Ruoli, personaggi e persone. La svolta pratica in filosofia e il futuro dell’uomo.
(Relazione al convegno IL DIRITTO ALLA FILOSOFIA Quale
filosofia nel terzo millennio? Venezia, Università Ca’ Foscari,
19-20 ottobre 2015 )
Abstract
The practical turn in philosophy is a reality that
returns to the philosophy the ability to interact with the men and women of the
Third Millennium.
Through this new approach, therefore, appears a new
profile of man as a citizen, with all the his tensions.
Here the condition of citizen is discussed from a
particular point of view: the complex relationship between identity and roles,
between characters and people.
La svolta pratica in filosofia è ormai una realtà, per quanto essa
assuma forme diverse, più o meno coerenti, più o meno capaci di interloquire
con la realtà degli uomini e delle donne del Terzo Millennio. E non alludo
soltanto alle forme della editoria
divulgativa di massa, della pop filosofia, dei festival, della filosofia da
talk show, e quant’altro oggi alla moda. Penso piuttosto alle forme pur
specialistiche ma investite di esigenze pratiche, quali la bioetica e l’etica
applicata, o le medical humanities.
Penso alle formula di Wittgenstein
secondo cui “capire significa sapere come procedere” e a tutto il pragmatismo
vecchio e nuovo. Penso alla rilettura della filosofia antica come pratica di
vita da parte di Hadot e Foucault. E
penso infine anche a quello che viene chiamato oggi “pratica filosofica”, e che
è un insieme piuttosto eterogeneo e abbastanza confuso di pratiche governate o
dall’intento del con-filosofare, cioè
del fare filosofia con il non filosofo, oppure dalla pretesa di vivere filosoficamente. Entrambe queste
caratteristiche ovviamente possono essere giocate in modo coerente o in modo
ingenuo e superficiale. Si può discutere
quanto si vuole sulla efficacia, sulla profondità e sulle opportunità di tutte queste forme, ma è fuori di ogni
dubbio che esse, nel loro insieme e pur nella loro approssimazione, e qualche
volta nel loro essere subalterne alle esigenze della mercificazione
dell’esistenza o di quella che oggi viene chiamata biopolitica, non nascono dal
nulla, ma da una domanda reale che la società stessa pone insistentemente. E
non è solo una domanda di senso, come si sostiene spesso in modo affrettato e
superficiale, è piuttosto una richiesta urgente, direi drammatica, di elaborare ragioni, di fissare cioè punti
di riferimento che rendano possibili e diano valore alle scelte, alle
decisioni, agli atti piccoli e grandi dell’esistenza individuale e collettiva.
Una domanda alla quale non sono
più in grado di rispondere in maniera adeguata, né la filosofia delle
accademie, né le pratiche politiche ormai totalmente mediatizzate, né quelle
religiose ampiamente desacralizzate. Una domanda alla quale tentano di
rispondere talvolta le pratiche psicoterapeutiche, ma a prezzo di una
patologizzazione dell’esistenza.
Si tratta dunque di tornare a porre la questione su di
un piano insieme esistenziale ma collettivo, discorsivo e razionale ma non
razionalizzante, analitico ma anche pratico concreto, tale cioè da risolversi
in prese di posizione quotidiane, in atteggiamenti vitali, in gesti.
Nella tradizione occidentale solo
la filosofia è in grado di formulare una simile risposta. Di qui l’ampia
richiesta che proviene dalla società, alla quale, tuttavia, la filosofia fatica
ancora a corrispondere adeguatamente. Manca spesso da parte della filosofia la
capacità di sintonizzarsi sulla stessa frequenza, di offrire risposte
all’altezza delle richieste. Risuona spesso lontanissima la voce dei filosofi,
innanzi tutto perché la crisi complessiva della società comporta una profonda
crisi anche del ruolo intellettuale cui i filosofi appartengono, e che è ormai
scomparso dall’elenco dei ruoli che questa società reputa necessari. In questo
senso se vogliamo appunto mettere sullo stesso piano discorsivo la richiesta di
ragioni e la risposta filosofica è necessario rivedere il modo in cui la
filosofia si realizza come pratica e conseguentemente il ruolo del filosofo in
questa fase storica.
E dunque, è proprio la svolta pratica in filosofia che ci ha
messo sulla via giusta, la via di un approccio
ai problemi che faccia emergere il legame essenziale che lega l’individuo al
sistema dei rapporti che costituiscono la società, laddove si svolgono i suoi
atti, i suoi gesti, le sue decisioni; un
approccio dunque che contribuisca a riscoprire lo spazio d’azione del singolo
in quanto inserito nella rete di relazioni che ne fa un cittadino. E questa trasformazione del focus della filosofia, dall’individuo singolo, dal soggetto al
cittadino dovrebbe, a mio modo di vedere, essere considerata una vera a propria
svolta copernicana.
