A cura di Stefano Zampieri - Consulente Filosofico

CATALOGO RAGIONATO DELLA FANTASCIENZA (E DELLA DISTOPIA)

I CLASSICI DEL XIX SECOLO


Mary Shelley,  FRANKENSTEIN O IL PROMETEO MODERNO   1818

E' l'atto d'inizio della letteratura fantascientifica. Racconta in modo straordinario il sogno prometeico della scienza ottocentesca: ricreare la vita. Si potrebbe riflettere però sul finale per nulla positivo dwlla storia. Certo la scienza riesce dove la magia e la religione hanno fallito ma il prezzo è enorme e, fortse, insostenibile. La letterasrura di fantascienza nasce con un germe di istanza critica di cui non si potrà mai liberare.


Mary Shelley,  L'ULTIMO UOMO,  1826
 Romanzo sottovalutato ingiustamente. In realtà asi tratta si un'opera profonda e attuale. Capostipite di un filone importante della letteratura distopica, quella che ipotizza la fine del genere umano come tale. 

 

 Ippolito Nievo  STORIA FILOSOFICA DEI SECOLI FUTURI 1860

A chi ancora è scettico sull'esistenza di una solida tradizione distopica nella letteratura italiana, segnalo questo aureo racconto di Ippolito Nievo pubblicato per la prima volta nel 1860 (sic): Storia filosofica dei secoli futuri. Contiene già anche se solo in forma abbozzata, una controstoria del mondo e dell'Italia, una anticipazione della creazione di esseri artificiali, una descrizione dell'esito nefasto della storia umana, insomma c'è proprio il succo della migliore distopia, in un'epoca di tardo romanticismo e agli albori del realismo. Cioè in un perfetto controtempo.

 

Edward Bulwer-Lytton,  VRIL. LA RAZZA FUTURA  1871

 Il destino di questo romanzo, titolo originale Vril. The Power of Coming Race, pubblicato nel 1871, è davvero singolare. Pur non avendo riscosso un grande successo di pubblico, è diventato riferimento segreto per oscuri ricercatori di misteri, massoni, e persino sette segrete di ispirazione nazista.

La storia  è abbastanza semplice: un giovane americano in visita in Inghilterra precipita in una voragine mentre visita una miniera e finisce in un mondo sotterraneo sconosciuto. Qui entra in contatto con una civiltà avanzatissima che è del tutto ignara dell’esistenza del mondo di sopra. Tutto il resto del romanzo è dedicato alla descrizione degli usi e dei costumi di questo popolo. Insomma una sorta di utopia sotterranea, un mondo ideale che realizza in qualche modo il sogno  di una società pacificata, priva di conflitto sociale, dove le donne sono protagoniste e non emarginate dove i bambini sono considerati autonomi e capaci e la religione è un fatto privato. Dove tutti si muovono liberamente anche servendosi di ali meccaniche.

“I vizi che fanno marcire le nostre città, qui non avevano cittadinanza. I divertimenti abbondavano, ma erano tutti innocenti. Nessun divertimento portava all’intossicazione, al disordine, alla malattia.” (204)

Longevi e felici gli abitanti di questo mondo realizzato rappresentano, dunque, la materializzazione di molti nostri sogni: “In questo stato sociale dei Vril-ya, era singolare notare come esso riusciva a unire e armonizzare in un unico sistema quasi tutti gli oggetti che i vari filosofi del mondo superiore hanno posto davanti alle speranze umane come ideali di un futuro utopico.” (204)

Il grande segreto di questa civiltà, che si serve di robot e mezzi di trasporto aerei, è contenuto nel Vril una energia misteriosa e straordinaria (via di mezzo tra elettricità e ipnotismo) che consente di scavare montagne, di annientare mostri, di sollevare pesi, di sanare ferite ecc.

Il guaio è quando un esemplare femminile di questo popolo si innamora del protagonista. Perché la comunità non accetta una simile relazione e decreta l’uccisione dell’uomo. Ma lei lo aiuta a fuggire ed egli può tornare così alla sua vita nel mondo di sopra.

 È il caso di notare che il popolo dei Vril, che rappresenta una diversa possibilità di sviluppo per il genere mano, implicitamente sembra voler indicare anche una direzione di sviluppo, si tratta cioè di una proiezione, una visione del futuro. L’autore dice esplicitamente che nel momento in cui decideranno di entrare in contatto con la specie del mondo di sopra faranno presto a sottometterla e ad annientarla. I Vril domineranno il mondo futuro, la specie umana è destinata alla decadenza.

Il romanzo di Bulwer-Lytton probabilmente ha ispirato anche  H. G. Wells nella descrizione dei  Morlock, la popolazione che vive nelle viscere della Terra, ne La macchina del tempo (1895). E a sua volta si ricollega alle Teorie della Terra Cava già diffuse da tempo, si ricordi solo per fare un esempio il Viaggio al centro della Terra di Jules Verne (1865).

 

G. T. Chesney,   LA BATTAGLIA DI DORKING   1871

La battaglia di Dorking è un romanzo breve fantapolitico del 1871 di George Tomkyns Chesney, scrittore  inglese:  G.T. Chesney è l’abbreviazione di Sir George Tomkyns  (1830 - 1895). Generale dell’esercito britannico, considerato l’iniziatore della “letteratura d’invasione” e un importante precursore della fantascienza. 

 Voglio essere subito chiaro: G.T. Chesney non era un grande scrittore. Era un militare. E si sente benissimo nella precisione e nei dettagli di un racconto che è tutto centrato su una vicenda bellica. L’unico particolare, quello che ne giustifica la presenza in questa sede consiste nel fatto che La Battaglia di Dorking, cittadina nei dintorni di Londra, non è mai avvenuta. Il breve romanzo, pubblicato nel 1871, è ambientato, infatti, in un tempo futuro rispetto a quello dello scrittore.

