A cura di Stefano Zampieri - Consulente Filosofico

sabato 18 aprile 2020


9     SPIRITI

Era domenica e le chiese erano chiuse, Pochi passanti frettolosi, con il cane al guinzaglio. L’aria tersa. Gente sui balconi con la sigaretta, gente appoggiata alla ringhiera del terrazzo che guardava giù annoiata.
La chiesa dei servi di Maria, con quell’alto cappello proteso verso il cielo, era immobile. Silenziosa. Abbandonata. Il crocifisso in cima al tetto svettava nitido nel contro l’azzurro dell’altezza, l’infinito si svolgeva come un pozzo rovesciato da quella cima fino altre i limiti umani dello spazio. Poi, d’improvviso, tutti gli abitanti del quartiere videro cadere come sei pezzettini di carta luccicante, che frullavano nell’aria lanciando piccoli lampi di luce in tutte le direzioni.
Ira, tutti sappiamo che le cose pesanti cadono verso terra, sappiamo che salgono quando sono più leggere dell’aria, ma quella domenica scendevano senza ragione come se una mano invisibile le lasciasse andare dall’infinito cielo azzurro lì sulla cima della chiesa, su quel presuntuoso tetto a cono. I fortunati che dai balconi potevano vedere l’insolito fenomeno restarono a bocca aperta. I pochi incupiti passanti si bloccarono testa in su a contemplare quello sfarfallio di coriandoli luccicanti che s’appoggiava lieve sul tetto pendente della chiesa e scivolava giù verso terra. Qualcuno, curioso, s’avvicinò e raccolse alcuni di quei frammenti, Nient’altro che pezzetti di carta lucida, blu, rossi, grigi, rettangolini non più lunghi di un pollice.
A lungo quella pioggia leggera sovrastò la chiesa provenendo da un punto invisibile là in alto. E poi, com’era iniziato così tutto si concluse. Nel silenzio irreale di quella domenica di quarantena. Nessuno seppe spiegare. Solo il Prof Giordano, ateo impenitente, sguardo lungo, ebbe l’intuizione decisiva. «È lo spirito che viene» disse. Ma non c’era nessuno ad ascoltarlo.

martedì 7 aprile 2020


     
8     MENTIRE

Jenny e u suoi amici sollevarono il calice rosso e si augurarono reciprocamente la salute. La tradizione dell’aperitivo del sabato serra era una di quelle che meritavano di essere preservate anche in tempi difficili come quelli. Tuttavia, Gigi che da un po’ di tempo lottava contro i mal di stomaco, sollevò un calice rosso ma non di bevanda alcolica piuttosto di un infuso al karkadè. Visto da lontano lo si poteva facilmente scambiare per uno spritz Campari, ma era una finzione, era solo un espediente per brindare con gli amici anche senza bere l’alcol che gli era nocivo.
E in effetti il primo momento non se ne accorse nessuno, solo dopo, quando gli altri lo videro bere ad ampie sorsate, invece di assaporare lentamente, qualcuno sospettò che il bicchiere fosse contraffatto. La cosa in sé non era grave, s’intende, ognuno è libero di bere ciò che vuole, ma è fastidiosa, irritante, la finzione, mentire agli amici quando potresti semplicemente raccontare la verità e nessuno si scandalizzerebbe.
Ma la menzogna si nutre della distanza, e una finzione che sembra vera, in fondo non si distingue dalla verità, vista da lontano. È il gesto che ti tradisce. Così Luca, spavaldo e un po’ provocatore, chiese «Ma cosa bevi?», e a quel punto Gigi si trovò di fronte a due opzioni: poteva rispondere la verità, ma così avrebbe ammesso di aver mentito precedentemente, al momento del brindisi, oppure avrebbe potuto mentire adesso e sostenere convinto che quello nel suo calice era un autentico spritz Campari. Nel primo caso sarebbe stato un mentitore di fronte a tutti, anche se disposto ad ammettere l’errore, nel secondo sarebbe stato un mentitore di fronte a se stesso, avrebbe cioè fornito alla sua coscienza la prova provata della sua malafede.
Nessuna delle due prospettive lo attirava. Ma era con le spalle al muro e doveva scegliere tra due mali, Nessuno dei quali poteva essere definito minore dell’altro.
Gigi stava per rispondere, quando la sua mano destra schiacciò, - per errore o per scelta? - il tasto off del tablet col quale si stava collegando allo spritz virtuale.  Scomparve dallo schermo degli amici che pensarono al solito guasto della linea, e continuarono l’aperitivo senza di lui.
Gigi restò lì, col suo bicchiere di acqua colorata, da solo, nel suo salotto. Fuori s’intravedevano le prime ombre della sera.

