Stefano Zampieri
Recensione a O.Franceschelli, Elogio della felicità possibile. Il principio natura e la saggezza
della filosofia, Roma, Donzelli, 2014, in: «Phronesis» Anno XIII, numero
23-24, aprile 2015
L’incontro tra la dimensione della pratica filosofica e quella
della ricerca disciplinare può essere fecondo e stimolante, al di là di molte
precomprensioni e banali luoghi comuni. È così, a mio modo di vedere,
relativamente a questo splendido lavoro di Orlando Franceschelli, docente di Teoria
dell’evoluzione e politica presso l’Università «La Sapienza» di Roma e
conosciuto soprattutto come uno dei massimi studiosi italiani di Darwin[1].
Cercherò di sviluppare in questa recensione i motivi di fecondità di questo
incontro, ma certamente fin da subito voglio indicare nella sintesi teorica e
pratica della saggezza della felicità
possibile la formula che emerge da queste pagine come il punto di arrivo di
un lungo cammino di studio e di riflessione e al contempo vera e propria
apertura di una prospettiva di ricerca nella quale è difficile non ritrovare il
nostro stesso lavoro, e la nostra ricerca quale si realizza ad ogni dialogo,
insieme con il nostro ospite. Ma andiamo con ordine, e cerchiamo di chiarire
innanzi tutto il punto di vista dal
quale muove l’intera proposta di Franceschelli.
“La natura basta a se stessa”, è questa la formula del
naturalismo che egli calorosamente difende. Si tratta in fondo di un antico
precetto, più volte ripreso nel corso della storia occidentale, anche se con
accenti e intenzioni diverse, a partire almeno dal frammento 30 di Eraclito,
”Questo mondo, lo stesso per tutti, non l’ha fatto nessuno degli dèi né degli
uomini, ma fu ed è e sarà fuoco eternamente vivente che a misura s’accende e a
misura si spegne”, e poi da Democrito, Epicuro, Lucrezio, e ancora Spinoza,
Montaigne, Bruno, e infine Hume, Feuerbach, Leopardi, Darwin, Nietzsche, per
indicare una genealogia di classici non lineare né semplice, ovviamente, ma
tale da indicare un articolato percorso per il passaggio, come ci ha indicato
benissimo Karl Löwith, il cui nome risuona spesso nelle pagine di Franceschelli,
dal trinomio Dio – uomo – mondo, al binomio Mondo – uomo. Certamente, però, in
questo lungo cammino un ruolo speciale va riconosciuto al grande naturalista
inglese, come Franceschelli afferma : “Dopo Darwin, è cambiato per sempre il
nostro modo di guardare al mondo, al nostro posto in esso, alla natura umana,
all’etica.”[2]
Soltanto dopo Darwin infatti è possibile superare definitivamente ogni
illusione finalistica, ogni antropocentrismo, ma anche ogni confusione tra
natura e divinità, ogni provvidenzialismo, ogni retorica del disegno
intelligente. Posti dunque quali punti di riferimento Darwin, e la critica di
Löwith all’antropo- teologia, diviene possibile fare i conti con la tradizione
cristiana da una prospettiva diversa da quella superomistica niciana ma anche
da quella delle filosofie della storia che in qualche modo fanno rientrare
dalla finestra un finalismo provvidenziale che hanno cacciato dalla porta.