Tuttavia è proprio a partire da
questo punto di vista dell’uomo in quanto cittadino che ci rendiamo conto del
fatto che l’individuo subisce una serie di spinte contraddittorie e dunque laceranti:
prima fra tutte quella che lo vuole consumatore infinito, e insieme infinitamente
insoddisfatto, oppure quella che lo vuole individuo unico, separato e
insostituibile ma insieme soggetto omologato e prevedibile e quindi collocabile
nelle strategie di mercato.
Queste spinte non conciliabili
finiscono per essere all’origine di molte delle sofferenze, dei malesseri, dei
disagi che caratterizzano l’uomo d’oggi. Proprio quelle con cui ha a che fare
il consulente filosofico.
Come dunque ipotizzare un punto di
sintonia tra la richiesta di ragioni da un lato e la risposta della filosofia?
Affrontare la condizione
individuale dalla prospettiva della cittadinanza, della socialità, cioè
dell’essere parte costitutiva di una rete di relazioni e di interazioni – e nel termine interazione io
sento risuonare l’espressione Wechselwirkung
che usa Simmel per indicare appunto quella interazione profonda che dà origine
alla società come tale - significa, a
mio parere, porsi su una strada che si rivela come la più efficace e al
contempo anche quella più ricca di elementi di riflessione e di ipotesi su cui
lavorare. Una strada lungo la quale possiamo essere accompagnati dalle
riflessioni di Pierre Bourdieu, secondo il quale il mondo sociale è prima di
tutto l’insieme delle interazioni cioè delle forme sociali dentro le singole transazioni
individuali.
E questa rete di relazioni,
aggiungo io, è innanzi tutto una rappresentazione, una scena, sulla quale
operano persone in qualità di personaggi, individui investiti di un ruolo,
piccolo o grande autentico o inautentico, subito o scelto, non a caso la parola
persona significa prima di tutto
maschera, perché noi siamo in questi nostri ruoli che interpretiamo.
Assumere come punto di riferimento
il cittadino, significa però rinunciare in primo luogo ad una prospettiva
psicologistica a favore di una prospettiva che muova da una antropologia non dualistica e che assuma
come riferimenti un modello di identità personale che non giace nascosta in una
quella black box interiore di cui
parla per esempio Talcott Parsons o in quello strano personaggio che Ryle
nomina come “il fantasma nella macchina”, ma che piuttosto si realizza nel
gioco delle relazioni e delle interazioni, come lo spettacolo si realizza sulla
scena.
Da questo punto di vista, dunque diviene
necessario, a mio modo di vedere, ridiscutere il complesso rapporto tra
identità e ruoli, tra personaggi e persone.
In questo senso, l’individuo si
manifesta più come il dividuum, cioè
il divisibile piuttosto che l’indivisibile, come vorrebbe il termine. D’altra
parte, è questa la nostra condizione, tutta la nostra esistenza è costruita
entro scenari, affettivi, di lavoro,
di vita, di relazione ecc., e in ogni scenario noi ci presentiamo semplicemente
in un ruolo, uno dei molti che
recitiamo.
Proprio per questo, facciamo così
fatica a cogliere la nostra identità nella sua interezza, e soprattutto nella
sua insostituibilità: perché come attori impegnati in uno dei nostri molti
ruoli non siamo affatto insostituibili. Se necessario, possiamo sempre essere
sostituiti nel ruolo da qualcuno che abbia acquisito le competenze necessarie
all’esecuzione del compito. Persino se si tratta di ruoli apparentemente molto
personali come quello di padre o di madre.
Da questo punto di vista, allora, il
ruolo e l’identità risultano ben
distinti e il ruolo appare il luogo dell’intercambiabilità e della
omologazione; il ruolo appare quasi come l’abito da lavoro che indossiamo per
tutto il tempo in cui svolgiamo le
nostre mansioni e che poi, alla fine della giornata, ci togliamo di nuovo.
Tuttavia bisogna fare molta
attenzione a non cadere nella trappola più comune, quella di pensare che dunque l’immagine di un vero Io, sia
quella che si nasconde al di sotto di ogni
maschera, quella che ogni rappresentazione occulta. Mi sembra che in
questa convinzione si annidi un vero e proprio mito della persona: che l’uomo sia l’attore che può liberarsi dei
personaggi e che solo l’attore nudo sia il vero individuo, ecco il mito. Che
per altro si sposa perfettamente con tutte le retoriche dell’autenticità o
della nuda vita.
In realtà bisogna rovesciare la
questione: i personaggi, i ruoli, non sono un sovrappiù che si aggiunge alla
vera identità della persona, ma è la
persona invece che fuoriesce dall’intersezione dei ruoli e dei personaggi.