La trama è molto semplice: l’Inghilterra dichiara guerra alla Germania e ha inizio una guerra di dimensioni europee. Un volontario si reca al fronte. Combatte. Viene sconfitto insieme con l’esercito britannico.

L’intera vicenda è vista con gli occhi del volontario che, nella sua ingenuità, fa emergere l’approssimazione e le carenze dell’esercito inglese. La narrazione ha dunque valore di una testimonianza di un soldato semplice spostato da una parte o dall’altra senza apparente raziocinio, senza vettovagliamenti, senza preparazione militare. Alla fine ci rendiamo conto che si tratta del racconto di una sconfitta, drammatica e definitiva, infatti al momento in cui il volontario racconta sono passati cinquant’anni dalla battaglia e ancora l’Inghilterra risulta sotto il dominio tedesco. Non mancano dichiarazioni accorate tipiche di un conservatore convinto come fu Chesney, che rimpiange la grandezza perduta della sua nazione:

“Quando osservo il mio Paese così com’è oggi, il commercio scomparso, le fabbriche silenziose, i porti vuoti, preda del pauperismo e della decadenza… quando vedo tutto ciò, e penso a cos’era la Gran Bretagna della mia gioventù, mi chiedo se ho davvero un cuore e se ho anche una sola briciola di patriottismo, per avere assistito a una simile degradazione e non aver perso il desiderio di vivere!”  (110)

 Il testo è considerato uno dei modelli fondativi del genere cosiddetto del future-war-tale cui appartiene per esempio La guerra dei mondi di H.G. Wells (1898). La prospettiva apertamente conservatrice si chiude con una assai sprezzante dichiarazione, certo inserita in un altro tempo, ma chiaramente indirizzata al lettore del 1871, epoca di forte espansionismo prussiano e di umiliante sconfitta per la Francia di Napoleone III: “Una nazione troppo egoista per difendere le proprie libertà, non meritava certo di mantenerle.” (113).

 

H. G. Wells    LA MACCHINA DEL TEMPO   1895

Scritto nel 1895, in una fase di creatività prodigiosa che nel gire di tre anni diede vita  a capolavori come L’isola del dottor Moreau (1896), L’uomo invisibile (1897) e La guerra dei mondi (1897),  il romanzo La macchina del tempo di H.G. Wells rappresenta uno dei pilastri della letteratura distopica. L'autore infatti riesce a sviluppare una previsione sconvolgente relativamente al futuro della società umana.

Il protagonista, chiamato semplicemente Viaggiatore del Tempo, è una singolare figura a metà strada tra lo scienziato e il ricco e ingegnoso dilettante. Egli mette a punto una macchina con la quale è possibile viaggiare nel futuro. Raggiunge infatti l’anno 802.701 ma riesce anche a tornare e a raccontare ciò che ha visto e ciò che ha vissuto. Il romanzo dapprima narrato da un amico, si sviluppa poi per la maggior parte nella forma di un lungo monologo attraverso il quale scopriamo una umanità futura  spaccata in due parti, i pallidi Eloj, esseri senza forze e senza volontà, che vivono una vita apparentemente felice e priva di emozioni, ma in realtà sono schiavi inconsapevoli dei Morlock, cui è demandato il compito del lavoro, ma in condizioni subumane. 

“Il Viaggiatore nel Tempo (così chiameremo il nostro protagonista), stava spiegandoci un’astrusa teoria. I suoi occhi grigi luminosi brillavano e il viso, abitualmente pallido, era rosso e animato. Il fuoco ardeva allegramente e, dalle lampade a incandescenza in gigli d’argento, s’irradiava una tenue luce, riflettendosi nelle bolle che rapide apparivano e scomparivano nei nostri bicchieri. Le poltrone, suo brevetto, parevano abbracciarci e accarezzarci più che subirci, e vi era quella molle atmosfera del dopo pranzo,durante la quale i pensieri vagano piacevolmente, liberi da ogni vincolo. Ed egli ci parlava così, liberamente, sottolineando i punti salienti con gesti del suo indice magro, mentre noi, pigramente seduti, ammiravamo l’ardore con cui sosteneva un nuovo paradosso (così lo giudicavamo) e la sua eloquenza.”

La narrazione di Wells è distopica e critica, egli insieme a Huxley si pone agli antipodi dell’ottimismo ottocentesco, rappresentato da un filosofo evoluzionista come Herbert Spencer che ben interpreta la cultura positivista del XIX secolo,  quella delle magnifiche sorti e progressive, quella della certezza nella capacità della scienza di condurre l’umanità verso il sole dell’avvenire. Al contrario Wells vede il buio in fondo al tunnel e  l’immagine finale del suo viaggio nel futuro  lascia  ancor oggi sgomenti: “non vidi muoversi nulla, né  in terra né un cielo né in mare. Solo la melma verde delle rocce testimoniava che la vita non si era estinta del tutto.”

La dialettica mortale tra Eloj e Morlock a sua volta può essere intesa come  anticipazione profetica e visionaria insieme di una umanità che si affievolisce perché addomesticata dal confort delle macchine, e una asservita e abbruttita, anche fisicamente, anche nella incapacità di parlare, dal lavoro meccanico, due forme diverse della stessa malattia, l’asservimento alla tecnica, la trasformazione dell’uomo da dominatore delle macchine a strumento di esse. Una prefigurazione di quella perdita progressiva di umanità che un tempo era chiamata alienazione. 

La visione di Wells è impietosa e contiene in sè un formidabile accento critico perché i segni del futuro devastante sono già presenti nella sua epoca ma ancor più nella nostra. Per chi vuole entrare nella dimensione della distopia una lettura imprescindibile.

