L’etica del viandante di Umberto Galimberti (2023)
Volume massiccio e impegnativo ma, a mio modo di vedere, ricco di fascino e di stimoli alla riflessione.
Per chi conosce le opere di Galimberti non c’è molto di nuovo: la sua tendenza a ripetere temi e concetti già percorsi nelle sue molte opere è abbastanza evidente, ma è un fatto sensato perché ne esce un lavoro di grande completezza, un affresco davvero di vaste dimensioni, che articola il tema etico non superficialmente ma affrontandolo da molti punti di vista: storico, fenomenologico, teoretico.
La maggior parte del libro, infatti, è dedicata a una ricostruzione epocale, per arrivare a definire la natura della contemporaneità e conclude poi con le pagine più belle, a tratti appassionate e toccanti, nella delineazione dell’etica del viandante che costituisce la proposta – utopica – dell’autore.
Tema centrale appare immediatamente, come del resto accade in tutte le riflessioni di Galimberti, il tema della Tecnica. L’autore fa notare come essa sia determinante per comprendere la natura della nostra epoca, ma soprattutto come abbia determinato un inquietante ribaltamento del rapporto tra mezzi e fini: doveva essere solo un mezzo per il Progresso del genere umano ma è diventato un fine in sé, ma un fine vuoto, poiché la Tecnica punta solo al proprio sviluppo infinito. La Tecnica non ha un vero fine, essa semplicemente funziona.
Ormai il dominio tecnologico è sfuggito completamente al controllo umano.
Questo è lo scenario generale nel quale si inserisce ogni considerazione etico-morale.
Appare chiaramente che nel nostro tempo, il tempo dominato dalla Tecnica, non è più possibile un’etica antropologica, cioè centrata sull’essere umano, sia che si tratti dell’etica dell’intenzione, tanto nella versione cristiana della coscienza e del peccato, quanto nella versione kantiana dell’uomo come fine, ma anche se si tratta dell’etica della responsabilità di Weber e Jonas: ormai è impossibile, infatti prevedere le conseguenze del fare tecnico e dunque è anche difficile assumersi delle responsabilità per ciò che non si conosce.
Resta, dunque, soltanto la possibilità di un’etica del viandante intesa prima di tutto come un’etica non antropologica ma planetaria, cioè rivolta a tutte le parti di un pianeta che oggi appare chiaramente interconnesso.
L’etica del viandante sarà allora quella di chi percorre il mondo consapevolmente senza una meta determinata, senza voler trovare verità assolute, sapendo che l’attuale modello di vita non è sostenibile.
Parole d’ordine di questa etica del viandante saranno: nomadismo senza meta e senza punti di partenza e di arrivo; fine del legalismo della proprietà e dei confini; cosmopolitismo; l’uomo non deve più pensarsi come “padrone della natura” ma come sua “parte” senza nessun privilegio; fraternità; etica del trascendimento: l’uomo può evolversi non solo biologicamente come l’animale, ma soprattutto culturalmente.
In conclusione si tratta sicuramente di una lettura complessa, e a tratti anche faticosa, ma non c’è alcun dubbio, lo sforzo è alla fine ampiamente ripagato.
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