A cura di Stefano Zampieri - Consulente Filosofico

Ruoli, personaggi e persone


Ruoli, personaggi e persone. La svolta pratica in filosofia e il futuro dell’uomo.

 

(Relazione al convegno IL DIRITTO ALLA FILOSOFIA Quale filosofia nel terzo millennio? Venezia, Università Ca’ Foscari, 19-20 ottobre 2015 )

Abstract
The practical turn in philosophy is a reality that returns to the philosophy the ability to interact with the men and women of the Third Millennium.

Through this new approach, therefore, appears a new profile of man as a citizen, with all the his tensions.

Here the condition of citizen is discussed from a particular point of view: the complex relationship between identity and roles, between characters and people.

 

La svolta pratica in filosofia è ormai una realtà, per quanto essa assuma forme diverse, più o meno coerenti, più o meno capaci di interloquire con la realtà degli uomini e delle donne del Terzo Millennio. E non alludo soltanto alle forme  della editoria divulgativa di massa, della pop filosofia, dei festival, della filosofia da talk show, e quant’altro oggi alla moda. Penso piuttosto alle forme pur specialistiche ma investite di esigenze pratiche, quali la bioetica e l’etica applicata, o le medical humanities.
Penso alle formula di Wittgenstein secondo cui “capire significa sapere come procedere” e a tutto il pragmatismo vecchio e nuovo. Penso alla rilettura della filosofia antica come pratica di vita da parte di Hadot e Foucault.   E penso infine anche a quello che viene chiamato oggi “pratica filosofica”, e che è un insieme piuttosto eterogeneo e abbastanza confuso di pratiche governate o dall’intento del con-filosofare, cioè del fare filosofia con il non filosofo, oppure dalla pretesa di vivere filosoficamente. Entrambe queste caratteristiche ovviamente possono essere giocate in modo coerente o in modo ingenuo e superficiale.  Si può discutere quanto si vuole sulla efficacia, sulla profondità e sulle opportunità di tutte queste forme, ma è fuori di ogni dubbio che esse, nel loro insieme e pur nella loro approssimazione, e qualche volta nel loro essere subalterne alle esigenze della mercificazione dell’esistenza o di quella che oggi viene chiamata biopolitica, non nascono dal nulla, ma da una domanda reale che la società stessa pone insistentemente. E non è solo una domanda di senso, come si sostiene spesso in modo affrettato e superficiale, è piuttosto una richiesta urgente, direi drammatica, di elaborare ragioni, di fissare cioè punti di riferimento che rendano possibili e diano valore alle scelte, alle decisioni, agli atti piccoli e grandi dell’esistenza individuale e collettiva.
Una domanda alla quale non sono più in grado di rispondere in maniera adeguata, né la filosofia delle accademie, né le pratiche politiche ormai totalmente mediatizzate, né quelle religiose ampiamente desacralizzate. Una domanda alla quale tentano di rispondere talvolta le pratiche psicoterapeutiche, ma a prezzo di una patologizzazione dell’esistenza.
Si tratta  dunque di tornare a porre la questione su di un piano insieme esistenziale ma collettivo, discorsivo e razionale ma non razionalizzante, analitico ma anche pratico concreto, tale cioè da risolversi in prese di posizione quotidiane, in atteggiamenti vitali, in gesti.
Nella tradizione occidentale solo la filosofia è in grado di formulare una simile risposta. Di qui l’ampia richiesta che proviene dalla società, alla quale, tuttavia, la filosofia fatica ancora a corrispondere adeguatamente. Manca spesso da parte della filosofia la capacità di sintonizzarsi sulla stessa frequenza, di offrire risposte all’altezza delle richieste. Risuona spesso lontanissima la voce dei filosofi, innanzi tutto perché la crisi complessiva della società comporta una profonda crisi anche del ruolo intellettuale cui i filosofi appartengono, e che è ormai scomparso dall’elenco dei ruoli che questa società reputa necessari. In questo senso se vogliamo appunto mettere sullo stesso piano discorsivo la richiesta di ragioni e la risposta filosofica è necessario rivedere il modo in cui la filosofia si realizza come pratica e conseguentemente il ruolo del filosofo in questa fase storica.
E dunque, è proprio la svolta pratica in filosofia che ci ha messo sulla via giusta, la via  di un approccio ai problemi che faccia emergere il legame essenziale che lega l’individuo al sistema dei rapporti che costituiscono la società, laddove si svolgono i suoi atti, i suoi gesti, le sue decisioni;  un approccio dunque che contribuisca a riscoprire lo spazio d’azione del singolo in quanto inserito nella rete di relazioni che ne fa un cittadino. E questa trasformazione del focus della filosofia, dall’individuo singolo, dal soggetto al cittadino dovrebbe, a mio modo di vedere, essere considerata una vera a propria svolta copernicana.