  

H.G.Wells,  L’UOMO INVISIBILE  1897

L’uomo invisibile (1897) è uno dei capolavori assoluti di Wells e uno dei romanzi che hanno segnato più profondamente l’immaginario fantastico e fantascientifico occidentale.

Anche qui, come in altre narrazioni di Wells, la vera protagonista è la scienza ma portata alle sue estreme conseguenze, e che raggiunge risultati imprevedibili. Lo scienziato protagonista, Griffin, ottiene l’invisibilità non per effetti magici ma attraverso lo studio, la sperimentazione, l’applicazione di teorie scientifiche. È un processo ossessivo ma razionale quello che lo guida e lo porta a una condizione di cui non comprende e non controlla le conseguenze.

Griffin diventa un mostro, come Frankestein, e come l’uomo artificiale della Shelley, sconta un destino tragico di solitudine e di incomprensione: gli altri non possono comprenderlo, non possono avere compassione per lui, egli appare piuttosto come un pericolo da combattere, e infatti la maggior parte del romanzo ci narra degli scontri con gli altri. E dell’inevitabile tragico finale.

 Sarebbe stato facile per l’autore insistere su tutte le straordinarie cose che potrebbe fare un uomo invisibile, ma la storia mette in evidenza piuttosto la condizione esistenziale di solitudine cui egli è condannato, la condizione del diverso, la sua totale incapacità di farsi comprendere, l’incomunicabilità radicale che contraddistingue la società moderna, l’impossibilità di stringere relazioni autentiche al di fuori delle condizioni comuni, di quella che viene assurdamente considerata la “normalità”. Ciò che viene cancellato è il diritto all’esistenza del singolo non integrato.

Appunto come accade al Frankestein di Mary Shelley, il mostro incompreso. Ecco così, stesso destino, stessa tragedia. Ed entrambi, si noti vittime di una scienza potente, sempre più potente, in grado di ottenere risultati incredibili, ma del tutto incapace di prevedere e calcolare le conseguenze delle proprie azioni più estreme.

Potremmo presentarlo dunque, da un lato, proprio  come il dramma della diversità, non tanto la realizzazione di un sogno segreto di tutti noi, essere invisibile, poter fare tutto ciò che desideriamo senza correre alcun pericolo, né sentire il peso di alcuna responsabilità, no, non l’affermazione del desiderio illimitato ma al contrario la difficoltà di esser diversi in un mondo di uguali, in un mondo omologato. E dall’altra parte il romanzo contiene una evidente mozione critica rivolta alla scienza e alla tecnica quando esse siano vittime della propria potenza e insieme dell’incapacità di assumersi il peso delle conseguenze delle proprie azioni.

 

H. G. Wells    IL RISVEGLIO DEL DORMIENTE  1898

 Per chi ha apprezzato quel piccolo formidabile romanzo che è La macchina del tempo, questo "Il risveglio del dormiente" (1898) di H.G. Wells è quasi una lettura obbligatoria. Scritto successivamente ha il valore di un prequel, mostra cioè le vicende iniziali di quella trasformazione della società futura con la quale si scontrerà il viaggiatore del tempo del primo romanzo. Anche in questo caso per altro lo sviluppo narrativo trova il suo punto di partenza in un paradosso del tempo. Il protagonista infatti resta misteriosamente in coma per duecento anni e quando si sveglia trova che il suo mondo è interamente cambiato, non solo da un punto di vista tecnologico ma soprattutto dal punto di vista del conflitto sociale che dilania le città ridotte ormai a organismi incontrollabili. Per chi è interessato a una distopia critica come il sottoscritto è una lettura che non posso che consigliare caldamente.

 

H. G. Wells,  RACCONTI DELLO SPAZIO E DEL TEMPO 1899

 Se pensate che questi siano i soliti racconti ottocenteschi vi sbagliate di grosso, anche se i Racconti  dello spazio e del tempo sono stati pubblicati alla fine del secolo XIX (1899), la loro modernità è potente. Potrebbero essere stati scritti oggi. Wells è un narratore di grande inventiva ma anche di grande capacità stilistica. Lo si nota davvero molto bene.

Per esempio nel racconto “Una storia nell’età della pietra” dove la voce narrante si pone al livello dei personaggi, uomini dell’età paleolitica, e persino a quello degli animali  che sentiamo piacevolmente conversare tra loro. La storia a a che fare con l’affermazione di un capo sulla tribù attraverso un lungo e complesso scontro con le forze della natura, gli animali, la fame, i leoni ecc. e una sanguinosa affermazione sugli altri individui del gruppo. Ma allo stesso tempo Wells fa emergere dal racconto le continue scoperte del mondo: gli ambienti sconosciuti, la prima cavalcata, la conseguente scoperta della velocità, la Prima Ascia, arma utile e pericolosa insieme.

Nel racconto “L’uovo di cristallo” si ipotizza d’un oggetto straordinario, che ha la proprietà di mettere in collegamento la Terra e Marte, e di funzionare dunque come un sorta di finestra bidirezionale da cui gli uni possono vedere gli altri.

In questo modo Wells contribuisce al mito di Marte che sarà un luogo comune per molti scrittori di fantascienza.

Il racconto “La stella” sembra far parte, invece, di quella grande tradizione narrativa che potremmo chiamare catastrofista: una collisione  trasforma Nettuno in una specie di bomba proiettata verso la Terra. E non meno originale è il racconto “Una storia dei giorni a venire” che ci trasporta un  in un futuro lontano, dove però gli esseri umani incontrano le stesse difficoltà dell’uomo di oggi.

Ma difficile da dimenticare è, a mio avviso, l’ultimo racconto, il più breve, ma fulminante: la storia di un uomo che improvvisamente scopre di poter fare miracoli, ma non ne è affatto contento.

