L’educazione nella società liquida
A partire da Bauman
di Stefano Zampieri
in «Chichibio» a. XIII, settembre-ottobre 2011
Diversi sono i segnali che spingono a prendere
consapevolezza della condizione di crisi dell’educazione che noi insegnanti
constatiamo quotidianamente nelle nostre scuole. In primo luogo essa ha a che
fare con la liquefazione universale delle identità, e con la successiva privatizzazione
dei processi di formazione dell’identità stessa; ha a che fare con le
condizione di incertezza generalizzata rispetto al presente e rispetto al
futuro, con la dispersione dell’autorità, e con la massa imponente di messaggi
valoriali contraddittori, e in generale, con la frammentarietà della vita che
caratterizza il mondo in cui oggi tutti noi viviamo. L’attuale crisi
pedagogica, dunque, discende prima di tutto da una crisi delle tradizionali
strategie di vita che le istituzioni pedagogiche maturate in un contesto
solido, ordinatore, formativo di individualità stabili, non comprendono più e
quindi non sono in grado di assecondare.
Osserviamone alcuni di questi segnali. In primo luogo ci
metterei senz’altro l’esercito dei cosiddetti need (not in education, employement
or training, i francesi usano l’espressione ni-nis, che sta per né – né, cioè né scuola né lavoro), ovvero i
ragazzi tra i 15 e i 19 anni, esclusi tanto dalla formazione quanto dal lavoro,
che rappresentano bene il sostanziale fallimento della scuola superiore che non
riesce a portare tutti gli studenti alla regolare conclusione del ciclo di studi,
e lascia diffondersi e proliferare masse di giovani attratti più dal fascino
della vita televisiva che dal peso di quella reale.
In secondo luogo osserverei le difficoltà derivanti da una
sempre più massiccia presenza di studenti di origine straniera, una presenza
formalmente garantita, ma di fatto lasciata all’improvvisazione degli
insegnanti che devono fare da contrappeso rispetto alla marea montante della
xenofobia e dei sentimenti neotribali che appaiono rafforzati da una percezione
di pericolo e di insicurezza che sta diventando prevalente in tutti i paesi che
importano lavoro.
Ancora, in generale, siamo in un tempo in cui la notorietà
ha sostituito la fama; nella costruzione delle gerarchie ha molto più rilievo
la visibilità pubblica che non le credenziali accademiche. “Si parla di me,
dunque sono” è la versione attuale del motto cartesiano, e l’imperativo dominante
sembra essere quello di apparire con il massimo rilievo anche accettando il
rischio dell’obsolescenza immediata. Questa è la condizione per ascendere nella
scala sociale, non certo l’istruzione. Si prenda come facile esempio l’ampia
serie di personaggi eminenti, come il celebratissimo Steve Jobbs, fondatore
della Apple, o Jack Dorsey, fondatore
di Twitter, affermati e onorati a
livello globale ma che rappresentano nelle loro biografie esempi di fallimenti
scolastici esibiti con orgoglio dall’alto del successo planetario delle loro
imprese economiche.
Infine si faccia caso alla evidente perdita di autorevolezza
dell’insegnante che non ha più un accesso privilegiato alla conoscenza che è
stata resa accessibile a tutti nella sua sfolgorante varietà dall’apertura
dell’autostrada informatica.
Insomma, è chiaro che la condizione generale dell’educazione
non si può valutare se non osservando attentamente i fenomeni sociali che
condizionano il nostro paese, e tutti i paesi occidentali. In questo senso va
letta attentamente la ricchissima intervista curata da Riccardo Mazzeo al
maggiore sociologo del nostro tempo, il polacco Zigmunt Bauman, pubblicata da Erickson
con il titolo Conversazioni
sull’educazione (2012). In essa vengono toccati molti aspetti che
caratterizzano la vita di oggi e la ricerca di Bauman, dalla questione del
consumismo a quella delle migrazioni, delle nuove tecnologie, dei sistemi
economici, della globalizzazione, delle nuove povertà, ecc. D’altra parte
sarebbe davvero strana l’idea di riflettere sulla dimensione educativa
prescindendo dalla complessità del reale in cui essa si colloca, e forse questo
è proprio uno degli errori più diffusi: pensare che la scuola possa essere
neutrale, cioè avulsa, estranea, non compromessa con le linee di sviluppo della
società in cui viviamo.
