Stefano Zampieri
DAL COLLOQUIO ALLA VITA
FILOSOFICA
Il
tema proposto è certamente
accattivante, perché il legame tra pratica filosofica e pratica politica è
sicuramente un tema urgente e necessario, soprattutto in questa fase storica di
crisi della politica. Necessità di rifondazione, ricostruzione ecc.
ripensamento del nostro vivere
associato.
I
diversi interventi che si succederanno svilupperanno ovviamente diverse
prospettive, spetterà a ognuno di noi fare sintesi, trovare consonanze, o
respingere posizioni in cui non si riconosce. Come sempre in Phronesis la pluralità e la diversità devono essere
considerate ricchezza, opportunità, occasione.
A
mio parere la filosofia deve liberarsi dei questa aura di sacralità e di indifferenza
ai destini del mondo, quasi di austera e un po’ sufficiente distanza, quasi che
in quanto pensiero, in quanto pura teoria disinteressata, potesse restare
davvero estraneo e indifferente ai destini del mondo e della vita. la filosofia non può permettersi tutto
questo, la filosofia deve stare nel suo tempo.
Ma
è chiaro che nel momento in cui compare
una nuova pratica della filosofia che ha per presupposto proprio quello di
“tornare alla vita stessa” è nelle cose
che essa si confronti apertamente ed esplicitamente anche con la dimensione
politica della nostra esistenza.
Liberiamoci
immediatamente, questo è quanto vi chiedo, di ciò che oggi è comunemente
definito come “politica”, ed è spesso solo volgare lotta di potere, occasione
di arricchimento, interesse privato,
difesa di privilegi.
Abbandoniamo
la concezione della politica veicolata dai mass media dai talk show e
ritorniamo piuttosto al senso alto, greco del termine politica.
Cioè,
come diranno più approfonditamente altri in questi giorni, alla politica come la scienza architettonica che costruisce,
tiene insieme, orienta ogni altra azione umana in direzione di ciò che è meglio
per l’uomo. Come la grande scena etica
su cui noi recitiamo la nostra parte ogni giorno.
Ciò
di cui vorremmo parlare dunque , è il senso stesso della nostra vita associata,
è il campo in cui le nostre scelte etiche si concretizzano, diventano azioni,
gesti, decisioni.
Io
non vorrei però che si dimenticasse mai il nostro specifico, noi siamo prima di
tutto consulenti filosofici, (non siamo una succursale universitaria, non siamo
una associazione genericamente culturale…) e la ragione per la quale ci troviamo qui è
innanzi tutto quella di mettere in discussione, sottoporre ad esame il nostro
lavoro, dargli un senso, è necessario dunque che partiamo comunque da
questo.
In
questa prospettiva allora, vorrei mettervi a parte di una mia riflessione, che
ha valore prima di tutto di una testimonianza che offro, della mia
esperienza personale, o meglio direi,
una esperienza che condivido con tutti coloro che hanno frequentato e
frequentano le mie iniziative, lo studio di consulenza, i laboratori, la scuola
popolare di pratica filosofica che ho inaugurato quest’anno a Mestre.
Quello
che rapidamente ora vado a descrivere è il mio percorso di ricerca, non una conclusione teorica della quale cerco di
convincervi, ma una possibile strada di riflessione, da tenere presente, magari
mentre ascolterete e ascolteremo le riflessioni di altri sullo stesso tema, per
conservare aperto l’ampio campo delle possibilità che ognuno di noi ha di
fronte ogni volta che intraprende un cammino esistenziale di ricerca.
Allora,
partiamo dalla pratica filosofica: tutti coloro che ne hanno fatto esperienza
sanno bene che essa non ha finalità
terapeutiche, (ma anzi è una risposta al cosiddetto paradigma
terapeutico) ma una volta stabilito
questo resta aperta la questione su quale sia allora la finalità della
consulenza filosofica, a cosa punta? Qual è il suo scopo?
Certo
so bene, e lo sostengo sempre con forza, che la consulenza filosofica non ha una prospettiva strategica (non
punta cioè al problem solving) , e proprio questo la distingue da molte altre
pratiche oggi alla moda (PNL, Analisi transazionale, molte pratiche
psicoterapeutico, rogersiane, ecc.). Ma non avere una prospettiva strategica,
non significa non avere alcuna prospettiva, significa che la soluzione del
problema non è rilevante, non è l’obiettivo, significa che nel colloquio c’è
sempre una persona e mai soltanto un problema.