Questi  racconti di Wells ci rivelano dunque un narratore molto efficace, per stile e per originalità dei temi, e in questo caso la narrazione appare assai poco invecchiata. Sono racconti che si leggono benissimo senza sentire il caratteristico sapore d’antiquariato che promana di solito dalle opere dell’800. Ben venga dunque questa edizione dell’editore Grenelle con la bella traduzione di Giuseppe e Piero Pascarelli e una ricca introduzione di Pietro Pascarelli. 

 

H.G. Wells, LA VALLE DEI RAGNI  1903

 La deliziosa  edizione Adelphi che nette insieme i due racconti di Wells (tradotti da Roberto Serrai con una nota di Sandro Modeo) merita una attenta lettura. I due brevi racconti infatti rappresentano, forse insieme a La valle dei  ciechi, tra le scritture più originali di Wells, anche se meno note e meno celebrate dei grandi romanzi.

La valle dei ragni (1903) è un racconto di tipo horror: tre uomini morsi dalla passione erotica inseguono una donna meticcia ferita attraverso un paesaggio desertico e spettrale. Si trovano a un certo punto, circondati da una massa di ragni che viaggiano dentro grossi batuffoli di ragnatela spinti dal vento.

L’orrore e il terrore cancellano la passione e fanno scattare il meccanismo della sopravvivenza per il quale il capo dei tre arriverà a uccidere il servo al  fine di sottrargli il cavallo e fuggire mentre il terzo finisce divorato dagli immondi animali.

Nel racconto L’impero delle formiche (1905), più lungo e più articolato, Wells sembra voler prendere le distanze dalla prospettiva umana e osservare il destino della specie da una punto di vista differente. Wells, assai sensibile alle teorie darwiniane, si avventura in una costruzione distopica per eccellenza prospettando una realtà nella quale la specie umana è messa in difficoltà da un’altra specie animale, quella delle formiche, che si è organizzata, si è evoluta e, presa coscienza delle sue potenzialità, ha cominciato a imporre il proprio dominio assaltando le comunità umane. Un comandante di origine francese, Gerilleau,  riceve l’ordine di portare la sua nuova cannoniera in prossimità di un villaggio che è stato attaccato dalle formiche. Trova, durante un viaggio fluviale che ricorda da vicino quello di Cuore di tenebra di Conrad, una barca assalita dalle formiche che hanno ucciso e divorato i marinai, trova villaggi interamente distrutti, e capisce che il nemico è stato molto sottovalutato, non si tratta solo di formiche ma piuttosto di una vera  e propria civiltà nuova, organizzata e spietata, come se si trattassero di alieni, giunti su un pianeta da conquistare.

Il racconto si conclude con una previsione catastrofica: le formiche hanno già conquistato parte del Brasile  molto presto estenderanno il loro dominio, scenderanno per il Rio delle Amazzoni, e in pochi anni giungeranno in Europa.

 L’idea che l’essere umano sia solo una possibilità per questo pianeta, che altre specie possano imporsi anche a suo danno, è feconda per la letteratura distopica, lo sappiamo bene. Ma lo era già per il pensiero critico dell’800, e la mente va subito al Leopardi delle Operette Morali, un pensiero che Wells interpreta benissimo, prospettandoci un’immagine della cultura del XIX secolo, o dell’incipiente XX, del tutto diversa da quella tradizionale, meno dolciastra e post romantica, molto più problematica rispetto al destino dell’umanità e al suo ruolo sulla Terra.  

 

H. G. Wells,  UOMINI E DEI  1923

 Scritto e pubblicato nel 1923, il romanzo Uomini e dei appartiene alla fase più matura dell’opera di H. G. Wells, quella nella quale lo scrittore fa virare l’impianto della fantascienza verso una riflessione politica e filosofica che ha per centro le sue personali aspirazioni di militante socialista, anche se sempre piuttosto critico.

 Le linee generali della trama sono semplici: un gruppo di persone che stanno viaggiando in automobile  si trova per caso, in realtà per un esperimento mal riuscito, in un altro mondo. È il mondo di Utopia.

Ha inizio così una lunga descrizione, talvolta un po’ didascalica, di questa realtà alternativa. Si capisce trattarsi di una società molto simile a quella “terrestre” cioè del mondo di appartenenza del protagonista, ma che ha seguito una linea di sviluppo diversa ispirata sostanzialmente a un socialismo liberale anticapitalistico e antibolscevico.  È un società nella quale si effettua un rigido controllo delle nascite in funzione delle risorse disponibili, che riconosce l’insegnamento di Cristo senza però una vera e propria chiesa, una società ispirata alla cooperazione e al bene comune ma che non ha avuto bisogno di una rivoluzione per realizzarsi bensì di una “illuminazione generale”; è uno stato scientifico universale o stato educativo perché l’educazione, il sapere, la conoscenza, hanno un ruolo assolutamente centrale; anche educazione alla gentilezza, all’aiuto, alla immaginazione. Tutto ciò rende inutile la polizia quanto la politica: “La nostra educazione è il nostro governo.” Afferma un utopiano. Non c’è infatti un potere centrale ma ci si affida alla sapienza e alla competenza delle persone più in vista. Dall’altra parte i terrestri che si ritrovano in questo altro mondo sono i rappresentanti delle categorie umane che Wells disprezza di più: il prete bigotto, il politico conservatore, l’esteta con il monocolo, l’affarista americano, il francese sciovinista. Servono a mostrare al lettore gli ostacoli che la nostra società incontra per realizzare una simile utopia. Ciò che è particolarmente interessante è che la nuova condizione umana del mondo di Utopia finisce per modificare la natura stessa: gli utopiani infatti hanno estirpato le specie animali nocive, per esempio certi insetti noiosi, ma anche virus batteri, parassiti, e gli esseri umani vivono in una condizione di pace, di tranquillità di armonia universale. Tanto che l’autore riflette sul fatto che l’assenza di conflitto sia effettivamente compensata dallo stigma che subiscono gli oziosi e i vili. Compensazione necessaria per evitare la degenerazione della società.