sabato 4 aprile 2020


   7        CANI

Il sole si alzò come tutte le mattine, e illuminò la città svuotata. I panettieri non giravano in bicicletta, i postini non suonavano i campanelli, i vecchi insonni non bevevano il caffè al bar. Soltanto i cani, c’erano soltanto i cani, senza padroni. Dopo molti anni avevano imparato ad arrangiarsi, scendevano ogni mattina, si facevano il giro dell’isolato, si fermavano a qualche angolo, sollevavano la zampa qui o là. S’incontravano fra loro e si annusavano curiosi, qualche abbaio, ma per lo più indifferenza. I cani grandi ignoravano quelli piccoli e i cani piccoli s’accontentavano di qualche rapida corsetta fra loro. In generale vigeva una sorta di tranquilla apprensione, non volevano perdere troppo tempo, e non se la sentivano di divertirsi spensierati mentre i loro umani se ne stavano rintanati in casa attanagliati dalla paura. Così, con molto senso della responsabilità, i cani ogni mattina uscivano dal portone, e gironzolavano quanto necessario a espletare i propri bisogni, e prendere quella salutare boccata d’aria di cui avevano bisogno, e poi se ne tornavano, a coda bassa, a occuparsi dei propri umani, a far loro da medicina degli affetti.  Il momento era difficile, avevano una responsabilità.

venerdì 3 aprile 2020


6    DESTINO


Era giovedì, era ancora freddo, non era marzo, non era primavera. Le strade erano deserte, i pochi passanti infreddoliti camminavano veloci, a testa bassa, con la borsa della spesa in bella evidenza, attenti a non incrociarsi. Ognuno nella propria corsia. Salvi perché soli.
Ma da un portone, che s’apriva lentamente, usciva guardingo Franchino Marengo detto Frank. Perché anche quando tutto sembra andare a rotoli, e la vita appare sospesa per decreto, il bene e il male continuano la loro storia di battaglie, di scontri, di incertezze, e Frank, nella sua semplicità di ladro di appartamenti sapeva qual era il suo destino: un economista l’avrebbe chiamata redistribuzione del reddito. In fondo Frank non faceva altro che togliere un po’ del superfluo, la vittima sarebbe sopravvissuta, e lui avrebbe realizzato il sogno di avere, avere, avere le cose del mondo anche senza lavorare. Uno scambio ineguale, ma nell’economia del mondo una semplice variazione di fattori che non cambia la somma finale.
Ma ora era diventato tutto troppo difficile, Frank non riusciva più a trovare una casa vuota, c’era sempre qualcuno, a ogni ora del giorno e della notte. E allora come fare quell’onesto lavoro di topo d’appartamento? «Forse basta chiedere» pensò Frank, suono il campanello, mi presento, dico che in una situazione normale avrei sottratto i gioielli della nonna, l’avanzo della pensione, l’orologio della comunione, la medaglia d’oro, il telefonino lasciato sul tavolo. Ma ora? Che si mettessero una mano sul cuore, non dico tutto, ma datemi almeno una quota delle vostre ricchezze, meno di quelle che vi avrei preso. In fondo vi ho scelto fra tanti, è toccato a voi, non fatevene un cruccio, è il Destino.
Frank sapeva essere convincente, la gente dava, pur di toglierselo di torno, la gente gli offriva una catenina, qualche banconota, un orologio vecchio… Non era molto, ma Frank ci campava.
Quel giovedì, era mattina presto, era infreddolito, salì al terzo piano, suonò il campanello, fece la sua perorazione, il vecchio signor Bassi, un po’ ingobbito dagli anni, tossendo lo ascoltò, gli strinse la mano. E quando Frank gli chiese «Allora, cosa mi dai?», Bassi tossì ancora, pallido e leggermente sudato.
«Già dato, caro amico.»
Frank non capì subito, ma alla volta di domenica, tremando di febbre, si rese conto. Ecco cosa gli aveva riservato il Destino.

