Pensare per immagini
Introduzione a F. Savater, La scuola di Platone, Milano, Ipoc, 2013
di Stefano Zampieri
Come leggere un’immagine riccamente dotata di senso?
Come uscire dalla tradizionale lettura estetica? È possibile, è sensato,
sperimentare una modalità diversa per approcciarsi all’immagine, anche quando
si tratti di un’opera d’arte? Sono alcune delle domande che spontaneamente
sorgono alla lettura di questo prezioso esercizio filosofico di Fernando
Savater intorno al dipinto di Jean Delville intitolato “La scuola di Platone”.
Ma forse c’è una domanda ancora più urgente per chi
si muove nell’ambito della disciplina filosofica, ovvero: in che misura il
pensare per immagini può essere considerata una pratica adeguata alla
filosofia? Non vi è, così almeno è stato sostenuto tradizionalmente, una
contraddizione insanabile tra il pensare logico e il pensare figurato?
Ecco, vale la pena abbozzare brevemente qualche
riflessione in proposito, per avere ben chiaro l’ordine delle questioni che
questo libretto può suscitare anche al di là delle sue esplicite intenzioni.
La filosofia, a mio avviso, non può fare a meno dell’immagine
perché, per compiersi, ha bisogno di un movimento di pensiero che vada oltre la
fissità del concetto e punti piuttosto a cogliere l’oggetto, il fatto, senza
chiudersi in esso, cioè sorpassandolo, seguendolo oltre il margine, verso
l’estensione della realtà lungo le linee del tempo e dello spazio. Lo dice
chiaramente anche un filosofo rigoroso come Adorno: “l'immagine, o l’allegoria,
è un elemento pressoché irrinunciabile della stessa filosofia; se questo
contestato elemento fosse veramente estirpato e in filosofia non si usasse più
nessuna parola che dicesse di più di quello che deve dire qui e ora, in questo punto
particolare, sarebbe allora del tutto impossibile formulare il pensiero filosofico”
[1].
Ma lo sapeva persino Platone, padre del più esigente pensiero concettuale, che non esitava a servirsi di immagini, i miti,
per rendere accessibili e cogliere fino in fondo l’ordine assoluto delle idee.
Certo, aggiunge Adorno, serve grande sensibilità per
saper distinguere quando l'immagine falsa il pensiero e quando invece esprime
al massimo le sue capacità di approfondimento e di allargamento dell'orizzonte.
Ma è qui, aggiungo io, che si misura la capacità del discorso
filosofico di andare oltre, di aprire
varchi inaspettati nella piatta omogeneità delle cose, di spalancare orizzonti di
pensiero e di vita.
Da questo
punto di vista, dunque, appare del tutto superata la rigida distinzione tra
ragione e immagine, tra mondo dei concetti e mondo delle immagini. In realtà
tra i due estremi del campo che qui si delinea, ovvero l'immagine pura da un
lato e la logica formale totalmente astratta dall'altro, vi è l’infinita
varietà del discorso, di quello comune quanto di quello filosofico. Vi sono
perfino buone ragioni per sospettare che antropologicamente vi sia una priorità
dell'immaginario, come già suggeriva Aristotele, secondo il quale “l'anima non
pensa mai senza immagini”[2].
Dall'immaginario la ragione stessa genera le proprie
categorie, i propri schemi, le proprie analogie e metafore, le proprie connessioni,
secondo modalità diverse che possiamo sintetizzare a seconda del legame che connette
l’immagine con l'attività razionale.