L’impegno che Franceschelli propone, parafrasandolo da Löwith, è quello di
volgersi “all’homo natura che in
effetti siamo: all’accettazione del nostro comune, fragile ed enigmatico
destino di «animali razionali», il cui impegno più arduo è appunto
riconciliarsi con «ciò che si è», sapendo vivere e morire «in pace col mondo».”[3]
Qui, dunque, siamo di fronte al tentativo di sostenere una
concezione del tutto terrena della vita umana nella consapevolezza che
l’esistenza dell’uomo e del mondo non hanno né una origine né un destino
soprannaturali, e dunque l’obiettivo è quello di tracciare un sentiero plausibile tra la cosmo-teologia
classica e l’antropo-teologia biblica da un lato e il nichilismo
soggettivistico moderno dall’altro. Un sentiero tra Dio e il nulla. Una
concezione appunto plausibile, e il termine non è casuale perché anzi
costituisce un preciso contributo di Franceschelli che con esso intende
proporre una precisa modalità di affrontare, o forse meglio, aggirare, l’eterno
problema della verità. Plausibile è
ciò che appare compatibile con i dati scientifici ma al contempo validamente
argomentato attraverso il dialogo critico e filosofico. In questo senso, “il
criterio epistemologico della plausibilità ci affranca dall’inseguire chimere
conoscitive quali verità o certezze indubitabili, e lascia sempre aperta la
possibilità di un critico riesame degli indizi di verità già raggiunti nel
corso dell’indagine” (p. 14).
La plausibilità, dunque, non può fissarsi come un assoluto,
ma resta sempre aperta alla verifica dell’esperienza, della scienza stessa, del
dialogo razionale. Ma non per questo appare debole e inefficace, perché anzi ad
essa “di fatto facciamo ricorso ogni volta che dobbiamo prendere decisioni
pratiche senza disporre di verità assolute e indiscutibili” (p. 17).
Sulla base, dunque, di questi due requisiti di fondo, il
principio natura e il criterio della plausibilità, Franceschelli si addentra
nell’intricato mondo delle prospettive morali toccando temi che stanno molto a
cuore ai filosofi consulenti perché vi si confrontano quotidianamente.
Ecco allora che sulla scia di Darwin risulta percorribile il
passaggio dalla visione teologico – metafisica dell’uomo imago Dei alla visione scientifica e filosofica dell’uomo imago mundi. Così, riguardando la storia
umana da una tale visuale possiamo cominciare a pensare alla condizione umana
come una condizione ibrida, quella di un essere costantemente tentato
dall’egoismo, ma al contempo e
parimenti, dotato di istinti sociali e solidali. Da questo punto di vista, il
fondamento della visione naturalistica è ciò che Franceschelli chiama
“antropologia della eco-appartenenza”, intendendo un approccio “effettivamente
consapevole non solo dell’inestricabile intreccio di geni ed evoluzione
culturale da cui la nostra natura umana risulta costituita, ma anche dalla
capacità che essa ci mette a disposizione di essere saggi e felici ora e qui
sulla terra” (p. 55). Una visione non dualistica, dunque, ma anche lontana da
ogni apriori esistenziale ignaro della biologia umana – come in Heidegger. A
partire dalla plausibile consapevolezza che gli esseri umani sono naturali per
cultura e culturali per natura. Senza che ciò si trasformi in un essenzialismo
veritativo rigido.
Qui infatti, la posizione di Franceschelli, a mio
avviso, corre il rischio di essere
equivocata. Nel momento in cui si afferma che “c’è un’unica natura in cui sono
da sempre insite le sue due dimensioni costitutive: quella biologica e quella
storico culturale” (pp. 64-65), un lettore superficiale potrebbe ravvisare una
qualche traccia di metafisica
essenzialista. In realtà il tentativo di Franceschelli è quello di tenersi
lontano tanto dalle negazioni relativistiche di ogni natura umana, quanto dall’idea di un dualismo natura/cultura,
quanto infine dall’idea che di nature umane ve ne siano molte, sostenendo piuttosto
la plausibilità, di una natura che di per sé contiene tanto l’elemento
biologico quanto quello culturale. Una condizione dunque che non deve essere
oscurata dietro una fissità, un’essenza, chiusa, perché il lavoro del tempo,
cioè delle trasformazioni, mutazioni, variazioni che l’uomo subisce e affronta
nel corso della sua evoluzione, e che sinteticamente chiamiamo “storia”, è tale
da riformulare la condizione umana di momento in momento. Così, aggiungo io, l’australopiteco
è un essere essenzialmente differente dal filosofo ateniese del IV secolo, così
come dal monaco benedettino dell’XI, o dallo scienziato del Settecento o
dall’operaio inglese dell’Ottocento. Lo scarto che si pone tra questi esseri è
tale che li renderebbe persino irriconoscibili e incomprensibili gli uni agli
altri. Allora è certamente plausibile pensare la coappartenenza di natura e
cultura, ma tenendo ben ferma questa clausola di variabilità radicale che è
visibilmente sotto i nostri occhi per la quale socialità, moralità e storicità
sono come una sorta di seconda natura, cioè sono costitutive della condizione
umana e non ne costituiscono in alcun modo una negazione dialettica.