Certo
ancora si potrebbe obiettare (i filosofi un po’ sofisticamente lo fanno sempre)
che potrebbe non avere uno scopo, (o
in alternativa lo scopo potrebbe essere il puro piacere di fare filosofia) ma è
una risposta troppo debole, che non rende ragione del fatto che qualcuno faccia
lo sforzo di venire nel mio studio, di pagare una tariffa, ecc., o di
partecipare ad un laboratorio serale invece di starsene tranquillamente a casa
a guardare la partita (i miei seminari sono di mercoledì sera!). E soprattutto
non rende ragione dello sforzo che noi stessi da anni andiamo facendo per
studiare, comprendere, approfondire, sviluppare, diffondere, far conoscere,
questa attività.
Ancora
ci si potrebbe accontentare dicendo che il
suo scopo è nel percorso stesso, che il semplice realizzare il colloquio,
il solo dialogare filosofico è di per sé la finalità, ma anche questo lascia
alquanto insoddisfatti, e ha sapore di escamotage da un lato, e ancora di nuovo
non rende ragione della realtà della consulenza filosofica realmente praticata.
D’altra
parte la questione (quale sia la finalità della CF) è stata posta da tutti i
filosofi consulenti più autorevoli :
Lahav la
individua nella saggezza ma finisce
per annegarla in una visione mistica
dell’esistenza, Achenbach parla piuttosto di Leberkonneshaft, cioè capacità di saper vivere,
ed è una intuizione magnifica, ma poi quando si tratta di dare corpo
all’espressione finisce troppo spesso per tornare a quella forma di
neo-stoicismo che è un po’ il luogo comune di molta filosofia attuale, forse
perché con il suo contenuto di rinuncia, di autolimitazione del soggetto, e di
sudditanza al destino o alla natura, ben si adatta a rimpiazzare un modello
etico cristiano ormai in disarmo. Altri ancora sulla scia di Hadot e Foucault parlano
di cura di sé, che però è un
concetto che deve essere declinato e tradotto in gesti, attività scelte, e non
è sempre facile.
In
generale io credo che tutte queste risposte siano interessanti ma trovo che
possano essere meglio declinate e composte se riportate all’origine stessa del
pratica filosofica, in quanto ritorno alla vita stessa: è per questo motivo che
io proverò ad argomentare a favore della vita
filosofica come scopo del colloquio filosofico e delle pratiche filosofiche
in generale, perché ritengo che quanto accade nel gesto del colloquio si
riverberi nell’esistenza stessa, in quanto il colloquio è un esercizio, un
addestramento alla vita, un percorso attraverso il quale proviamo a uscire
dalla vita subita e obbediente, e proviamo a imboccare la strada della vita
esaminata. Il cambiamento radicale che si produce, il più radicale dei
cambiamenti, giustifica l’onere del colloquio. Ed è ciò che può dargli un
senso.
(Naturalmente, e qui lo metto solo tra parentesi perché lo ritengo
scontato: la prospettiva dalla quale sto parlando è sempre una prospettiva congiunta:
riguarda tanto il filosofo consulente quanto l’ospite).
Entro allora
più direttamente nel colloquio filosofico.
Il luogo
in cui tutto ciò accade, è un ripiegamento del tempo e dello spazio, un
sottrarsi alla vicenda diurna del fare e del produrre, per gettarsi nel labirinto
del colloquio: in esso due persone si raccontano la loro vita e la mettono in
discussione. È così che ha inizio lo scambio tra il filosofo e il suo ospite,
il primo non si limita a dare ascolto, ma offre la sua stessa presenza come lo
spazio in cui esistere entrambi, il secondo entra in un luogo e in un tempo
speciali, è presente in un tempo e in uno spazio.
Potremmo
dire, in modo un po’ ironicamente apodittico, che il colloquio filosofico è il
luogo, in cui si sospende (si mette tra parentesi, tra virgolette) il pensiero
diurno, cioè il pensiero funzionale (e funzionario) per rianimare una sorta di
“pensiero dialogante”, che non è funzionale perchè inciampa continuamente
nell’interrogazione e non è funzionario perché è servo solo di se stesso.