Tuttavia in questo clima perfettamente ordinato, il gruppetto dei terrestri porta il disordine: essi infatti involontariamente causano delle epidemie perché sono portatori di virus cui gli utopiani non sono più abituati. Per questo i terrestri vengono isolati. Si determina allora uno scontro in cui i terrestri fanno emergere tutto lo spirito imperialistico, sognano infatti di impossessarsi del regno di Utopia con le armi. L’iniziativa non riesce, e il protagonista, il signor Barnstaple  giornalista di professione, si distacca dai terrestri perché è l’unico che approva incondizionatamente il nuovo mondo.

Il romanzo si conclude con il protagonista che viene rispedito nel suo mondo d’origine, e qui può solo ricordare tutto quello che ha visto e darsi da fare perché la società possa realizzare il sogno di un mondo nuovo ispirato all’utopia di cui ha fatto esperienza.

 Nonostante alcune parti molto descrittive e di impianto sociologico più che narrativo, devo confessare che il libro mi ha affascinato dall’inizio alla fine perché l’autore ha saputo mettere la fantascienza al servizio di una riflessione che oggi ha valore storico e documentale. La rappresentazione dell’uomo nuovo, il sogno di molte aspirazioni politiche progressiste del ‘900, con tutta la sua ingenuità, resta un’immagine davvero commovente. 

 

H. G. Wells,  GLI ASTRIGENI   1937

 Il romanzo Gli astrigeni di H.G. Wells scritto nel 1937 è certamente un romanzo con una struttura tipicamente ottocentesca. Non ci sono grandi avvenimenti non ci sono trame molto intricate, ci sono alcuni personaggi, descritti sommariamente,  lunghe discussioni, riflessioni, analisi, considerazioni. Ma allo stesso tempo pur non essendo un testo di lettura molto divertente, il romanzo è, a mio modo di vedere, una delle opere più belle, profonde, originali di H.G. Wells.

 I protagonisti del romanzo sono i marziani, ma essi non compaiono mai. Al contrario dell'immagine che lo stesso Wells ci aveva fornito nella Guerra dei mondi, qui gli alieni non sono una razza che invade, non sono un pericolo, ma al contrario sembrano rappresentare una versione saggia dell'umanità. E la squisita finezza del romanzo sta proprio nel fatto che essi non compaiano, ma vengano continuamente evocati, di riga in riga, di parole in parola. Il protagonista, Joseph Davis, è uno storico che ha pubblicato molti libri sulla storia dell'umanità, improvvisamente ha la sensazione che lui e la sua famiglia siano stati in qualche modo cambiati dall'influsso dei raggi cosmici. E proprio questi raggi cosmici sarebbero l'arma che usano gli alieni per trasformare l'essere umano. Tuttavia si tratta di una trasformazione che volge verso il bene cioè si tratterebbe di un modo che hanno gli alieni per accelerare lo sviluppo dell'umanità in senso positivo i raggi cosmici produrrebbero, dunque, una mutazione verso "una saggezza più vasta”(p. 43).

In questo modo tutto il romanzo finisce per essere una tagliente critica alla umanità, nella quale l'homo sapiens viene descritto come un “dilettante su una nave che affonda”(43)

Il ventesimo secolo è inteso come il secolo della “scoperta extraterrestre” (p.55), certezza che appartiene completamente alla fantascienza e non invece alla realtà scientifica, tuttavia, e bisognerebbe riflettere su questo aspetto, la letteratura del Novecento è la letteratura nella quale compare questo nuovo protagonista: l'alieno, Alter Ego molto evidente di una umanità che comincia a fare i conti con se stessa e che comincia a intravedere i limiti del proprio sviluppo. In questo senso il marziano può essere quasi definito come un “superuomo”(p. 42)

Un aspetto magari secondario ma certamente molto inquietante del romanzo sta nel fatto che l'idea che gli alieni stiano modificando la razza umana attraverso i raggi cosmici, che si diffonde nell'ambiente scientifico, viene però neutralizzata dal trasformarsi in una moda, ridotta a chiacchiera, esattamente come accade oggi con i social che riescono a neutralizzare qualsiasi informazione rilevante trasformandola in banalità. Anche in questo Wells appare ottimo anticipatore

 È molto evidente, in questa narrazione di Wells, l'adesione a un clima generale di grande preoccupazione in tutta Europa per quel che si stava preparando. In quegli anni, infatti,  lo sappiamo, era in corso la guerra di Spagna e già Hitler aveva dato prova delle sue intenzioni espansionistiche, in generale l'umanità stava precipitando in un baratro dal quale sembrava non esserci via d'uscita. È proprio a fronte di questa oscura percezione che lo scrittore cerca, anche al di fuori delle sue convinzioni politiche e ideologiche (Wells era socialista). In questo senso è certamente interessante leggere un passo che sembra molto emblematico della sconfortante delusione dell'autore rispetto alla realtà del suo tempo e al sogno di un futuro veramente pacificato: "Serenità. La sicurezza significa serenità. Dite quello che vi pare sul mondo futuro. Una cosa è certa: che non solo sarà un mondo più ricco, ma più splendido (…) Certamente vi sarà la pace del mondo. Questo vuol dire, tranne per gli ostacoli della natura e i capricci del clima, che un uomo sarà libero di andare ovunque gli piaccia, e di esercitare i diritti e i doveri di cittadino in qualsiasi posto vada. Un sistema economico in vista dell’abbondanza, e non un sistema di pressioni imposte per la povertà. Le vostre necessità saranno soddisfatte dappertutto. Non avreete preoccupazioni per il domani per quel che riguarda cibo, comodità e dignità.” Così è il sogno del futuro, una utopia ancora lungi dal realizzarsi, forse dobbiamo aspettare di diventare anche noi “astrigeni”, cioè le creature astrali. 

