Nessuna professione nasce se non a fronte di una domanda sociale. Se oggi esiste "l'idro sommelier" è perché si è creata una nicchia di mercato in cui la qualità delle acque e il loro abbinamento con i cibi hanno un senso, c'è una domanda che rende sensato anche l'idro sommelier, mentre non lo è più il riparatore di carrozze per ovvi motivi. Certo la domanda può essere anche indotta ma in questo secondo caso solo a fronte di un massiccio condizionamento del mercato, fenomeno che certo non appartiene alla consulenza filosofica. Allora è legittimo porre la questione: qual è la domanda sociale rispetto a cui la consulenza filosofica rappresenta la necessaria risposta? Credo ci siano due risposte immediate ma insoddisfacenti e una terza molto più interessante.
La prima risposta è che alla base della professione filosofica ci sia la domanda del disagio in tutte le sue forme, ma se fosse così, la consulenza filosofica sarebbe una risposta tra molte altre, tutte quelle delle professioni di cura - psicologiche, consulenziali, psicoanalitiche, ecc, - rispetto alle quali avrebbe gioco difficile a distinguersi, e soprattutto sarebbe tenuta ad un confronto d'efficacia poco favorevole;
la seconda risposta è che la consulenza filosofica come professione risponda a una domanda di formazione, anche qui in forme diverse, formazione alla filosofia, formazione al processo della consulenza come nel caso degli aspiranti filosofi consulenti, formazione al dialogo come esercizio democratico; anche in questo secondo caso tuttavia simile domanda trova già risposte nelle scuole, e il professionista non si distinguerebbe da un insegnante.
Ma vi è, a mio avviso, una terza domanda sociale, diversa che tuttavia non si esplicita immediatamente in una richiesta professionale, perché è una esigenza che i singoli pongono prima di tutto a se stessi: è la domanda di ragioni. Certo proprio perché nasce introiettata è difficile pensare che possa determinare una vera e propria "professione", ma è sicuramente la domanda centrale del nostro tempo. Ed è, a mio modo di vedere, la più autentica domanda a cui tutto ciò che variamente chiamiamo consulenza filosofica o pratiche filosofiche, cerca di dare risposta. Per questo ritengo che sia venuto il tempo di passare da una consulenza filosofica intesa come risposta al disagio o a esigenze di formazione, alla Filosofia Praticante come lavoro di costruzione di spazi del pensiero nei quali mettere in questione filosoficamente le Ragioni del nostro fare.
Sebbene sia perfettamente d'accordo con la tesi di fondo - la consulenza deve avere per suo terreno le ragioni - a me pare che invece la tesi specifica, relativa alla professione e alla sua domanda, non stia in piedi. Per due ragioni connesse tra loro.
RispondiEliminaLa prima è che - come molti osservano da tempo sulla base di analisi sociocoulturali - non c'è oggi _nessuna domanda di ragioni_ socialmente diffusa: quel che i più cercano sono casomai o spiegazioni (para)scientifiche (vedi il successo delle letture del mondo new age da un lato e di vecchie idiozie come l'astrologia dall'altro), o monolitiche ideologie (vedi la diffusione dell'islam da un lato e l'attardamento su posizioni post-marxiste da un altro), o semplici "soluzioni". Le ragioni sono lente e faticose, quindi anacronistiche: domanda non ne hanno; casomai si può portare le persone a sentirne il bisogno, ma solo in seconda battuta, il primo movente non può che essere un altro.
La seconda ragione è spiega come la prima, apparentemente contingente (causa cioé dei nostri tristi tempi), sia invece strutturale: le ragioni non ci si chiedono sempre e in ogni frangente, ma solo quando le cose non funzionano, quando cioé abbiamo un "problema". E la filosofia, infatti, nasce da "problemi", come riconoscono tutti i filosofi che non si siano incistati nelle torri d'avorio, da Platone a Popper. Ma un "problema" è il versante teorico, mentale, del fenomeno complessivo; quello concreto, corporeo, è un'emozione ad esso connessa, quella che emerge quando, inatteso e indisponente, il problema emerge. Quell'emozione la possiamo chiamare per l'appunto "disagio": "1. Mancanza di agi, di comodità; 2. imbarazzo; 3. Mancanza di cosa utile, necessaria" (Dizionario Repubblica/Rizzoli/De Agostini). Ci mancano le ragioni, cose utili e necessarie, e di conseguenza ci troviamo a disagio. Paradossalmente, senza il disagio quale suo movente di fronte ai problemi, la filosofia non esisterebbe. Né, a fortiori, può esistere la consulenza filosofica, per quanto essa si occupi delle ragioni del problema e non del disagio che quello produce. Non averlo capito bene è una delle ragioni per cui questa oggi fa tanta fatica.