Ecco allora che possiamo distinguere l'immagine come
accessorio del pensiero con funzione
cognitiva , di chiarimento e illustrazione di una verità intellettuale – è il
modello dell’uso platonico del mito-;
oppure l'immagine che svolge attività di mediazione tra la sensazione ed il pensiero puro, secondo il
modello aristotelico, ma anche quello
kantiano dello schematismo, che offre a
un concetto la sua immagine in funzione di una applicazione al reale e alla
determinazione dell’idea. Vi è poi la possibilità di usare l'immagine come
rappresentazione in grado di soppiantare il concetto e il suo esclusivismo, è
la posizione di Bergson ma anche di Nietzsche. Voi è, infine, la possibilità di
utilizzare l'immagine come apertura di
possibilità per il pensiero, motore
esplorativo, microscopio/cannocchiale
che consente una variante decisiva nel punto di vista. Ed è proprio quest’ultima
possibilità che ci interessa nel presentare questo aureo libretto di Savater.
Immagini e concetti possono, allora,
interagire senza opposizione e senza contrasto, anzi sostenendosi reciprocamente. “Non c'è
opposizione - sostiene ad esempio
Salvatore Natoli – tra immagini e concetti,
ma le immagini generano concetti, questi, a loro volta si trasformano in
immagini” [3].
L'alternativa secca tra ragione e immaginazione è
sostenibile, dunque, solo se le due dimensioni sono contrapposte in
modo manicheo e artificioso. La realtà della nostra esperienza è diversa.
Solo una ragione ricondotta alla pura
matematizzazione scientifica può essere pensata come scevra di contaminazioni
immaginative. Certo l'idea stessa di ragione moderna, da Cartesio alla scienza contemporanea,
si è posta su questo crinale di una ricerca di concetti, giudizi, e ragionamenti puri, astratti, ripuliti di ogni risonanza affettiva e
soprattutto di ogni riferimento a condizioni accidentali di spazio e di tempo.
Ma questo modello ormai ha mostrato il suo limite, la ragione scientifica, essenziale per lo sviluppo della civiltà
umana, non è tuttavia il solo modello
possibile di ragione, nella nostra esistenza concreta di singoli e di parti di
un contesto sociale, facciamo esperienza quotidiana di forme di ragione non
meno affidabili pur essendo ampiamente contaminate dalla varietà dell'immaginazione
che rappresenta il reale e che lo proietta verso il possibile.
È legittimo, dunque, pensare per immagini quanto è
legittimo pensare per concetti, giudizi e ragionamenti. Pensare per immagini non va inteso come
un’attività di secondo livello, una mediazione rispetto ad una superiore
significazione astratta, ma va piuttosto inteso come “un’attività noetica
primaria e a pieno diritto”[4],
rispetto alla quale l’attività discorsiva razionale non sta in un rapporto né
di subalternità né di dominio, ma s’innesta in essa naturalmente a comporre il
territorio entro cui troviamo tutte le strade che di volta in volta intendiamo
percorrere.
Ciò che certamente distingue l’immagine dal discorso
razionale è che quest’ultimo tende inevitabilmente a circoscrivere, a fare
sintesi, a racchiudere nella nitida pulizia dello spiegare, mentre l’immagine per sua natura tende piuttosto ad
aprire, a lasciare lo spazio aperto per l’impensato, per l’ulteriore, per il
possibile. L’immagine non può fare a meno di esibire coordinate spazio
temporali più o meno determinate, mentre il concetto tende a lasciar fuori dal
contesto ogni elemento occasionale. Il pensiero razionale punta a districare i
legami, a separare le relazioni complesse, a identificare elementi semplici,
chiari e distinti. L’immagine inserisce l’oggetto, il fatto, la scena, la
situazione, in un intreccio di relazioni multiple articolate sia in senso
diacronico, sia in senso sincronico.
La classica distinzione tra comprendere e spiegare (Verstehen e Erklärung) si può, dunque, realmente concretizzare
come distinzione tra una ragione che fa uso dell’immaginazione e una ragione
che ha la pretesa di farne a meno. Stabilito questo, va ribadito che la
comprensione ha bisogno della spiegazione e viceversa, non si tratta cioè di
operare forzature estreme, quanto di valutare la possibilità di una
composizione delle pratiche discorsive che le renda al meglio dell’efficacia.