In questo senso quello della
persona è un ideale che facilmente sfocia nell’assurdo proprio perché è la
ricerca di un soggetto non circoscrivibile. E come sempre accade in questi casi
l’interminabile percorso di avvicinamento non coglie mai il suo obiettivo, e si
perde o nell’indicibile o nella follia. Come ci mostra benissimo Pirandello con
il suo Vitangelo Moscarda, colui che scopre di essere uno, nessuno e centomila
insieme, e quando prova a liberarsi delle molte maschere che si ritrova addosso
finisce nella follia di chi non sa più distinguere se stesso da ciò che lo
circonda.
È opportuno allora, anche in
questo caso, tornare al principio della complessità e dunque provare a
elaborare un profilo dell’individualità che risulti dall’intreccio di due
coordinate: i segmenti di ruolo che
definiscono la persona ma anche le connotazioni
del soggetto morale, cioè dal modo di intendere la propria adesione al
ruolo e dalla propria capacità di entrare/uscire dai ruoli, di distanziarsi da
essi, di valutare la coerenza tra i ruoli assunti e propri valori esistenziali.
La nostra vita è imbastita così di
figure che di volta in volta ci capita di impersonare in quanto assumiamo un
ruolo, quello di marito e padre, quello di insegnante o di professionista o di
operaio, quello di nonno o di combattente, quello di anziano o quello di
adolescente. Non siamo quasi mai
semplicemente quel che siamo, ma siamo
quello che vogliamo o dobbiamo essere, cioè il personaggio che riteniamo giusto
impersonare. Sia esso un modello proveniente dal mondo del lavoro (insegnante,
operaio, dentista, disoccupato, impiegato, commessa, dirigente, ecc.), sia
proveniente dalla società (politico, sindacalista, sacerdote, ecc.) o dalla
dimensione biografica (bambino, adolescente, giovane, adulto, anziano, ecc.). Spesso
è la condizione di socialità che ci offre i personaggi da interpretare e a noi
spetta solo l’onere della scelta: in tempo di guerra o si è soldati o si è
imboscati, in età di mercato o si è compratori o si è venditori (e qualche
volta anche merce); in ambiente scolastico o siamo insegnanti o siamo studenti;
in ospedale siamo medici oppure pazienti, ecc.
L’adesione a numerose sfere
d’appartenenza, a numerose scene, per restare nella metafora teatrale, a
numerosi “campi”, come direbbe Bourdieu, segna anche la complessità delle
dipendenze delle quali dobbiamo tener conto ogni volta che mettiamo in
discussione la nostra esistenza, ogni volta che dobbiamo prendere una decisione
significativa, ogni volta che dobbiamo riprogettarci a seguito di un evento
traumatico. Ed è ciò che accade nel lavoro del consulente filosofico.
Si dovrebbe, dunque, cominciare a comprendere quale possa essere il compito di
una filosofia che intenda aderire profondamente alla realtà di questa scena
nella quale noi tutti siamo insieme personaggi e persone, attori e
protagonisti, cittadini nel senso di nodi di una trama di rapporti che ci
sostiene.
La filosofia, dopo la sua svolta
pratica, non può più esimersi di stare in questo campo, e di trovare appunto in
questo campo le proprie ragioni di esistenza. Indipendentemente dal fatto che
la si intenda come strumento di ricerca
disciplinare o esistenziale, o come pratica dialogica di confronto e di
costruzione personale.
Allora, la filosofia in quanto
pratica dialogica o di ricerca, deve assumersi questa responsabilità di
affrontare l’intera complessità di questo scenario, e quindi cominciare, per
esempio, a far luce sui ruoli che interpretiamo, e sulla loro coerenza con le
nostre aspettative, i nostri progetti di vita, i nostri percorsi esistenziali.
Deve accompagnarci nel processo di chiarificazione ma anche, lo ripeto e lo
ribadisco, nelle scelte concrete con le quali ci mettiamo alla prova, e affrontiamo
difficoltà, disagi, sconfitte, e tutte le battaglie dell’esistenza nei diversi
campi nei quali ogni giorno ci dobbiamo confrontare.
Da questo punto di vista, io
ritengo che la filosofia non sia solo un diritto,
ma anche una esigenza, una necessità
e perfino una speranza, forse l’unica
di fronte alle prospettive catastrofiche della nostra società, una società che
rischia di implodere o di esplodere sotto il peso di una complessità che non è
più in grado di sopportare, una società che sembra sempre più, per usare una
immagine di Bauman, come un treno lanciato in corsa contro un muro, il muro è
lì, lo vediamo tutti, ma nessuno sembra far nulla per rallentare la corsa. Ecco
forse la filosofia dopo la sua svolta pratica può fare qualcosa.
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