Come si può progettare un nuovo modello educativo se non si
parte dai fenomeni reali a cui esso dovrà comunque dare risposta? Come si può
proporre una qualsiasi forma di educazione che non contempli la possibilità di
una apertura verso il futuro, verso la riconquista, da parte delle giovani
generazioni, di un tempo, di una possibilità, di un progetto, da cui sono stati
espropriati?
Bauman qui riprende alcune celebri riflessioni di Gregory
Bateson come fondamentali per comprendere il processo dell’educazione nel senso
in cui possiamo intenderla e viverla oggi.
Bateson, come noto, individua tre livelli di educazione, quello più
basso della semplice trasmissione e memorizzazione del sapere, che oggi,
commenta Bauman, appare sempre meno significativo stante il diffondersi e il
radicarsi delle strumentazioni digitali che si offrono come perfetti sostituti
delle tradizionali forme della memorizzazione. Un modello che oggi, in un clima
generale di riflusso e di restaurazione neoconservatrice, qualcuno sembra voler
rivalutare, si pensi ad esempio a molte riflessioni di Paola Mastrocola
insegnante e scrittrice che gode di ampio credito nell’opinione pubblica.
Vi è poi il secondo livello, quello che Bateson chiama il
“deuteroapprendimento”, che punta piuttosto all’acquisizione della cornice
cognitiva in cui si collocano le informazioni presenti e quelle future. Ed è,
chiaramente, il livello più alto e più ricco, che crea individui capaci di
orientarsi in situazioni nuove e diverse. Il livello a cui sembrano
confusamente aspirare le nuove parole d’ordine del nostro ministero quando
spinge verso la programmazione per “competenze”. E infine vi è il terzo livello, quello
dell’apprendimento delle capacità di smontare e rimontare la cornice cognitiva,
oppure di sbarazzarsene senza rimpiazzarla. Una capacità che Bateson giudicava
però sostanzialmente patologica e Bauman, invece rileva essere ormai diventata
”la norma nel processo di insegnamento/apprendimento” (p. 23), ed anzi fa
notare come essa per altro, corrisponda perfettamente a quella che Thomas Kuhn
chiama “rivoluzione scientifica”, cioè la fase in cui si abbattono i vecchi
paradigmi, le vecchie visioni del mondo per adottarne di nuove, più efficaci,
più adatte a rendere ragione dei fenomeni della vita. È proprio questa la virtù
che appare essenziale oggi, indipendentemente dalle aspirazioni ministeriali o
dalle pretese dei singoli insegnanti. Gli uomini della nostra età, devono essere sempre pronti a “disfare
da un momento all’altro i propri modelli mentali e strappare, con un solo rapido
balzo della mente, le tele più elaborate”(Z. Bauman, La società individualizzata, Bologna, Il Mulino, 2002, p. 160).
Perché il successo nella vita dipende molto più dalla velocità con cui si
riesce a disfarsi delle vecchie abitudini piuttosto che dalla capacità di
acquisirne di nuove.
L’affermarsi di quella che Bauman ha nominato come modernità liquida, cioè l’attuale
condizione di fluidità assoluta, di mancanza di punti di riferimento, di
flessibilità e precarietà in tutti i settori dell’esistenza, ha prodotto,
infatti, una mutazione radicale anche nel campo dell’educazione, non è più
sufficiente porre degli obiettivi e raggiungerli, così come farebbe un missile balistico, la metafora è di
Bauman, oggi quel che la società richiede è piuttosto un missile intelligente, capace cioè di modificare in corsa la sua
traiettoria, di spostarsi e riprogrammarsi seguendo gli spostamenti e le
mutazioni continue del suo obiettivo.