È in
questo modo dunque che la filosofia torna ad essere situazione. E qui, dunque, è anche la chiave per comprendere fino
in fondo la natura del colloquio
filosofico: passare dall’idea della filosofia
-
come strumento per qualcosa, idea che ancora
appartiene ad un pubblico di massa, al
pubblico cliente del “benessere”, ma ad un altro livello anche al mondo
……rigore logico al mondo della scienza, dare risposte o supporto ad altre
discipline
-
come tessuto di idee in movimento, tessuto
privo di sostanza e di corpo, sequenze di concetti, elenco di mosse logico
espressive ormai totalmente disincarnate, (come quando si legge una partita a
scacchi in un manuale, o una sinfonia in uno spartito) mimesi di una realtà
sottratta
passare
dunque da questa idea poco reale, a quella della filosofia come situazione.
Tempo -
spazio - persone - gesti
Vorrei essere più preciso: quel
che accade nel colloquio filosofico è innanzi
tutto filosofia nel senso che è apertura di una situazione che definiamo
“filosofica” nella misura in cui ciò che si dice acquista il suo senso proprio
alla luce della tradizione filosofica
da un lato e dell’atteggiamento
filosofico dall’altro. Cioè alla luce di
venticinque secoli di riflessione filosofica, di una letteratura, di un
repertorio di idee, di analisi, di metafore (come nessun’altra pratica può
vantare), e dall’altro e insieme, di un atteggiamento interrogativo esaminante
capace di meravigliarsi di fronte ad ogni evento, anche il più banale, della
nostra esistenza, capace di fare un passo indietro e metterlo in discussione.
Al contempo però, nel
colloquio filosofico, si realizza una dinamica molto particolare: l’ospite,
raccontandosi, comincia a tematizzare il proprio disagio trasferendolo dalla
condizione dell’interiorità a quella dello scambio,
cioè portandolo nel solo luogo nel quale esso può trascolorare da fatto
privato, cioè autoreferenziale, e magari ossessivo, talvolta perfino iperreale,
tanto suggestivo da condurre il singolo in un labirinto in cui si perde, a quel
luogo in cui piuttosto può diventare finalmente parte di una narrazione
collettiva attraverso la quale dovremmo poter fissare negli occhi la nostra
condizione di appartenenza ad un tempo carico di contraddizioni e di sofferenze
irrisolte (e in prossimità all’apocalisse dell’umano).
Non si deve sottovalutare, in
questo senso il valore di testimonianza che ogni narrazione di sé contiene, e
che la colloca ad un livello più ampio e più generale di quello limitato,
chiuso, narcisistico, del soggetto che si contempla.
Certo, alla base del
colloquio c’è un gesto volontario, una decisione individuale: ma quel gesto non
si esaurisce in se stesso, l’ospite sceglie di gettarsi nel colloquio ma quella
scelta lo porta al di fuori della sua limitata sfera soggettiva, facendogli
fare un passo indietro, lo conduce nel luogo in cui ci si incontra con l’altro,
il luogo di origine dell’etica.
E in questo luogo del
colloquio, dunque, in questo luogo in cui la filosofia diviene situazione (incontro, riconoscimento, dialogo, scambio),
il soggetto incontrandosi, scambiandosi, riconoscendosi, dialogando, fa
riapparire quei legami, quelle relazioni
con l’alterità che lo costituiscono.
Ecco allora che appare il paradosso
fondativo dell’etica: dal quale non si esce se non attraverso l’equivoco e
il malinteso, ovvero il paradosso tra la pretesa di individualità assoluta e
definita e il nostro destino di socialità, di relazionalità, il nostro essere
singolari e plurali insieme. È questa, secondo la mia esperienza, una
irrisolvibile contraddizione, che non si può
risolvere, che non deve essere risolta, perché è la contraddizione che
contraddistingue e caratterizza la nostra stessa identità: presunzione di unicità assoluta che si regge sulla rete delle relazioni
in cui ognuno di noi trova se stesso solo se si divide (si con-divide),
unità lacerata (direbbe Maurice Blanchot), e singolarità plurale (direbbe Jean-Luc Nancy),
responsabilità per il prossimo e apparizione dell’esigenza di giustizia,
direbbe Lévinas.