giovedì 2 aprile 2020


5   SPAZIO

D’improvviso, camminavo come tutte le mattine fra il bagno e la cucina, forse un po’ più addormentato del solito, l’abitudine di alzarmi presto al mattino non mi liberava dall’onere di quei dici minuti di incoscienza in cui si cammina come un fantasma, e gli occhi restano semichiusi e ci si muove nella propria casa solo per forza di memoria, come avendo innestato il pilota automatico. Bene, così ero io allora, dopo la pisciatina del mattino, uno zombie che ciondolava infreddolito lungo il corridoio che dal bagno porta al salotto e alla cucina. L’obiettivo, in quel momento era semplice: prepararmi il caffè. Come una specie di droga rivitalizzante in grado di farmi aprire gli occhi e di riconsegnarmi lucido alla esistenza di tutti i giorni. Ma non quel giorno, non quella mattina.
Accede che, d’improvviso, il corridoio s’allungò. Di solito bastavano una decina di passi per raggiungere la cucina, ma non quella volta, dopo i primi dieci, dovetti farne altri dieci e poi ancora dieci e ancora non ero arrivato. Pensai che dovevo essere davvero ancora molto addormentato, perché avevo perso il senso dello spazio. Accade in sogno che le distanze si allunghino, che si corra restando fermi, che si cerchi inutilmente di fare un passo. Ma io non stavo sognando. Forse non ero del tutto sveglio, ma stavo camminando, di questo ero certo. Quanto ero ceto del fatto che i corridoio s’era d’improvviso dilatato, allungato, espanso in modo indefinito, come se ad ogni passo che io facevo si aggiungesse un altro metro, e io mi ritrovassi nella situazione di Achille che insegue una tartaruga senza mai poterla raggiungere.
Tuttavia dopo un numero indefinito di passi, certo superiore a ogni ragionevole attesa, giunsi finalmente alla cucina, e mi avvicinai alla dispensa per cercare il caffè. Ma anche qui si verificò lo stesso fenomeno. La cucina di dilatava, si ampliava, si stirava come una superficie di gomma, io cercavo lo stipetto e dovevo camminare cinque minuti per arrivarci, mi giravo verso o fornelli e di nuovo dovevo ciabattare come fossi impegnato in una marcia. Quando finalmente riuscii a sedermi con una tazza di caffè bollente in mano, guardai fuori dalla finestra, come facevo ogni mattina, ma la finestra era lontanissima, era lì in fondo a quel salone smisurato, nel quale i miei gesti si perdevano e i rumori del caffè, della tazzina, della mia raucedine, risuonavano vuoti come se mi trovassi da solo in una piazza deserta.
Guardai fuori. Stranamente quel giorno, fuori dalla finestra, invece non c’era nessuno spazio, la strada, le case, gli alberi, il salto di quattro piani da lì a giù, tutto cancellato. Come se sulla finestra qualcuno avesse attaccato una fotografia, un foglio di carta dipinto, una immagine piatta, senza profondità.
Tutto lo spazio era dentro casa. Non c’era più spazio fuori di lì.