D’altra parte alcuni fenomeni del mondo liquido-moderno sono
sotto gli occhi di tutti: la vitalità delle conoscenze è sempre più breve, ciò
che si è appreso una volta ben difficilmente resterà valido in futuro, i tempi
di transizione da un modello al successivo sono talmente rapidi che nessuna
conoscenza può mai essere considerata definitiva; anche l’aspettativa di essere
impegnati tutta la vita in una attività lavorativa appartiene al passato, e
viviamo piuttosto una condizione di transitorietà, di continua mutevolezza, di
cambiamento inarrestabile, così che le conoscenze che appaiono essenziali oggi,
rischiano di apparire obsolete già domani. La precarizzazione del lavoro impone
modelli educativi non più basati sulla solida stabilità della conoscenza, ma
sulla capacità indefinita di rinnovare il proprio bagaglio di conoscenze. Una
educazione che voglia essere formativa per la vita lavorativa, non può dunque
che essere aperta e creativa, puntare cioè a formare, per restare nella
metafora, missili intelligenti.
Resta da chiarire ancora qualcosa rispetto al problema che
abbiamo già indicato della presenza sempre più massiccia nelle nostre scuole di
studenti provenienti da altri paesi, o da famiglie di origine straniera. Perché
è chiaro che ciò comporta un problema di comunicazione fra culture, che
riproduce in piccolo ciò che su scala globale coinvolge oggi le relazioni
est/ovest, o nord/sud, cioè il confronto fra tradizioni, fra religioni, fra usi
e costumi, fra condizioni e aspettative economiche, tra assetti morali talvolta contrastanti o reciprocamente
escludenti. Da qualsiasi punto di vista la si osservi la comunicazione fra
culture diverse è sempre molto problematica, come sanno bene l’antropologia e
l’ermeneutica, ma sia chiaro che allo stesso ambito problematico dobbiamo
associare anche il confronto tra le culture di generazioni diverse, confronto
che il progressivo invecchiamento della classe insegnante sta rendendo palese e
in qualche caso davvero imbarazzante.
Se, da un lato, il sogno ermeneutico della fusione di orizzonti come obiettivo
della comprensione, si rivela facilmente un ideale irraggiungibile, dall’altro
la osservazione partecipante della
antropologia contemporanea non è meno impotente, poiché si fonda comunque su
una distinzione tra soggetti e oggetti d’indagine, distinzione che fissa e
perpetua ogni differenza. Resterebbe, forse, l’ipotesi di una antropologia reciproca, ovvero un
incontro tra culture bidirezionale e vicendevole, con tutte le difficoltà e i
rischi che questo comporta.
Resta il fatto che il modo migliore per entrare in contatto
con la differenza, con le culture diverse è, come sostiene Bauman, quello di cooperare
in modo informale e aperto: informale,
nel senso che non vi sono regole prestabilite ma che la comunicazione muta
progressivamente, mano a mano che si sviluppa in profondità e in ricchezza; aperto, nel senso che i risultati
dovrebbero fare seguito al processo di comunicazione, senza che si possano
stabilire fin da subito degli obiettivi da realizzare; cooperare, nel senso che tutte le parti devono trarre beneficio dal
rapporto di comunicazione, e devono essere consapevoli che in questo processo,
si vince o si perde tutti insieme.
A questo punto possiamo provare, sulla scorta delle
suggestioni che la lettura del testo di Bauman ci suscita, a elaborare
sinteticamente il nodo che si presenta a chiunque voglia oggi occuparsi del
futuro dell’educazione nel nostro paese. Siamo, infatti, di fronte ad una
alternativa per niente semplice.
Da un lato possiamo accontentarci di una educazione fuori
tempo, cioè legata ancora al modello della modernità solida, alla figura del
produttore, alla stabilità delle acquisizioni, alla fissazione, una volta per
tutte, dei ruoli e delle prospettive professionali, alla continuità della
tradizione culturale e delle tecniche di acquisizione, ed è, in fondo, ancora
questo l’assetto dominante della nostra scuola, con l’inevitabile conseguenza
dello spalancarsi di quello scarto che rende molto spesso la scuola estranea e
quindi incomprensibile alla maggioranza dei nostri studenti. Ma una scuola
percepita come aliena alla realtà concreta della vita non può certo porsi come
un corpo vivente, attivo, nel seno della società, entro la quale resta
piuttosto come un corpo morto, una zavorra, sempre più inutile, da umiliare
pubblicamente, sia sotto il profilo economico che sotto quello culturale. È
l’immagine prevalente della situazione attuale.
