A cura di Stefano Zampieri - Consulente Filosofico

giovedì 2 aprile 2020


5   SPAZIO

D’improvviso, camminavo come tutte le mattine fra il bagno e la cucina, forse un po’ più addormentato del solito, l’abitudine di alzarmi presto al mattino non mi liberava dall’onere di quei dici minuti di incoscienza in cui si cammina come un fantasma, e gli occhi restano semichiusi e ci si muove nella propria casa solo per forza di memoria, come avendo innestato il pilota automatico. Bene, così ero io allora, dopo la pisciatina del mattino, uno zombie che ciondolava infreddolito lungo il corridoio che dal bagno porta al salotto e alla cucina. L’obiettivo, in quel momento era semplice: prepararmi il caffè. Come una specie di droga rivitalizzante in grado di farmi aprire gli occhi e di riconsegnarmi lucido alla esistenza di tutti i giorni. Ma non quel giorno, non quella mattina.
Accede che, d’improvviso, il corridoio s’allungò. Di solito bastavano una decina di passi per raggiungere la cucina, ma non quella volta, dopo i primi dieci, dovetti farne altri dieci e poi ancora dieci e ancora non ero arrivato. Pensai che dovevo essere davvero ancora molto addormentato, perché avevo perso il senso dello spazio. Accade in sogno che le distanze si allunghino, che si corra restando fermi, che si cerchi inutilmente di fare un passo. Ma io non stavo sognando. Forse non ero del tutto sveglio, ma stavo camminando, di questo ero certo. Quanto ero ceto del fatto che i corridoio s’era d’improvviso dilatato, allungato, espanso in modo indefinito, come se ad ogni passo che io facevo si aggiungesse un altro metro, e io mi ritrovassi nella situazione di Achille che insegue una tartaruga senza mai poterla raggiungere.
Tuttavia dopo un numero indefinito di passi, certo superiore a ogni ragionevole attesa, giunsi finalmente alla cucina, e mi avvicinai alla dispensa per cercare il caffè. Ma anche qui si verificò lo stesso fenomeno. La cucina di dilatava, si ampliava, si stirava come una superficie di gomma, io cercavo lo stipetto e dovevo camminare cinque minuti per arrivarci, mi giravo verso o fornelli e di nuovo dovevo ciabattare come fossi impegnato in una marcia. Quando finalmente riuscii a sedermi con una tazza di caffè bollente in mano, guardai fuori dalla finestra, come facevo ogni mattina, ma la finestra era lontanissima, era lì in fondo a quel salone smisurato, nel quale i miei gesti si perdevano e i rumori del caffè, della tazzina, della mia raucedine, risuonavano vuoti come se mi trovassi da solo in una piazza deserta.
Guardai fuori. Stranamente quel giorno, fuori dalla finestra, invece non c’era nessuno spazio, la strada, le case, gli alberi, il salto di quattro piani da lì a giù, tutto cancellato. Come se sulla finestra qualcuno avesse attaccato una fotografia, un foglio di carta dipinto, una immagine piatta, senza profondità.
Tutto lo spazio era dentro casa. Non c’era più spazio fuori di lì.



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