Distogliere lo sguardo dal mondo e rivolgerlo verso di me. Mi dico: è questo il primo gesto della Pratica Filosofica. Ma se pensi che in tal modo io voglia rinchiudermi nella mia solitudine per cercarvi una specie di oscura profondità senza fondo, sei in errore. Ammesso che si trovasse un simile luogo interiore, nulla distingueremmo in quel buio senza una luce, ma anche la fiammella più debole annienterebbe l’oscurità. Soltanto un silenzio mortale potremmo forse ascoltare.
Ma io non sono lì dentro, non sono prigioniero in me stesso. Io non esisto prima di essere annodato in una grande rete di relazioni che mi sostiene e mi rende possibile. La rete dice chi sono io, chi sei tu. Così come le singole carte da gioco non significano niente perché il loro valore dipende soltanto dall’insieme a cui appartengono e dalle regole del gioco in cui sono giocate.
Qualcun altro decide dunque per noi? Non dico questo. Dico piuttosto che tante cose non le ho decise io. Guardo me stesso, infatti, e scopro di appartenere ad un tessuto fitto fitto di relazioni. Prima fra tutte quella che mi lega a mia madre e a mio padre e a quella famiglia in cui sono nato. E poi appartengo ad una comunità, ad un popolo, ad un paese. E sono parte di questo tempo e non di un altro, e di questo mondo, dove si parla una certa lingua e si discute sulla base di una certa cultura. Tutto questo non l’ho scelto io. Non l’hai scelto tu.
E poi c’è tutto quel sistema degli affetti (amore, odio, amicizia, indifferenza, solidarietà, pietà, compassione ecc.) che mi lega, mi coinvolge, e fa di me una persona viva. Insomma, che strano, rivolgo lo sguardo verso di me e vedo tutte queste presenze, questi legami, queste relazioni. Cerco me stesso e trovo gli altri? Rischio di non sapere più chi sono, rischio di perdermi.
Eppure so che sono sempre io, quello di ieri e quello di oggi, quello con la cartella in mano che va alla scuola elementare, quello che un giorno si laurea e poi si sposa e diventa padre. Ero io allora, sono io adesso. Certo, molto è cambiato, il fisico innanzi tutto, prima perché cresceva ora perché invecchia. C’è soltanto una somiglianza, sempre più vaga quanto più si risale nel tempo. E il carattere? No, quello è davvero cambiato, posso dirlo con certezza. Ma allora, in base a cosa mi ostino a pensare di essere sempre io, sempre lo stesso? Certo, ora come allora, resto figlio di mia madre e di mio padre, membro di questa famiglia e di questo tempo. Insomma ancora una volta, cerco me stesso e trovo la trama delle relazioni che mi compongono. Devo forse rassegnarmi e rinunciare ad una identità tutta mia, personale, intima, privata?
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