D’altra parte, possiamo immaginare invece una educazione al
passo coi tempi, che risponda al modello della modernità liquida, e che quindi
appaia alla società, ma soprattutto ai fruitori, come una scuola coerente con
la vita reale delle persone, con le loro aspettative di mutevolezza, di
flessibilità, di cambiamento. Ma non è certo una prospettiva priva di rischi.
Una scuola che si adatti al modello della società dei consumi si prefigura,
infatti come coerente con la cultura del nostro tempo, che non è più, come si è
detto, cultura dell’accumulazione delle informazioni e dell’apprendimento,
quanto piuttosto “una cultura del disimpegno e della dimenticanza” ( Bauman, Conversazioni sull’educazione, cit., p.
44), nel senso che ogni prodotto culturale deve essere tanto d’impatto da imporsi
sulla cultura precedente, ma anche tanto effimero da consumarsi quasi
istantaneamente, ecco allora la tendenza ad un apprendimento a colpi di spot,
di rapide e frettolose performance, suggestivo e coinvolgente ma anche
inevitabilmente momentaneo e superficiale. C’è poi il rischio di cadere nella
trappola per cui la qualità di un corso di studi si misura esclusivamente in
base alle prospettive del mercato, cioè se è in grado di offrire sbocchi
occupazionali, di fornire i servizi richiesti dal mondo del lavoro. In questo
modo la scuola si sottomette rigidamente ai criteri del mercato e ne diviene
strumento passivo.
Posta in questo modo, l’alternativa tra una scuola obsoleta
e anacronistica e una scuola al passo coi tempi e coerente con le aspettative
degli studenti ma complice consapevolmente nei processi di precarizzazione e di
alienazione delle possibilità di progetto esistenziale dei singoli, è
un’alternativa che appare insostenibile.
Probabilmente si tratta di elaborare un’altra via che parta
però dal riconoscimento del cambiamento in atto, che non chiuda la scuola in
una autoreferenzialità anacronistica e di fatto insostenibile se non al prezzo
di una vertiginoso aumento del tasso di autoritarismo. Si tratta poi di
esaltare la pluralità, la diversità, nei contenuti e nelle forme, di contro
alla monotonia del modello unico: l’autonomia
scolastica dovrebbe essere intesa non
solo come un fattore burocratico di adattamento della vita delle scuole e del lavoro
degli operatori alla singolarità operativa, strategica, decisionale del
dirigente scolastico, ma prima di tutto come capacità di adattamento dei
contenuti e delle forme d’apprendimento alle specifiche realtà sociali e
culturali. Ma nelle scuole, ormai si parla sempre più raramente di didattica,
si sono cancellate tutte le sperimentazioni, e l’autonomia nel caso migliore è
intesa come occasione di marketing in una assurda concorrenza tra istituti.
Mentre l’educazione tradizionale puntava a razionalizzare il
mondo e a creare esseri razionali adatti ad abitarlo, l’educazione attuale nel
tempo liquido-moderno se vuole “preparare alla vita” deve “coltivare la
capacità di convivere giorno per giorno e pacificamente con l’incertezza e
l’ambivalenza, con una pluralità di punti di vista e con l’assenza di autorità
infallibili e attendibili”(p. 175).
Infine, si dovrà forse trovare il modo di introdurre un
elemento critico capace di mettere i bastoni fra le ruote del meccanismo, usando
la rapidità e la varietà delle forme contemporanee della comunicazione, contro
la superficialità, la mutevolezza, la mancanza di valori autentici di tutto ciò
che è liquido-moderno, puntando al “rafforzamento delle facoltà di critica e
autocritica e del coraggio necessario per assumersi le responsabilità delle
proprie scelte e delle relative conseguenze”(ibidem) . Ma tutto questo è ancora ben lungi
dall’essere pensato adeguatamente.
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