Tuttavia è proprio a partire da questo punto di vista dell’uomo in quanto cittadino che ci rendiamo conto del fatto che l’individuo subisce una serie di spinte contraddittorie e dunque laceranti: prima fra tutte quella che lo vuole consumatore infinito, e insieme infinitamente insoddisfatto, oppure quella che lo vuole individuo unico, separato e insostituibile ma insieme soggetto omologato e prevedibile e quindi collocabile nelle strategie di mercato.
Queste spinte non conciliabili finiscono per essere all’origine di molte delle sofferenze, dei malesseri, dei disagi che caratterizzano l’uomo d’oggi. Proprio quelle con cui ha a che fare il consulente filosofico.
Come dunque ipotizzare un punto di sintonia tra la richiesta di ragioni da un lato e la risposta della filosofia?
Affrontare la condizione individuale dalla prospettiva della cittadinanza, della socialità, cioè dell’essere parte costitutiva di una rete di relazioni e di  interazioni – e nel termine interazione io sento risuonare l’espressione Wechselwirkung che usa Simmel per indicare appunto quella interazione profonda che dà origine alla società come tale -  significa, a mio parere, porsi su una strada che si rivela come la più efficace e al contempo anche quella più ricca di elementi di riflessione e di ipotesi su cui lavorare. Una strada lungo la quale possiamo essere accompagnati dalle riflessioni di Pierre Bourdieu, secondo il quale il mondo sociale è prima di tutto l’insieme delle interazioni cioè delle forme  sociali dentro le singole transazioni individuali.
E questa rete di relazioni, aggiungo io, è  innanzi tutto una rappresentazione, una scena, sulla quale operano persone in qualità di personaggi, individui investiti di un ruolo, piccolo o grande autentico o inautentico, subito o scelto, non a caso la parola persona significa prima di tutto maschera, perché noi siamo in questi nostri ruoli che interpretiamo. 
Assumere come punto di riferimento il cittadino, significa però rinunciare in primo luogo ad una prospettiva psicologistica a favore di una prospettiva che muova da una antropologia non dualistica e che assuma come riferimenti un modello di identità personale che non giace nascosta in una quella black box interiore di cui parla per esempio Talcott Parsons o in quello strano personaggio che Ryle nomina come “il fantasma nella macchina”, ma che piuttosto si realizza nel gioco delle relazioni e delle interazioni, come lo spettacolo si realizza sulla scena.
Da questo punto di vista, dunque diviene necessario, a mio modo di vedere, ridiscutere il complesso rapporto tra identità e ruoli, tra personaggi e persone.
In questo senso, l’individuo si manifesta più come il dividuum, cioè il divisibile piuttosto che l’indivisibile, come vorrebbe il termine. D’altra parte, è questa la nostra condizione, tutta la nostra esistenza è costruita entro scenari, affettivi, di lavoro, di vita, di relazione ecc., e in ogni scenario noi ci presentiamo semplicemente in un ruolo, uno dei molti che recitiamo. 
Proprio per questo, facciamo così fatica a cogliere la nostra identità nella sua interezza, e soprattutto nella sua insostituibilità: perché come attori impegnati in uno dei nostri molti ruoli non siamo affatto insostituibili. Se necessario, possiamo sempre essere sostituiti nel ruolo da qualcuno che abbia acquisito le competenze necessarie all’esecuzione del compito. Persino se si tratta di ruoli apparentemente molto personali come quello di padre o di madre.
Da questo punto di vista, allora, il ruolo e l’identità risultano  ben distinti e il ruolo appare il luogo dell’intercambiabilità e della omologazione; il ruolo appare quasi come l’abito da lavoro che indossiamo per tutto il  tempo in cui svolgiamo le nostre mansioni e che poi, alla fine della giornata, ci togliamo di nuovo.
Tuttavia bisogna fare molta attenzione a non cadere nella trappola più comune, quella di pensare  che dunque l’immagine di un vero Io, sia quella che si nasconde al di sotto di ogni  maschera, quella che ogni rappresentazione occulta. Mi sembra che in questa convinzione si annidi un vero e proprio mito della persona: che l’uomo sia l’attore che può liberarsi dei personaggi e che solo l’attore nudo sia il vero individuo, ecco il mito. Che per altro si sposa perfettamente con tutte le retoriche dell’autenticità o della nuda vita.
In realtà bisogna rovesciare la questione: i personaggi, i ruoli, non sono un sovrappiù che si aggiunge alla vera identità della persona, ma è la persona invece che fuoriesce dall’intersezione dei ruoli e dei personaggi.
In questo senso quello della persona è un ideale che facilmente sfocia nell’assurdo proprio perché è la ricerca di un soggetto non circoscrivibile. E come sempre accade in questi casi l’interminabile percorso di avvicinamento non coglie mai il suo obiettivo, e si perde o nell’indicibile o nella follia. Come ci mostra benissimo Pirandello con il suo Vitangelo Moscarda, colui che scopre di essere uno, nessuno e centomila insieme, e quando prova a liberarsi delle molte maschere che si ritrova addosso finisce nella follia di chi non sa più distinguere se stesso da ciò che lo circonda.