Da questo punto di vista, va ribadito che l’immagine
possiede qualcosa che il discorso razionale – inteso in senso stretto e
limitato – non possiede: “L’immagine, meglio del concetto, si presenta come una
configurazione simbolica che tiene in serbo del senso, nella forma implicita
propria dei segni e delle figure, e lo rende spendibile, disponibile a
qualsiasi riattivazione da parte del un soggetto interpretante”[5].
Tale riattivazione, tuttavia, è
compito del discorso razionale. A meno che non si voglia, ed è legittimo
ovviamente, seguire la strada del linguaggio poetico o di quello religioso.
Un discorso razionale che, invece, accetta lo
scambio diretto con l’immaginario può scoprire la straordinaria potenza
dell’immagine che, proprio per via di questa infinita riserva di senso, si
presta alla realizzazione di variazioni infinite del punto di vista, del
profilo, dell’aspetto di ciò che è in questione, mentre la percezione si deve
accontentare di un solo punto di vista e il discorso razionale puro pensa di
poter fare a meno della vista stessa.
Ma da dove viene all’immagine questa riserva di
senso? Senza addentrarci qui in una disamina troppo articolata, basti osservare
un elemento già evidente e cioè che la natura dell’immagine è quella cercare
costantemente un punto di equilibrio all’interno di una doppia oscillazione: tra presenza e assenza e tra somiglianza e
differenza. Vediamo.
Da un lato, l’immagine ha a che fare con le cose
stesse nella loro presenza, e dunque
con la realtà empirica, dall’altra, poiché ne rappresenta comunque l’assenza, essa ha a che fare con la
dimensione dell’intelligibile, fino al limite dell’astrazione assoluta.
L’immagine de-realizza, e così
presenta la realtà in assenza, ma noi abbiamo bisogno dell’assenza
dell’oggetto, perché è proprio tramite l’assenza che il mondo acquista senso e
le cose si dispongono alla relazione universale, di tempo, di spazio, di
possibilità, di desiderio, di progetto, che è il tratto specificamente umano di vivere la realtà.
“L’immagine – sostiene appunto Umberto Galimberti – a differenza di quanto
ritengono gli psicologi, che considerano l’immaginario un arricchimento della
realtà, de-realizza, ossia lavora
senza realtà e, così lavorando, la presenta in assenza. Non avessimo potere
sull’assenza saremmo attaccati alle cose come l’edera al muro, come la fame al
seno materno, e per noi sarebbe morte se quel seno si allontanasse o se quel
muro cadesse”[6].
La seconda oscillazione caratteristica dell’immagine
è quella intorno alla quale si sono faticosamente battute tutte le teorie della
mimesis, ovvero l’oscillazione tra la
somiglianza a un originale e la differenza dallo stesso, necessaria per
non confondersi. L’unico modo per non restare insabbiati fra i due estremi è
quello i pensare la mimesis, come
suggerisce Paul Ricoeur, in quanto “frattura che apre la spazio della finzione”[7].
È in questa frattura, dunque, tra la somiglianza e la differenza, tra la
presenza e l’assenza, che l’immagine apre lo spazio del mondo. L’immagine non
replica banalmente il mondo, lavoro di fatto inutile, quanto piuttosto come direbbe
Paul Klee, lo rende visibile[8].
La figura, sia essa immagine visiva o immagine verbale, crea
un nuovo spazio e una nuova prospettiva nello spazio, dentro il quale forma la
realtà del mondo. Per riprendere ancora le parole di Natoli: “Metafore e
concetti stanno in circolo. La forza visionaria delle metafore genera mondi e
perciò “idee di mondo” che si trasformano più determinatamente in concetti: i
concetti poi finalizzano le metafore e permettono di formalizzare teorie”[9]
.
