’autodisciplina come un castigo autoinflitto, la volgare
sincerità a tutti i costi come espressività.” (p. 51)
La istituzioni della moderna civiltà, dalla scuola al mondo
del lavoro, dalla famiglia alle pratica della società di massa, fanno la loro
parte per evitare il vero cambiamento che l’uomo d’oggi percepisce come troppo
rischioso, egli preferisce illudersi di cambiare senza cambiare davvero, perché
non ne è in grado, perché non sarebbe capace di sopportare un cambiamento vero,
tale cioè da mutare profondamente il suo stesso mondo. E d’altra parte, anche
volendo gli mancano comunque i modelli cui paragonare il meglio e il peggio di
qualsiasi trasformazione, tutto ciò che può fare allora è scegliere tra diverse
versioni di sé.
In questo quadro si arriva all’assurdo per cui solo la malattia e la relativa terapia possono
garantire l’anelata trasformazione; se non è più possibile pensarsi migliori o
peggiori almeno pensiamoci nella differenza tra malato e guarito che porta con
sé l’apologia universale della categoria Nocivo/Curativo che ha definitivamente
soppiantato quella antica Bene/Male, ma persino quella moderna Utile/Inutile,
dando vita a quel paradigma terapeutico
ormai dominante, in base al quale ci troviamo a dire “risolvete il mio problema
(…) sono disposto a pagare qualsiasi prezzo tranne quello di mettermi anche
minimamente in gioco, in discussione, di mutare anche solo minimamente il mio
stile di vita o il mio modo di intendere l’esistenza.” (p. 70)
Così ogni debolezza o scelta sbagliata diviene una patologia
da curare e la responsabilità si sposta dal singolo alla scienza.
Miccione coglie perfettamente il legame tra questa visione
della modernità e la Consulenza Filosofica
(cfr. pp. 73-77) che nasce eccentrica rispetto a questo quadro ma non
può fare a meno di esserne coinvolta, cedendo talvolta alla tentazione di
lasciarsi accreditare come una “professione d’aiuto” e così di farsi prendere
anch’essa dal vortice della terapizzazione universale, anzi della
“mondoterapizzazione” (cfr. 56 e sgg.) come la chiama Miccione.
È una preoccupazione del tutto condivisibile, dietro la
quale c’è la realtà di una scelta che la Consulenza Filosofica nel suo
complesso non ha ancora compiuto, una scelta radicale, quella che ci si pone di
fronte al bivio tra il proporsi come una
possibile forma alternativa (e in fondo poco originale) di terapia della
parola, e l’assumere su di sé il rischio di una radicalità di pensiero che non
può che metterci di fronte alla scena sconvolgente di una modernità
prepotentemente volta alla propria autodistruzione. La scena che si apre di
fronte a questa seconda possibilità, che il libro di Miccione non esplicita ma
lascia senza equivoci all’intelligenza del lettore, è una scena carica delle
macerie di una condizione storica nella quale siamo invischiati e dalla quale
non usciremo né presto né bene, ma ciò non toglie che ci appartenga la
responsabilità, e quindi la necessità di essere presenti al nostro tempo.
In questa direzione si colloca anche la lucida ed efficace
critica alla diffusa tentazione di cercare rifugio in un oriente che
rappresenta prima di tutto una occasione di fuga dall’occidente, ovvero la
possibilità “di uscircene alla chetichella dalla responsabilità della
contemporaneità” (p. 102). Spesso, infatti, non ci si avvede che quanto
affascina nelle dottrine orientali era già contenuto in qualche recesso della
tradizione culturale e filosofica occidentale.
In generale quel che di meglio sembra emergere in questa
improvvisa attenzione alle pratiche dell’oriente è una effettiva attenzione
all’uomo come insieme di contro alla sguardo sezionatore della scienza
occidentale tutto concentrato sui singoli organi e sostanzialmente dimentico
dell’unità della persona. L’osservazione è corretta, ma falsa, come fa notare
Miccione, perché era già patrimonio della medicina greca, ed è, aggiungo io,
acquisizione fondamentale di tutto il pensiero fenomenologico. La tentazione
orientalistica invece schiaccia l’occidente in una sua versione, quella
scientifica, e ignora che esiste un’altra via del pensiero (quella via lungo la
quale incontriamo anche la pratica filosofica).
In definitiva dal panorama rappresentato da Miccione, pur
con la sottile ironia e la leggerezza disincantata di chi ha fatto, o cerca di
fare un passo indietro, emerge il compito impegnativo per chi sappia cogliere
il valore di novità contenuto in un modo diverso di avvicinarsi alla filosofia
a partire da quel semplicissimo e insieme terribile principio di coerenza che
appare capace da solo di smontare buona parte della cultura filosofica contemporanea,
non perchè intellettualmente inadeguata ma piuttosto perché esistenzialmente
inetta, piegata su se stessa, ripiegata in una attività tecnica e funzionale,
ma scissa nel gesto concreto dei filosofi, tra un dire ed un agire che non si
intersecano se non per sbaglio. Ecco ricominciare da questo principio di
coerenza, che diventa, a cascata, un principio parresiastico e insieme un
interrogativo mai stanco di sé, che piglia con forza il nostro essere incerti
nella vita, il nostro essere perplessi, e lo torce verso un dovere etico di
presenza a noi stessi e al mondo.
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