Non se ne esce, ma non se ne
deve uscire. Ciò che conta è sentire che la contraddizione può stare insieme,
senza rovesciarsi in conflitto o in tragedia (gli opposti estremi tragici: l’individualismo liquido come direbbe
Bauman delle società occidentali da un lato e il comunitarismo senza
individualità delle utopie comuniste dall’altro). La contraddizione in questo
caso (al di là della logica, si badi bene) è il principio del movimento che ci
fa parlanti e aperti nel mondo, non cose immobili, ma esseri in comunicazione.
Non c’è
dubbio a mio modo di vedere e di esperire, che la situazione del colloquio
filosofico, è una situazione molto
speciale. È un luogo protetto, riparato, accogliente, ma soprattutto è un
luogo per definizione isolato dal mondo. Il tempo del colloquio filosofico è
tempo sottratto all’agire, sottratto al lavoro, sottratto alla cura del mondo
per concentrarsi sulla cura di sé.
Il gesto
filosofico del colloquio è dunque prima di tutto un gesto isolante, col quale
ci si allontana dal mondo vissuto, ci si mette in disparte da esso per osservarlo;
si cerca (come se fosse possibile!) di fermare l’incessante avvenire del mondo
per far apparire la propria immagine nel
mondo.
MA quel che non cesserà mai di
apparire straordinario è che da questo movimento (solo momentaneo, passeggero,
fuggevole) di distacco, non compaiono né la profondità di un io misterioso e occultato,
né il rigore di un sapere assoluto e definitivo, quanto piuttosto quella stessa
immagine che era stata lasciata fuori della porta nel movimento del distacco.
Quella stessa immagine del mondo dalla quale abbiamo voluto separarci ritorna
inesorabile e pesante, com’è pesante la realtà. E scopriamo che il distacco è
solo una ingenua presunzione, necessaria ma ingenua, perché pretende che vi sia
una porta d’uscita nel luogo del mondo, che per
noi invece non ha porte né finestre.
Tuttavia,
un tale movimento non è stato inutile, proprio il suo sostanziale fallimento è
la conferma che cercavamo, la conferma che siamo nel mondo e che quel mondo è il
nostro problema, che condividiamo con
gli altri.
Per
questo è possibile dire che ciò che è in gioco nel colloquio filosofico non è
semplicemente il rischiaramento di
qualche parte oscura di sé, quanto piuttosto la possibilità di mettere in
discussione il nostro agire. Lo sfondo del colloquio filosofico non è dunque un
lavoro sull’interiorità, quanto piuttosto una
scena etica, nella quale ci si riappropria consapevolmente dei propri legami
con gli altri e con il mondo, delle proprie possibilità e delle proprie
responsabilità, nel quale si torna cioè ad essere membri della polis.
L’esercizio
del colloquio dunque conduce gli interlocutori al loro luogo d’origine, e ciò
significa che la riflessione, il dialogo, la ragione critica, la messa in
discussione, l’interrogazione, diventano strumenti finalizzati, come si diceva
all’inizio all’acquisizione di gesti nuovi, di decisioni, di atti, di scelte,
di prese di posizione, cioè di tutto quanto compone una vita intera, che a
questo punto può permettersi il lusso di definirsi filosofica, senza alcuna
pretesa di superiorità o di eccellenza, ma solo per indicare che la nostra vita
di tutti i giorni, con i suoi limiti e le sue ricchezze, con la prossimità
umana che la rende possibile, con tutta la carica di responsabilità di fronte a
cui essa ci pone, costituisce ora un problema che intendo affrontare con le attitudini del gesto filosofico.
Allora
deve essere chiaro che dare un punto d’arrivo al colloquio filosofico significa
soltanto trovare il punto intorno a cui l’esistenza stessa non può fare a meno
di ruotare, se essa è un’esistenza profondamente vissuta. Quella che io chiamo
una vita filosofica.
(Conferenza,
RONCEGNO 21 MAGGIO 2010)
Nessun commento:
Posta un commento