  

 J. Verne,  VIAGGIO AL CENTRO DELLA TERRA  1864

Scritto nel 1864 è il romanzo che inaugura il filone della letteratura fantastica cosiddetto del “mondo perduto”, si pensi ad esempio a La razza ventura (1871) di Edward Bulwer-Lytton, o Le miniere di re Salomone (1885) di H. Rider Haggard o ancora a Il mondo perduto di Arthur Conan Doyle del 1912.

In questo caso il mondo perduto è l’interno della Terra, il mondo sotterraneo.

 La narrazione prende avvio dal ritrovamento di un antico manoscritto – un altro topos della letteratura fantastica – nel quale il protagonista, un grande geologo,  il prof. Lidenbrock, trova un’iscrizione in caratteri runici che riesce fortunosamente a decifrare. È la testimonianza di un antico viaggiatore che afferma di aver raggiunto il centro della Terra, e indica il punto da dove è possibile iniziare simile impresa: un vulcano spento in Islanda. Raggiunta l’isola un piccolo drappello composto dall’illustre studioso, dal nipote Axel e da Hans, un taciturno cacciatore islandese assunto come aiutante per l’occasione, seguendo la via del vulcano spento si addentra nel sottosuolo. Il piccolo Axel è anche la voce narrante che porta il lettore a una scoperta progressiva, tra momenti di entusiasmo e situazioni disperate.

Il mondo di sotto appare fin da subito al lettore come un altro mondo, per i lettori di fantascienza è come se si trattasse di un altro pianeta. Ogni cosa è una scoperta, formazioni minerali sconosciute, piante mai viste, funghi immensi, tracce di animali preistorici, ma anche animali estinti che rivivono. Fra le altre cose scoprono un cimitero d’ossa di animali preistorici ma anche tracce di uomini del Quaternario: un uomo fossile!

Rischiano più volte la vita ma non demordono, l’esplorazione è troppo importante. La sconoscenza vale il rischio. Fino a che, trascinati dalla forza di una eruzione sono gettati fuori dalla bocca di un vulcano che scoprono essere Stromboli.

Tornano alla fine ad Amburgo da eroi.

 Un romanzo carico di fascino, dove l’avventura si sposa alla fantasia e la descrizione del mondo inferiore si mescola con una specie di regressione nel tempo attraverso tutta la storia della Terra.

Dall’inizio alla fine il coraggioso scienziato non fa altro che dimostrare, per via di esperienza empirica diretta, la relatività delle certezze scientifiche, tanto poco solide da essere messe continuamente in discussione dalle scoperte del drappello di esploratori.

Verne, si sa appartiene ancora alla fase del positivismo, della certezza quasi fideistica nella scienza e nella sua capacità di dare spiegazione del mondo, ma allo stesso tempo dimostra un atteggiamento per niente ingenuo, ma anzi consapevole anche dei limiti che la scienza incontra sul suo cammino, e al contempo della presunzione di molti scienziati. 

 

Jules Verne, DALLA TERRA ALLA LUNA   1865

 Se cerchiamo il punto d’origine di quello che chiamiamo fantascienza dobbiamo arretrare al XIX secolo. Probabilmente il germe è da cercarsi nel Frankenstein di Mary Shelley, ma la consacrazione definitiva del genere è merito indiscusso di Jules Verne. Per questo rileggere oggi le sue opere è ancora una esperienza che merita la nostra fatica.

Di fronte al romanzo Dalla Terra alla Luna del 1865 per esempio, non possiamo non restare stupefatti: in realtà il romanzo dal punto di vista dell’intreccio narrativo è assai modesto, non accade quasi nulla. Buona parte del libro racconta con dovizia di particolari l’aspetto scientifico e tecnico di un progetto straordinario: mandare una capsula dalla Terra alla Luna. Il viaggio verso il nostro satellite ha da sempre affascinato scrittori e filosofi, dalla antica commedia greca (Aristofane o Luciano) passando per Dante, Ariosto, Keplero, Cyrano. Ma quello che distingue totalmente il romanzo di Verne è che esso pretende di fondarsi su dati scientifici. Non su semplici fantasie d’artista. È evidente lo studio che l’autore ha compiuto per analizzare la posizione esatta della Luna rispetto alla Terra, o la velocità necessaria per uscire dall’orbita terrestre, o la potenza del cannone che sparerà la capsula, ma anche le problematiche relative alla fusione del cannone o alla necessità di produrre ossigeno nella navicella, e assorbire anidride carbonica. Certo non sono sempre pagine facili, talvolta hanno un carattere didascalico e enciclopedico che le rende pesanti, ma non possiamo non meravigliarci di fronte alla capacità di Verne di affrontare questioni tanto complesse sulla base dei dati scientifici a sua disposizione in quel momento, e persino di suggerire soluzioni se non fattibili almeno verosimili.

 Tutto è ambientato negli USA e ruota intorno al Gun Club, una associazione di artiglieri che discute di canoni e di guerre, presenti e future. Il presidente Barbicane ha un’idea rivoluzionaria: lanciare un proiettile sulla luna. Lo scopo non è chiarissimo, forse per stabilire un contatto con i possibili abitanti, forse solo per mostrare le straordinarie capacità della tecnica. Insomma, una esibizione di potenza.

All’inizio il proiettile doveva essere solo una palla vuota, ma poi su suggerimento di un coraggioso francese, Michel Ardan, personaggio ispirato fin nel nome al celebre fotografo Nadar, grande amico di Verne, il proiettile diventa un vera e propria navicella, a bordo della quale saliranno Barbicane, Ardan e il capitano Nicholl, scienziato costruttore di corazze.