Fatta questa precisazione diventa facile seguire
Franceschelli nello sviluppo di questa antropologia della eco-appartenenza, la
sola antropologia in grado di affrontare le classiche domande esistenziali
senza far ricorso ad interventi provvidenziali o ad agenti soprannaturali: da
dover veniamo? E dove andiamo? Veniamo dalla
fucina bio-cosmica come tutte le specie animali, e in essa siamo
destinati a tornare. In questo senso l’uomo non può pensarsi né come il centro
del mondo – antropologismo moderno -, né in una condizione di esilio e
gettatezza – esistenzialismo e heideggerismo. E poi, chi siamo? La natura umana
è certamente complessa ma non dualistica, è natura e cultura insieme, e le
nostre produzioni storico culturali sono destinate a rimanere al di là della
contingenza dei singoli esseri. Sintetizzando: “Dunque: consapevolezza che l’Homo sapiens non è né il centro – fine,
né uno straniero e neppure il dominus
della sovrumana vicenda naturale da cui è emersa la sua complessa natura e al
cui interno è destinata a svolgersi la sua storia” (p.72).
Giunge a questo punto il momento per l’autore di chiarire
quale saggezza possa plausibilmente appartenere ad una prospettiva che muove
dal principio natura e dall’antropologia della eco-appartenenza. Si tratta di
concepire l’uomo a partire dal mondo e non viceversa, perché l’uomo è una parte
del mondo, non è semplicemente nel
mondo. Si tratta di vivere la saggezza stessa come teoria e pratica insieme,
così come viene espressa dal termine phronesis,
che coniuga conoscenza razionale e saggio modo di vivere, e in quanto rifiuto
del dogmatismo significa, ovviamente, impulso alla ricerca, all’interrogazione,
al dialogo. In questo senso “l’uomo-filosofo è innanzitutto un Socrate” il
quale ci avverte che la saggezza non ha il proprio principio nel timore di Dio
e che “ritrova nel dare e chiedere ragione – nella saggia ricerca del
plausibile appunto – uno dei beni più apprezzabili della vita” (p. 82).
Ciò che la saggezza naturalistica può offrirci è questo:
“renderci finalmente consapevoli, da un lato, dei limiti e dei mali connaturati
alla condizione umana; e, dall’altro lato, della possibilità di raggiungere,
anche senza alcun soccorso teologico o cripto – teologico, «quel tanto di
esattezza ch’è necessario alla tranquillità dell’animo e alla felicità», come
opportunamente già Epicuro ricordava all’amico Erodoto” (p. 84).
In questo contesto si colloca il rapporto con il tempo che
il naturalismo intende pensare svincolato tanto dall’eternalismo –svalutazione del tempo in funzione dell’eterno –
quanto dal presentismo di matrice
agostiniana, che finisce anch’esso per annullare il tempo. Il naturalismo punta
piuttosto alla cura del presente in quanto tempo/spazio in cui l’uomo affronta
i suoi limiti e i suoi affanni ai quali nulla può offrire redenzione
escatologica.
