A cura di Stefano Zampieri - Consulente Filosofico

martedì 5 dicembre 2023

Lettura di Auto da fè di Elias Canetti (1935)

 


È difficile incontrare tra i personaggi letterari del Novecento un modello più espressivo ed emblematico del professor Kien. Egli rappresenta la versione moderna dell’uomo solitario, portata all'estremo della follia dell'autodistruzione. Kien è l'intellettuale che vive chiuso in un fortilizio sigillato e protetto, circondato esclusivamente dalla sua sterminata biblioteca ha fatto murare perfino le finestre perché nulla di ciò che accade nel mondo al di fuori possa disturbare le sue ricerche e la sua passione erotico ossessiva per il libro, per la filologia, per i piccoli grandi temi della cultura.

La sua sopravvivenza fisica è affidata a una governante con la quale ha rapporti solo formali. Ma sarà proprio questa sola presenza umana, la sola, l'unica, l’irriducibile presenza di chi gli garantisce il cibo quotidiano cioè uel rapporto di cura che è il segno della nostra condizione di dipendenza, il principio della sua rovina.

Convintosi di sposarla, forse con lo scopo di rendere ancora più formale il rapporto egli si trova trascinato dalla parallela follia della donna, che moltiplica all'infinito le sue allucinazioni introducendo quelle che derivano dalla sua passione per il denaro e della sua incapacità di vedersi qual è effettivamente, una donna vecchia e ridicola. 

Travolto dagli eventi si trova cacciato dalla sua stessa casa rifugio, separato dai suoi libri che è costretto a sostituire con una biblioteca immaginaria collocata dentro la sua stessa testa e circondato da personaggi non meno folli e allucinati di lui che mirano esclusivamente a sottrargli i denari che ancora gli restano del patrimonio familiare. Quando, tramite l'intercessione del fratello psichiatra, riesce a tornare nel chiuso della sua casa biblioteca precipita nella sua stessa follia che assume il carattere apocalittico del rogo finale di sé e di tutti i suoi libri. 

Il semplice racconto della vicenda ancora non rende ragione del profilo complessivo del personaggio, poiché non vi è pagina che non metta in luce il dramma inarrestabile del suo destino di solitario circondato da uomini e donne non meno isolati e solitari di lui.

Il flusso di coscienza ostinato attraverso cui l'autore fa esprimere i suoi personaggi ben testimonia stilisticamente l'impossibile comunicazione che regola i rapporti umani in quella situazione. Ognuno parla solo per sé, a sé, seguendo il filo dei propri discorsi e dei propri pensieri, dei propri desideri, dei propri sogni, senza che mai i pensieri e le parole dell’uno si incontrino con i pensieri e le parole dell'altro. Un infinito inseguimento una babele infinita di lingue, un gioco noioso, irritante, di equivoci che nascono continuamente a partire da questa fondamentale impossibilità di comunicazione, è ciò che caratterizza ogni scena del romanzo, ogni profilo umano, gettando il lettore nell'angosciosa descrizione di un mondo saturo di parole vuote insieme vuoto di parole capaci di comunicare. Solo Pirandello avrebbe potuto forse comprendere la profonda espressività di questa rappresentazione in cui la solitudine radicale dell'uomo del Novecento diventa la sua follia senza cura e senza guarigione, tanto meno di carattere psicologico, come dimostra la figura del fratello di Kien, celebre psichiatra il quale, come tutti gli altri, equivoca, fraintende, non è in grado di affrontare realmente la situazione proprio perché non è in grado di comprendere la parola dell'altro, ascolta soltanto la propria, ostinatamente.

Un mondo in cui il colloquio è diventato pura apparenza, perché ognuno ascolta soltanto se stesso. Questo è il mondo descritto da Canetti: un affollarsi di monologhi ossessivi, in cui tutti, nessuno escluso, rischiano di perdersi nelle proprie parole e di precipitare dal dramma della solitudine radicale alla follia vera e propria.

 

 

 

martedì 28 novembre 2023

Lettura di Doctor Faustus di Thomas Mann ( 1947)

 


C'è un che di diabolico nella condizione della solitudine vissuta dall'uomo del Novecento È così che potremmo semplicemente riassumere l'esperienza di Adrian nel Dottor Faustus di Thomas Mann. Il patto col diavolo che gli stipula ha per oggetto la creatività geniale del musicista d'avanguardia che rompe gli schemi della tradizione e costruisce un nuovo tessuto musicale carico di suggestione, di fascino, d'ironia, di bellezza indipendente dalle mode, dai gusti del pubblico, dai meccanismi del mercato. Appunto autonoma elaborazione del genio creativo.