L’enorme cannone viene costruito, si sceglie il fulmicotone come carica esplosiva e dopo lunghe discussioni tecniche finalmente si spara il proiettile verso la Luna. Dalla Terra però non si riuscirà a seguirne il tragitto. Qui si chiude il romanzo, lasciando il lettore incerto sull’esito finale  del progetto.

La storia verrà ripresa e conclusa da Verne qualche anno dopo  nel seguito Intorno alla Luna (1870).

Come si accennava l’elemento più significativo del romanzo è la passione per la Scienza e la Tecnica che l’Autore riversa nelle sue pagine, anche a costo di sottoporci ad articolate spiegazioni intorno al calcoli dell’orbita, alla fusione dei metalli, alle tecniche degli esplosivi e via dicendo.

La Scienza e la Tecnica sono le vere protagoniste dell’opera, e forse quando pensiamo al naturalismo francese e al suo manifesto, il saggio di Zola Il Romanzo sperimentale (1880), dovremmo ricordare che alle sue spalle non vi è soltanto il Positivismo ottocentesco ma anche le bizzarre avventure degli eroi di Verne che prendono sul serio la Scienza e la Tecnica e le affidano un ruolo da  protagoniste sulla scena letteraria.

 

Jules Verne, VENTIMILA LEGHE SOTTO I MARI 1870

 I primi semi della fantascienza vanno cercati nella letteratura dell’800. Pioniera assoluta Mary Shelley con il suo Frankenstein (1818) ma poi il genere diventa veramente letteratura di massa per merito di Jules Verne a partire almeno da Cinque settimane in pallone (1863),  e poi Dalla terra alla luna (1865) e poi Ventimila leghe sotto i mari (1870). Non nascondo che quest’ultimo romanzo (insieme a Il giro del mondo in 80 giorni) ha sempre suscito la mia attenzione, fin da quando, ragazzo, lo lessi per la prima volta. Allora probabilmente apprezzavo soprattutto le avventure in terre lontane, i viaggi fantastici, quella curiosità incontenibile che porta Verne  a diventare scrittore non localistico, ma attratto dal mondo, dai luoghi sconosciuti, dalle avventure impossibili. Oggi, dopo molte letture e qualche riflessione, trovo che Verne sia un autore ingiustamente relegato nella letteratura per ragazzi, e invece meno banale e meno superficiale di quel che talvolta si pensi, le sue non sono solo divertenti avventure, c’è qualcosa di più. Innanzi tutto c’è il fatto che egli insieme a pochi altri inaugura un genere che oggi ci appare così significativo ed emblematico del nostro tempo, la fantascienza. Per questo motivo mi riprometto di farne un po’ alla volta una lettura articolata per Leggere Distopico.

E non posso iniziare se non da Ventimila leghe sotto i mari. Chi ha letto Moby Dick (che è del 1851, quindi precedente, ma è stato tradotto in francese per la prima volta solo nel 1941 da Jean Giono e dunque non sappiamo se Verne ne avesse conoscenza), vi ritroverà lo stesso piacere nel descrivere minuziosamente gli ambienti marini, i pesci, le piante, la  vita dei balenieri. Anche a costo di inserire nella narrazione lunghi elenchi non certo appassionanti, ma Verne non sta solo raccontando una storia, sta descrivendo un mondo. La trama in sé, infatti, è piuttosto semplice.

 

Un essere sconosciuto imperversa per gli oceani mentendo a rischio i vascelli e le baleniere. Uno scienziato viene incaricato a bordo di un Vascello di inseguire l’animale e magari catturarlo. Tuttavia è l’animale che inseguito si rivolta contro il vascello e l’affonda, lo scienziato e altri due vengono raccolti come naufraghi proprio dal mostro che si scopre essere non un animale ma un mezzo  sottomarino, macchina del tutto sconosciuta e avveniristica, il Nautilus,  del misterioso ammiraglio Nemo. 

Trascinato controvoglia a esplorare tutti i mari del mondo, alla fine i tre riescono a fuggire e il Nautilus scompare, ma non sappiamo se affondi  o meno, in un vortice di correnti.

 

Ma che cos’è il Nautilus e chi è il comandante Nemo? Il Nautilus è, insieme, un gioiello tecnologico d’avanguardia e un palazzo principesco, colmo di opere d’arte, di una ricchissima biblioteca, di oggetti preziosi, c’è persino un organo che il capitano Nemo ama suonare in solitudine. Il mezzo meccanico sfrutta la grande novità del XIX secolo, che è all’origine di molta letteratura fantascientifica di questo secolo, l’elettricità, ma anticipa anche molte soluzioni moderne sia nelle modalità di spostamento del mezzo, sia nella pratica subacquea. Ma il Nuautilus è anche un luogo di isolamento assoluto dal mondo e dagli uomini. I marinai sembrano aver fatto il voto del silenzio, sono parte della macchina, non membri di una comunità.

Quanto al comandante Nemo, non si sa esattamente chi sia. Verne lascia nel dubbio il lettore, e sappiamo dalle lettere scambiate con il suo editore che in fase di scrittura pensava a varie soluzioni. Sappiamo soltanto che Nemo combatte una sua guerra personale della quale, alla fine, non veniamo mai a conoscere i motivi. Possiamo al più intuire che vi sia alle spalle un dramma familiare che giustificherebbe forse quell’incontenibile desiderio di vendetta che lo porta ad affondare le navi, insensibile al destino di tanti poveri marinai. Sappiamo che nel suo vascello museo c’è una parete dedicata ai grandi eroi romantici della liberazione (della Polonia, della Grecia, dell’Irlanda, dell’Unione Americana, c’è anche Daniele Manin eroe della rivoluzione del ’48 a Venezia e John Brown epico eroe dell’emancipazione dei neri). È fra questi eroi che Nemo forse pensa di potersi guadagnare un posto. Egli è un solitario disperato in lotta contro il mondo. L’arrivo  dei tre naufraghi muta solo in parte la sua condizione: Pierre Aronnax, lo scienziato, perfetto esemplare di quella borghesia imperialistica inglese che domina il mondo e che non può vivere senza un fedele servitore, il domestico Conseil e poi il rude popolano canadese Ned Land a rappresentare l’altra parte della società.