È opportuno allora, anche in questo caso, tornare al principio della complessità e dunque provare a elaborare un profilo dell’individualità che risulti dall’intreccio di due coordinate: i segmenti di ruolo che definiscono la persona ma anche le connotazioni del soggetto morale, cioè dal modo di intendere la propria adesione al ruolo e dalla propria capacità di entrare/uscire dai ruoli, di distanziarsi da essi, di valutare la coerenza tra i ruoli assunti e propri valori esistenziali.
La nostra vita è imbastita così di figure che di volta in volta ci capita di impersonare in quanto assumiamo un ruolo, quello di marito e padre, quello di insegnante o di professionista o di operaio, quello di nonno o di combattente, quello di anziano o quello di adolescente.  Non siamo quasi mai semplicemente quel che siamo, ma  siamo quello che vogliamo o dobbiamo essere, cioè il personaggio che riteniamo giusto impersonare. Sia esso un modello proveniente dal mondo del lavoro (insegnante, operaio, dentista, disoccupato, impiegato, commessa, dirigente, ecc.), sia proveniente dalla società (politico, sindacalista, sacerdote, ecc.) o dalla dimensione biografica (bambino, adolescente, giovane, adulto, anziano, ecc.). Spesso è la condizione di socialità che ci offre i personaggi da interpretare e a noi spetta solo l’onere della scelta: in tempo di guerra o si è soldati o si è imboscati, in età di mercato o si è compratori o si è venditori (e qualche volta anche merce); in ambiente scolastico o siamo insegnanti o siamo studenti; in ospedale siamo medici oppure pazienti, ecc.
L’adesione a numerose sfere d’appartenenza, a numerose scene, per restare nella metafora teatrale, a numerosi “campi”, come direbbe Bourdieu, segna anche la complessità delle dipendenze delle quali dobbiamo tener conto ogni volta che mettiamo in discussione la nostra esistenza, ogni volta che dobbiamo prendere una decisione significativa, ogni volta che dobbiamo riprogettarci a seguito di un evento traumatico. Ed è ciò che accade nel lavoro del consulente filosofico.
Si dovrebbe, dunque, cominciare  a comprendere quale possa essere il compito di una filosofia che intenda aderire profondamente alla realtà di questa scena nella quale noi tutti siamo insieme personaggi e persone, attori e protagonisti, cittadini nel senso di nodi di una trama di rapporti che ci sostiene.
La filosofia, dopo la sua svolta pratica, non può più esimersi di stare in questo campo, e di trovare appunto in questo campo le proprie ragioni di esistenza. Indipendentemente dal fatto che la si intenda  come strumento di ricerca disciplinare o esistenziale, o come pratica dialogica di confronto e di costruzione personale.
Allora, la filosofia in quanto pratica dialogica o di ricerca, deve assumersi questa responsabilità di affrontare l’intera complessità di questo scenario, e quindi cominciare, per esempio, a far luce sui ruoli che interpretiamo, e sulla loro coerenza con le nostre aspettative, i nostri progetti di vita, i nostri percorsi esistenziali. Deve accompagnarci nel processo di chiarificazione ma anche, lo ripeto e lo ribadisco,  nelle scelte concrete con le quali ci mettiamo alla prova, e affrontiamo difficoltà, disagi, sconfitte, e tutte le battaglie dell’esistenza nei diversi campi nei quali ogni giorno ci dobbiamo confrontare.
Da questo punto di vista, io ritengo che la filosofia non sia solo un diritto, ma anche una esigenza, una necessità e perfino una speranza, forse l’unica di fronte alle prospettive catastrofiche della nostra società, una società che rischia di implodere o di esplodere sotto il peso di una complessità che non è più in grado di sopportare, una società che sembra sempre più, per usare una immagine di Bauman, come un treno lanciato in corsa contro un muro, il muro è lì, lo vediamo tutti, ma nessuno sembra far nulla per rallentare la corsa. Ecco forse la filosofia dopo la sua svolta pratica può fare qualcosa.

BIBLIOGRAFIA
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Goffman, Erving. 1997. La vita quotidiana come rappresentazione. Bologna: Il Mulino.
Madera, Romano e Lucio Vero Tarca. 2003.  La filosofia come stile di vita. Milano: Bruno Mondadori.
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Brentari, Carlo, Romano Madera, Salvatore Natoli e Lucio Vero Tarca, cur. 2006.  Pratiche filosofiche e cura di sé. Milano: Bruno Mondadori.
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Zampieri, Stefano, cur. 2012. Sofia e polis. Pratica filosofica e agire politico.  Napoli: Liguori.



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