Una attenzione al presente, dunque, che senza aspirare né
all’eternità atemporale né all’immortalità, vive “nel giusto ricordo del tempo
già felicemente vissuto e nella responsabile previsione di quello che potremmo
ancora vivere in una ragionevole futuro” (p. 97). Senza però cadere in alcun
“futurismo” che svaluti il presente in funzione di un futuro tutto pieno di
realizzazioni biotecnologiche, di società pacificate, di mutazioni
antropologiche prese più che dalle suggestioni della grande scienza, delle
allucinate proiezioni cinematografiche oggi alla moda, fino a immaginare
scenari post umani…
Al contrario “la saggezza del presente e la prudente
responsabilità verso il futuro” (p. 107) ci spingono a fare a meno di ogni
“oppio futuristico” (ibidem) e a rivolgere la nostra attenzione, piuttosto, a
quel che nel nostro presente annuncia e prefigura gli sviluppi futuri. Un
presente, dunque, vissuto attraverso “un impegno responsabile e solidale, ossia
volto a far diminuire la sofferenza e fiorire la felicità” (p. 120). Si
comprende facilmente da questo punto di vista il compito che dovremmo affidare
alla scienza anche nelle sue più estreme realizzazioni, quello di agire in base
ad un principio di responsabilità solidale, non censurando preventivamente il
proprio operato, ma operando in funzione dell’uomo e non della sua cancellazione,
della felicità e non dell’acquisizione di potere. Ma la felicità è possibile?
Non si tratterà di un termine vuoto e retorico? Franceschelli ripercorre con
grande rispetto ma con chiara e argomentata intenzione critica alcune tappe
della cultura occidentale laddove essa si è preoccupata di demolire il modello
dell’eudaimonia naturalistica di
ispirazione greca. Ma non risparmia nemmeno Nietzsche, che pure muove da una
posizione naturalistica perdendosi però in un vitalismo romantico che legge la
felicità come pura espressione di potenza. Se c’è una prospettiva che un
naturalismo consapevole e attuale può sostenere è quella che pensa una
“felicità terrena nutrita di piacere, virtù e saggezza, a cominciare da quella
del presente e in sostanziale sintonia con l’eudemonismo ellenistico” (p. 136).
Quella che Franceschelli illustra nelle sue pagine è dunque
una coerente etica dell’eco-appartenenza, consapevole dei limiti della
condizione umana e capace di evitare ogni sogno ingenuo di felicità perfetta.
Una felicità imperfetta ma possibile
è piuttosto ciò per cui l’uomo ha ragione di operare, sapendo di avere pochi
punti di riferimento nell’esistenza. Uno è certamente la Regola Aurea che
continua ad apparire viva e può essere riproposta dunque, magari in una
formulazione che tenga ben presente la prospettiva naturalistica, e che
Franceschelli sintetizza in questo modo: “fai per la fioritura della felicità
degli altri tutto ciò che ritieni possibile e vorresti fosse fatto per la
fioritura della tua felicità” (154).
Con queste poche provvisorie certezze l’uomo può avviarsi ad
una felicità possibile all’interno dell’accettazione del comune destino di
finitezza, ma anche nella consapevolezza che una saggia esistenza si può
realizzare imparando a vivere e a morire, a stare nel presente che ci
appartiene, costruendo un futuro responsabile e solidale.
[1] Orlando
Franceschelli è autore infatti di numerosi studi sull’evoluzionismo, in
particolare Dio e Darwin. Natura e uomo
tra evoluzione e creazione (2005); La
natura dopo Darwin. Evoluzione e umana saggezza (2007); Darwin e l’anima. L’evoluzione dell’uomo e i
suoi nemici (2009). Tra le sue opere si segnala anche una importante monografia su Karl
Löwith. Le sfide della modernità tra Dio e nulla (2008).
[2] O.
Franceschelli, Dio e Darwin. Natura e uomo tra evoluzione e creazione,
Roma, Donzelli, 2005, p. 5
[3] O.
Franceschelli, Karl Löwith. Le sfide
della modernità tra Dio e il nulla, Roma, Donzelli, 1997, p. 8
Nessun commento:
Posta un commento