Quel venerdì c’era un bel sole. E
l’aria si era riscaldata, quasi quasi pareva aprile. Ma le strade erano
deserte. Luccicavano i tetti umidi dalla notte, le antenne si stagliavano
sull’azzurro del cielo. I colombi tubavano nelle grondaie.
Ma nell’aria, controluce, si
vedeva benissimo un certo pulviscolo, chissà polveri più o meno sottili, ma
l’aria normalmente non si vede. E ciò che non si vede siamo portati a pensare
che non c’è. Come se non ci fosse niente nell’aria, dunque. Come se l’aria
stessa fosse niente. Ma allora cosa respiriamo?
Quel venerdì Silvano M.,
giovanotto di nessuna speranza, navigatore all’asciutto, video giocatore
accanito, smanettone, troll, odiatore seriale, so era inventato una
giustificazione a prova di controllo, ed era uscito di casa fingendo di portare
un sacchetto di viveri alla nonna malata. In realtà la nonna stava benissimo, e
il sacchetto se lo sarebbe riportato a casa, ma intanto, furbone, lui si
sentiva autorizzato ad andarsene a spasso per la città, non che avesse qualcosa
di preciso da fare, voleva solo verificare se il sospetto che gli albergava in
testa da settimane, era fondato o meno.
Perché davvero non c’è niente di
sicuro se non quello che puoi constatare di persona. E Silvano questo voleva
fare: controllare, verificare, appurare, accertare, di persona, lui stesso, con
i suoi occhi. Perché possono raccontarci quello che vogliono, ma da qualche
parte questo virus deve pur essere. E allora si tratta di scovarlo.
Armato di una bella lente
d’ingrandimento da filatelico, ma soprattutto da investigatore dei fumetti,
Silvano prese a girare la città, osservando i particolari, perché è chiaro che
è proprio nei particolari che s’annida il mistero. Le maniglie dei portoni, i
campanelli, intorno ai tombini, le mattonelle del marciapiedi, il manubrio
della bicicletta, le portiere della macchina.
Incontrò un postino, con la sua
bella mascherina e i guanti. Lo fermò, gli chiese di stare fermo solo un
attimo, osservò le mani, la borsa, la corrispondenza, la bicicletta, lo osservò
perfino sulla faccia, attorno alle labbra. Fin che quello s’irritò e se ne andò
lanciandogli qualche improperio. E poi esaminò i sedili della fermata del tram,
e arrivò il tram, lo prese, non c’era nessuno, scrutò attentamente le sedute, e
i poggia mano, e le macchinette dei biglietti. Scese e proseguì verso il
centro. C’erano da osservare mille particolari, le porte scorrevoli della
banca, la panchina, il bidone della spazzatura, i ferri di un cancello, una
passante con le borse della spesa. Cercò di fermarla, ma quella si rifiutò e
allungò il passo. Si accucciò a esaminare i punti in cui la signora aveva
poggiato i piedi, perché le suole delle scarpe sono infide. Esaminò persino le
sue scarpe, nel dubbio. E poi si rialzò e riprese l’indagine. L’ingresso del
supermercato, i carrelli, lì di sicuro avrebbe trovato qualcosa, provò a
entrare e iniziò una sistematica analisi degli scaffali e delle merci più
esposte, quelle che la gente tocca per esaminarla. Ma dopo un po’ si rese conto
che non ce l’avrebbe mai fatta e che era preferibile un’indagine a campione.
Lasciò perdere il settore cibo per animali, e anche quello della pasta, si
concentrò invece sulla corsia dei detergenti e degli shampoo, perché la gente
li prende in mano per leggere meglio le etichette, e poi sugli sportellini dei
banchi frigoriferi, punti che tutti toccano. Li avrebbe trovato qualcosa.
Eppure, alla fine di tutto quel
lavoro alla conclusione di una giornata intensa di ricerche, di ingrandimenti,
di sguardi indagatori, di dubbi e di incertezze, il risultato fu chiaro,
limpido, inequivoco. Silvano era arrivato a una conclusione assoluta che
avrebbe reso noto quella sera stessa su tutti i social. Il virus era invisibile per il semplice motivo
che non esisteva. Non c’era proprio niente, da nessuna parte. Niente di niente.
L’avrebbe scritto. Tutti dovevano sapere. La verità.
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