Ma tutto questo non basta. Si fa sempre, ovviamente, notare che il prezzo dello scambio diabolico è la dannazione eterna come vuole l'archetipo di questa figura letteraria, ma non si osserva a sufficienza che in realtà il romanzo non si sbilancia affatto verso la prospettiva ulteriore, non lascia intravedere il destino di un'anima precipitata nel fuoco dell'inferno. E che piuttosto il segno del diavolo e altrove; è presente, e nel presente di Adrian, è nella sua realtà, è nel deserto che Adrian scopre intorno a sé,  nell'impossibile rapporto d'amore, che tutto il più può prendere le carni della prostituta da cui Adrian si lascia significativamente contagiare dalla malattia, è nello scomparire dell'amico più caro, persino nella morte del fanciullo con cui Adrian aveva trovato un inaspettato sentimento di partecipazione paterna. Il diavolo fa terra bruciata intorno ad Adrian, crea un infernale solitudine, nella quale l'artista vive con profonda drammaticità il suo destino creativo. Ecco il segno dello scambio. Ecco l'anticipo della dannazione eterna che il protagonista inizia a scontare fin da subito.

Si potrebbe riflettere, poi, sul fatto che questo patto infernale venga costantemente, nel corso del romanzo, associato al destino storico della Germania nazista. Perché è chiaro che, nella mente dell'autore, c'è una connessione diretta come fra microcosmo e macrocosmo. E il destino individuale di Adrian corrisponde a quello collettivo della nazione tedesca che sconta è proprio delirio di onnipotenza, la propria affermazione, con una irrisolvibile solitudine che la pone al di fuori di ogni rapporto con le altre potenze. Si può discutere di questa prospettiva che scivola dai comportamenti privati alle grandi scelte collettive attribuendo un'anima e una coscienza anche a ciò che non la possiede, la nazione, se non per pura designazione retorica. Ma in fondo anche questo è marginale rispetto all'osservazione più significativa, quella che riconosce nel destino diabolico di Adrian il destino stesso dell'artista della seconda metà del ventesimo secolo, che per creare l'arte contemporanea deve rompere i ponti con gli altri con i propri affetti, e precipitare in una solitudine radicale che è la sua condanna prima di tutto. 

 

 

martedì 21 novembre 2023

Lettura di Josè Saramago, Tutti i nomi (1997)

 



 La questione della solitudine radicale contro la quale l'uomo deve combattere è bene illustrata da José Saramago in quel capolavoro che è il romanzo Tutti i nomi (1997), laddove lo scritturale ausiliario signor José, omonimo dell'autore ovviamente, ed il solo personaggio che nella narrazione meriti un nuovo nome proprio, sepolto dentro un’allucinante e kafkiana Conservatoria Generale dell'Anagrafe, ove tutti i nomi e tutti i destini, nascite, morti, matrimoni, figli eccetera sono accuratamente annotati e conservati, per un caso senza ragione e senza senso viene attirato dalla scheda di una donna sconosciuta.

 Egli si getta appassionatamente alla ricerca di questa persona ignota, senza alcuno scopo particolare, senza alcun fine se non quello di incontrare una vita, toccare tangenzialmente una esistenza, rendere familiare una estraneità. Ma l’esito della sua affannosa ricerca è tragico, è, ancora una volta, soltanto il nome su di una tomba, perché la donna si è suicidata. Eppure nemmeno questa è l'autentica conclusione, perché il signor Josè scopre che, anche nelle sepolture, una tragica ironia sposta i nomi dai corpi. Non saprà mai, quindi, se sotto quel nome vi è davvero la persona cercata. Ciò che resta è appunto soltanto un nome e la certezza che l'incontro è impossibile, che l’estraneo non uscirà dalla sua condizione di estraneità, nemmeno per un momento.

 Nell'immensa labirintica Conservatoria Generale dell'Anagrafe, dunque, dove sono conservati tutti i nomi dei vivi e dei morti, si conserva insieme il destino dell'umanità. tragico destino dell'umanità contemporanea, che non sa più trovare una moda per realizzare l'incontro tra le persone, che dietro il nome proprio ha perduto sostanze si è fatto inconsistente, smaterializzato, impalpabile. Puri nomi, gli uomini, che si possono archiviare, catalogare, ordinare alfabeticamente, ma dietro i nomi non c'è più la natura umana pesante ma soltanto un destino di solitudine che gli uomini non sanno più contrastare.

Nel labirinto dell'anagrafe, che bisogna percorrere legandosi un filo rosso la caviglia per non perdersi, è conservata la sua realtà del genere umano un genere scomparso la cui esistenza in vita, la cui morte sono stabilite soltanto dalla annotazione su di una scheda. 

Come sia potuto accadere un dramma di queste proporzioni, Saramago aveva già raccontato nell'apocalisse del romanzo Cecità (1995), ove metteva in scena il  degrado assoluto che, nella situazione estrema, un inspiegabile epidemia, trascina l'uomo agli istinti più bassi, alla dissoluzione di ogni moralità, alla perdita di ogni valore, alla cancellazione di ogni briciola di civiltà. Questa straordinaria metafora della società umana ridotta a un luogo ibrido, fra manicomio, ospedale, campo di battaglia, offre l'immagine tragica del destino dell'umanità, e indica la colpa a cui nessuno si può sottrarre, e la pena che non risparmia alcuno.