A questo punto siamo pronti per seguire Savater nel
suo gesto: egli si pone di fronte ad un quadro, un’immagine artistica raffinata
e complessa, ma il suo sguardo non è quello dell’estetica, se non in modo molto marginale, per le esigenze di una
sommaria collocazione dell’opera e dell’artista, in questo senso leggiamo poche
notizie della sua vita, sulle poetiche artistiche di riferimento, pochi indizi intorno
ai richiami e alle riprese della tradizione, vaghi accenni in merito ai valori
iconografici, tutto questo, infatti, non è al centro dell’interesse di Savater.
D’altra parte non appare in evidenza nemmeno una lettura simbolica, ovvero la ricerca di archetipi universali, per altro abbastanza
facili da rinvenire, si pensi solo alla figura centrale di Platone in quella
posa così ieratica quasi di Cristo benedicente attorniato da dodici
discepoli/apostoli, o al pavone bianco animale che richiama l’idea
dell’immortalità ma anche la figura di Giunone, la dea del matrimonio e del
parto. Ma non è questa la strada. Così come non è quella della semplice suggestione psicologica, ovvero
l’esercizio di puro impressionismo, di libera associazione, di accondiscendenza
al fascino dell’immagine, operazione anche questa assai facilitata dalla
vistosa e morbosa sensualità della raffigurazione in oggetto.
Ma Savater sceglie una strada diversa. Egli osserva
l’immagine ascoltandola, per così dire, cioè non solo guardandola, ma entrando
in comunicazione con essa, dando vita ad un dialogo. Seguendo un percorso spaziale da sinistra
verso destra, Savater dà voce alle singole figure che l’artista non si è
preoccupato di rendere riconoscibili. È il lavoro dello sguardo, quello che
identifica e crea pensieri, sentimenti, interessi, odi, invidie, rancori,
gelosie, amori, speranze. E allora l’immagine si anima:
Entra Platone, si siede, si distrae. I giovani non sono
ancora arrivati, certe volte ritardano un po’. Platone comincia a pensare.
I personaggi non sono più figure immobilizzate dal tratto di
un pennello e dal gesto di un artista, ma esseri viventi. Le figure acquistano
vita.
Ora cominciano ad arrivare i ragazzi. Il paesaggio si popola,
la scenografia acquista senso, il quadro si completa.
E finalmente parlano i discepoli: Clinia, Adimanto, Fedro,
Megillo, Dioniso, Aristotele, Filebo, Eutidemo, Agatone, Ermia, Fedone,
Speusippo. È intorno a questa svolta che il lettore deve fare attenzione,
perché è proprio qui che si rivela pienamente lo sguardo di Savater, e il suo
modo inaspettato di leggere l’immagine. Sono le figure stesse a prendere parola
e a esporsi attraverso la voce dell’autore.
In prima persona, allora, i discepoli alludono al proprio
rapporto con il maestro, alle sue virtù, alle sue umane debolezze. E il
maestro, così, appare diverso nelle parole dell’uno e dell’altro, trasparente,
oppure misterioso, così come sono spesso misteriosi i rapporti tra gli uomini.
Vengo tutti i pomeriggi per sedermi ai suoi piedi e più che
ascoltarlo lo guardo. Mi piacerebbe decifrarlo.
La bellezza
non è più teoria, ma è l’esser bello di un discepolo o del maestro, e l’essere
discepoli è obbedienza e fedeltà ma anche voglia di riconoscimento, o desiderio
di liberarsi del padre. Le questioni filosofiche diventano questioni
esistenziali, ovvero elementi fondanti della vita individuale, sottratta alla
neutralità del discorso scritto, dell’opera, tornano ad essere vive esigenze di
persone che s’interrogano.
Non posso pormi che una sola domanda: come fanno ad abituarsi
gli uomini alla imminenza della propria morte? È l’unica questione che mi
interessa chiarire, benché quest’unica questione sia mia in un modo urgente e lacerante.
(…)
Quando avrò l’età di Socrate e mi guarderò allo specchio,
come lui sicuramente non avrò paura dinanzi alla morte: anzi la desidererò con
tutta la mia anima, con l’anima che anche a me rimarrà.
Allo stesso modo, anche l’anima diviene
un problema vitale non solo una questione filosofica generale.
