Stefano Zampieri
Recensione a : Ran Lahav, Comprendere la vita, Milano, Apogeo,
2004, in «Pratiche
Filosofiche /Philosophy Practice», n.5, aprile 2005, pp. 99-100
Nel difficile percorso che la Consulenza
Filosofica sta compiendo in questo anni per arrivare ad una adeguata
consapevolezza di sé, un momento fondamentale è probabilmente rappresentato dal
volume di Ran Lahav pubblicato da Apogeo alla fine del 2004 col titolo Comprendere la vita. Si tratta in realtà
di una raccolta di articoli pubblicati tra il 1993 e il 2001 nei quali Lahav,
che insegna presso l’Università di Haifa in Israele, mette a frutto, insieme,
un paziente lavoro teorico e la sua pratica di consulente.
Il principio guida di Lahav è quello che
lui definisce dell’interpretazione della
visione del mondo, intendendo con questo che ogni atto della vita
quotidiana può essere interpretato come espressione di “un sistema di
coordinate che organizza, fa distinzioni, trae conseguenze, confronta,
conferisce significati e così dà un senso ai vari atteggiamenti dell’individuo
nei confronti di se stesso e del proprio mondo” [14]. Ecco che allora, sulla base di tale
presupposto si risponde alla delicata questione del contenuto filosofico della
consulenza: essa dovrà mettersi a confronto con la vita del consultante, con i
suoi atti, i suoi sentimenti, i desideri, le aspettative, e da esse ricavare quella
griglia interpretativa che ne costituisce il fondamento, cioè appunto la sua
visione del mondo.
È necessario tuttavia precisare in che
modo una tale pratica si distingua da una ricerca di natura psicologica. A fare
la differenza è la prospettiva causale
proprio dell’approccio psicologico ed estranea invece alla Consulenza
Filosofica, la quale non indaga nella profondità
del dominio interiore per cercare meccanismi e nessi causali, ma al contrario
restando sulla superficie, prova ad
interrogarsi intorno alle implicazioni filosofiche degli eventi della vita.
È chiaro che su questo si potrebbe
aprire una complessa ricerca fenomenologia ed ermeneutica insieme ma, in questa fase, Lahav si limita ad indicare,
a titolo di esempio, alcuni modelli non causali e non psicologici di cui si può
servire la Consulenza: il valore etico di un atto, che ci porta al dominio dei
valori e dei fini, il valore estetico di un’opera, che ci introduce nel mondo
della valutazione, il significato linguistico di una parola che ci affida alle
tecniche della interpretazione, o ancora la logica di una mossa in una partita
a scacchi, che ci mette di fronte al campo della tattica e della strategia.
Il rapporto tra gli atti della vita quotidiana
e una visione del mondo individuale, ricorda, per analogia, i rapporti qui
esemplificati. Questo significa che, per Lahav, risulta possibile interpretare
anche le difficoltà della vita quotidiana, i disagi, le crisi di senso – quanto
cioè è normalmente oggetto dello sguardo psicologico – “come espressioni di
aspetti problematici della visione del mondo della persona” [17].
Il consulente, in quanto filosofo, ha
dunque gli strumenti e le competenze necessarie per analizzare il livello di
coerenza, di efficacia e di adattabilità, i presupposti impliciti, le
irregolarità di una visione del mondo. E questa è la sua funzione nel colloquio
di consulenza.
Se tutto questo è vero, allora bisogna
ripensare anche lo scopo della Consulenza Filosofica, certo essa non può essere
intesa come terapia, quanto meno perché
non contiene in sé il momento della diagnosi, ma al contempo non si può negare
che un lavoro ben fatto intorno alla visione del mondo del consultante, porti
quest’ultimo ad una pienezza di significato che rende comunque l’esistenza più
sensata e più ricca. Lo porti cioè all’acquisizione di una saggezza, secondo l’espressione di Lahav, che diviene elemento
costitutivo e regolativo della sua esistenza.
Non si tratta, dunque, semplicemente di
puntare alla soluzione del problema specifico posto dal consultante, il
colloquio filosofico non ha funzione così immediatamente strumentale, ma punta
piuttosto ad “una comprensione filosofica più ricca del suo sé e del suo mondo”
[59], comprensione che renderà possibile affrontare anche ambiti che vanno al
di là della vita attuale del consultante, cioè gli “orizzonti infiniti di
significato che si intersecano nella realtà umana” [60].
La saggezza così intesa, porta dunque ad
una trascendenza, ad uno sporgersi oltre la propria immediata realtà, cioè
all’acquisizione di un modo d’essere aperto. In questo senso Lahav afferma
emblematicamente che “intraprendere una consulenza filosofica somiglia più a
iniziare una formazione artistica che ad andare in psicoterapia” [64].
Naturalmente la condizione di saggezza
così intesa non potrà essere rapidamente legata ad una sola lettura della
realtà (ad una teoria filosofica, ad un autore), ma dovrà realizzarsi come “un
dialogo con la rete infinita di idee e di prospettive che sono intrecciate nel
regno dei modi potenziali di essere” [ib.].
De-psicologizzare il dialogo, dunque,
sottraendosi alla prospettiva causale, puntando al recupero e alla esplicitazione della visione del mondo
del consultante, e al raggiungimento di una condizione di saggezza mobile, non
intesa come deposito di verità assolute ma come cammino e dialogo nel mondo
delle possibilità e delle interpretazioni. Così stabilite le coordinate
teoriche, Lahav mette a frutto anche il suo lavoro di consulente e prova a
definire, da un punto di vista operativo, le fasi di un colloquio di Consulenza
Filosofica. Individua così un momento iniziale dedicato alla descrizione della
realtà concreta del consultante, del suo dilemma, o del suo disagio; segue
l’individuazione della questione filosofica che emerge dalla descrizione dei fatti,
e la sua formulazione. Dopo di che è possibile iniziare il processo di
elaborazione filosofica della questione emersa. A questo momento astratto fa
seguito il tentativo di utilizzare la visione del mondo così riordinata e resa
coerente dal colloquio filosofico, alle vicende reali, concrete, del
consultante, il quale, a questo punto, deve trovare in sé le risposte di cui ha
bisogno.
Lahav ha la consapevolezza che queste
indicazioni di massima non costituiscono un vero e proprio metodo, e che la
Consulenza Filosofica, per quanto egli l’abbia coraggiosamente sottoposta ad
una approfondita indagine empirica, i cui risultati sono qui riportati, non si
configura ancora come una tecnica definita e condivisa. Tuttavia non è questo
che mette in difficoltà il lettore di fronte alle sue lucide ricostruzioni, che
appaiono credibili e fondate, ma inspiegabilmente deboli sul fronte del
riferimento filosofico. Come se le questione messe in campo, la
de-psicologizzazione del dialogo, il superamento dell’impostazione causale, la
prospettiva di una ricerca fondata sulle visioni del mondo, la stessa meta
finale della saggezza, non fossero questione di ampio spessore filosofico,
cariche di storia e di sviluppi, da Nietzsche a Husserl, da Jaspers ad
Heidegger e Wittgenstein.
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