Se in questo deserto si può intravedere una traccia di vita, forse, è soltanto nel rendersi conto che noi stessi siamo la realtà. Ed è questo l'ultimo segnale inviato da Saramago con il romanzo La caverna (2000) conclusione di una ideale trilogia con i due romanzi precedenti laddove i protagonisti assumono le vesti dei prigionieri di Platone, che escono dalla caverna e si liberano, quindi, del mondo delle apparenze, della realtà delle ombre, nel momento in cui si rendono conto appunto di essere loro stessi la realtà e abbandonano l'ennesima metafora della civiltà occidentale, il Centro Commerciale, avviandosi senza meta e senza sicurezza alcuna alla scoperta del mondo circostante, del mondo vero, di quanto resta del mondo dopo la smisurata devastazione che gli uomini hanno compiuto.

Se dfunque, l'uomo può ancora sperare di tornare sostanza, tornare ad essere carne e sangue e volto e mani, se può immaginare di non essere soltanto un nome dentro un apparato burocratico, o un'ombra fra ombre in un universo di apparenze, di menzogna, ciò può accadere esclusivamente a partire da una scelta carica di rischio, di drammaticità. La scelta di essere se stessi, quel fango da cui siamo stati creati e di cui lungamente discorre il vasaio protagonista de La caverna. Però necessita il coraggio di immergersi nel mondo vero, nella realtà pesante delle cose, destinata al proprio ciclo naturale di vita di morte. Soltanto così è possibile trovarsi nel luogo dell'incontro, dove gli esseri umani si toccano, e stabiliscono relazioni capaci di rompere l'isolamento della solitudine. 

 

martedì 14 novembre 2023

Letture: Il problema dell’uomo di Martin Buber (1947)

 


 

Questo bellissimo saggio nasce da un corso di “filosofia della società” tenuto da Buber in Israele nel 1938 e viene ora riproposto da Marietti a cura di Irene Kajon. Della finalità didattica conserva traccia nella prima parte che è una sintesi per nulla scontata della posizione di Kant, di Aristotele, di Hegel,  di Marx, di Feuerbach rispetto alla decisiva domanda kantiana “Che cos’è l’uomo?”.

La crisi dell’uomo, secondo Buber, appare evidente a seguito di due fattori:

a) la decomposizione delle tradizionali forme di convivenza tra gli uomini (la famiglia, le associazioni di lavoro, le comunità di villaggio e di città). Ne consegue che “la solitudine umana si manifesta con maggiore e nuova intensità” (58) per quanto si cerchi di assopirla con mille attività e occupazioni. Ma così si perde la possibilità di sperimentare la profondità della problematica umana: “L’aumentata solitudine ora non è che assopita e repressa da occupazioni e attività. Ma, quando l’uomo si immerge nel silenzio, nella vera realtà della sua vita, allora sperimenta la profondità della solitudine e, in essa, messo di fronte al fondamento del suo esistere, sperimenta la profondità della problematica umana.” (58)

b) L’uomo si fa distanziare e signoreggiare dalle sue opere (cioè la Tecnica, l’Economia, la Politica).

Lo stato di isolamento “non è conforme allo natura umana” (62).

L’uomo solitario scopre il dialogo con se stesso. Come dice Arendt, scopre il due-in-uno. Ma soprattutto, fa notare Buber, il dialogo interiore è il primo modo per scoprire la problematicità umana.

Per Heidegger questo significa scoprire il rapporto con il proprio Essere, per Kierkegaard significa scoprire il rapporto con Dio. Per Arendt, aggiungo io, significa scoprire la pluralità. Per Buber l’uomo deve uscire da questa solitudine, da        questo monologo se non vuole perdersi, e uscendo dalla solitudine deve scoprire l’altro.

Allora l’unico modo per rispondere alla domanda kantiana “Che cos’è l’uomo?” è uscire dalla solitudine ma conservandone la forza problematizzante. Bisogna “salvaguardare la tensione della solitudine e il fuoco della sua problematica in una vita rinnovata” (112).

L’individualismo (la chiusura in sé senza uscita verso l’altro) comprende solo una parte dell’uomo, mostra dell’uomo un volto deformato; il collettivismo lo comprende solo come una parte, e ne nasconde il volto. Entrambi mancano l’integrità dell’uomo, l’uomo intero.

Per comprendere l’uomo è necessario l’incontro con l’altro uomo: “Il singolo non avrà spezzato la sua solitudine se non quando egli conoscerà nell’altro, in tutta la sua alterità, se stesso, l’uomo.” (115)

L’alternativa alla contrapposizione tra individualismo e collettivismo è “la sfera dell’interrelazione (das Zwischen)” (116). Da qui bisogna partire. Il concreto TRA in un rapporto ( conversazione, lezione, abbraccio, sguardo…), ciò che solo un Io e un Tu possono cogliere.

“Al di là del soggettivo, al di qua dell’oggettivo, vi è il regno dell’«interrelazione», nella vetta angusta dove Io e Tu si incontrano.” (118)