Sono un’anima, cioè un esiliato. Sono prigioniero di quel
corpo che mi è toccato in sorte, a volte gradito e tante altre volte umiliante.
Me la cavo meglio che posso viste le strane circostanze in cui mi sono trovato.
Quel che vuole il mio corpo – allegria, carezze, moine – io lo so sin da
piccolo; ma cosa vuole la mia anima?
Ognuno con il suo carattere, ognuno con
i suoi desideri e i suoi sogni, siano quelli del futuro tiranno Dioniso o
quelli del futuro grande filosofo Aristotele che già umilmente ma fermamente
contesta il maestro.
Sai che sono il tuo migliore amico, proprio perché ti amo un
poco meno della verità.
La dibattuta questione del piacere
diviene una sfida goliardica.
Dovevo impadronirmi completamente di Platone almeno per due
giorni, in modo che non fosse indubitabile che era lui quello che si
sottometteva al desiderio e non io.
L’altissima solennità della situazione viene rovesciata
nella comicità trattenuta del discepolo irriverente.
Orsù, devo contenermi! Non ce la faccio più! Mi tapperò la
bocca con la mano o meglio vado a nascondermi la faccia dietro il collo di
Eutidemo, come per mormorargli qualcosa nell’orecchio. Non ne posso più,
scoppio dalle risate! Eh, eh, tossirò un poco per dissimulare. Mi lacrimano gli
occhi.
Lo spettatore dialogante Savater segue i pensieri multiformi
dei discepoli piuttosto che ascoltare la voce del maestro, che forse sarebbe
troppo seriosa, presuntuosa, con tutta la sua pretesa di verità, una verità che
in fondo già conosciamo, l’abbiamo già sentita e pensata attraverso le opere
del divino Platone. I giovani che lo attorniano, invece, sono immagini di
persone nella diversità degli intenti, delle intenzioni, dei sentimenti, degli
atteggiamenti. E lo sguardo interrogativo dello spettatore dà loro voce. Non è,
dunque, uno sguardo qualsiasi, è lo sguardo di chi, di fronte all’immagine,
cerca lo spazio dello spostamento del punto di vista, cerca l’apertura che ogni
immagine, come si è già detto, contiene in sé, l’apertura verso l’intreccio
della storia che noi tutti siamo, verso la realtà disincantata dei sentimenti e
degli interessi, verso l’anticipazione di possibili scenari futuri.
Come dice uno dei massimi studiosi contemporanei della
materia, "l'immaginazione, in questo senso, grazie al gioco interno delle
immagini, ci strappa alla rigidità, alla fissità, all’unilateralità del nostro
punto di vista sul reale, del nostro ambiente di vita, per aprirsi alla
totalità della natura, delle sue forme, della sua storia e dei suoi paesaggi,
delle sue configurazioni segrete”[10].
E non è proprio questa la missione della filosofia?
[1] Adorno, Terminologia filosofica, Torino,
Einaudi, 2007, p. 63.
[2] Aristotele, De Anima, III, 7, 431 a-b.
[3] S. Natoli, Le parole della filosofia, Milano,
Feltrinelli, 2004, p. 60.
[4] J-J. Wunenburger, La vita delle immagini, Milano, Mimesis,
2007, p. 88.
[5] J-J. Wunenburger, Filosofia delle immagini, Torino,
Einaudi, 1999, p. 111.
[6] U. Galimberti, Idee: il catalogo è questo, Milano,
Feltrinelli, 1992, p. 104.
[7] P. Ricoeur, Tempo e racconto, vol. I, Milano, Jaca
Book, 1983, pp. 94 e sgg.
[8] Cfr. P. Klee, Teoria della forma e della figurazione,
Milano, Feltrinelli, 1980-84, vol. I., p. 34.
[9] S. Natoli, Parole della filosofia, cit., p. 61.
[10] J-J. Wunenburger, La vita delle immagini, cit., p. 115.
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