Aronnax è anche la voce narrante del romanzo, colui che funge da mediatore, per noi lettori, tra il possibile e l’impossibile, la credibilità e l’assurdità, il reale e il fantastico.

Tutto il gioco narrativo sta in questo lungo peregrinare  in un altro mondo, che pare addirittura un altro pianeta. Il mondo sottomarino capace di fornire cibo, energia, ricchezza, e stupore. Il rifiuto del mondo reale e della società costituita si ribalta nella descrizione di un altro mondo possibile, straordinario e stupefacente, ma destinato a un uomo solo, colui che ha il possesso della macchina. La tecnica costituisce la premessa necessaria per dominare un altro mondo e un’altra vita, migliore, più semplice, meno conflittuale, dove il cacciatore domina le sue prede ma deve altresì difendersi da mostri, creature straordinarie, ambienti ostili. Un  imperialismo senza umanità.

 

Jules Verne  I 500 MILIONI DELLA BEGUN  1879

  Avventura, utopia, distopia, responsabilità della tecnica, militarismo, guerra, ci sono tanti temi importanti in questo piccolo capolavoro di Jules Verne. Rileggerlo oggi può essere davvero istruttivo.

I 500 milioni della Bégum è un romanzo di Jules Verne pubblicato nel 1879. Il libro racconta la storia di due uomini, il dott. Sarrasin, francese ed Herr Shultze, tedesco, che ricevono una grande eredità da una lontana parente indiana, una principessa, appunto la Begum. Ma i due uomini fanno un uso diverso e opposto dell’immane e imprevista ricchezza: il primo utilizza la sua quota per costruire una città ideale, mentre l’altro costruisce una città-industria organizzata militarmente dove progetta, produce e vende armi d’avanguardia.

Nel frattempo, un giovane ingegnere si fa assumere nella città-industria dove scala per anni la catena gerarchica che lo porterà al sancta sanctorum del suo capo. Il giovane è in realtà un alleato dell’uomo che ha costruito la città ideale e riuscirà a scoprire i piani del suo capo. Pur senza venire scoperto, il giovane verrà condannato a morte dal capriccioso capo che gli aveva mostrato i suoi più terribili ordigni segreti: un supercannone dalla lunghissima gittata (sufficiente a bombardare la città ideale), proiettili incendiari e proiettili a diffusione di gas. Tuttavia, il giovane riesce a sfruttare la fiducia che il capo continua a nutrire in lui e a fuggire dalla città-industria; ma tutto il lavoro eroico del giovane e quello dei suoi amici risulterebbe inutile se il supercannone pronto a bombardare la città ideale non fosse paradossalmente troppo potente: il primo proiettile sarà letteralmente scagliato in orbita attorno alla terra, danneggiando allo stesso tempo il cannone. Il romanzo si conclude con la morte di Herr Schultze asfissiato e congelato dall’esplosione di uno dei suoi innovativi proiettili a gas.   

 C’è, molto evidente, nel romanzo il risentimento del francese nei confronti dei tedeschi dopo la sconfitta del 1870, ma c’è anche la consapevolezza dello scrittore affascinato dalla scienza e al contempo conscio della piega drammatica presa dalla società capitalistica del XIX secolo.

Le due città ideali, insieme esempio di utopia e di distopia sorgono negli Stati Uniti, evidentemente il territorio più dinamico, quello che ha ancora in sé una vitalità, una capacità di sviluppo che in Europa languono.

Nel primo caso però, la città ideale chiamata Città Francia, realizza un sogno di armonia e di coesistenza tra classi che sembra richiamare le speranze di un socialismo riformista molto blando, e che ha nelle prescrizioni igieniche il suo fondamento: ciò che conta è che le case siano salubri. Dall’altra parte la città distopica è la Città dell’Acciaio, una immensa officina interamente votata alla costruzione di armi, le più potenti, le più sofisticate, destinate per lo più a stati europei, la Germania in primo luogo. E qui  sono in vigore le forme più estreme di sfruttamento e di autoritarismo. Degenerazione del sogno prometeico, perversione dell’industrialismo verso la fabbrica alienante del XX secolo.

Va osservato però che nella guerra tra le due città, un ruolo particolare lo riveste il mondo finanziario, la Città dell’Acciaio infatti sarà sconfitta  non da un atto di guerra ma dal fallimento economico e conseguente crollo delle azioni in Borsa. Verne intuisce bene come il futuro dipenderà sempre più dalla grande finanza e dalle sue oscure regole.

 

 

Jules Verne, IL PADRONE DEL MONDO  1904

 Il padrone del mondo è uno degli ultimi romanzi di Jules Verne. Pubblicato nel 1904, va considerato come il seguito di Robur il conquistatore di qualche anno precedente (1886). Torna oggi in libreria in una bella edizione illustrata a cura della giovanissima editrice Black Dog di Savona che ripropone la versione originale italiana del 1906 dopo aver ripulito opportunamente la traduzione che appare così limpida e altamente leggibile pur conservando un certo piacevole sapore d’antico.

 Protagonista è l’investigatore John Strock il quale è chiamato a far luce su una serie di eventi misteriosi: una montagna che si illumina come fosse un vulcano, un mezzo misterioso che viaggia sul mare e sulla terra a velocità mai viste prima, un mezzo che sembra in grado di viaggiare velocissimo sott’acqua.

Inizialmente Strock non riesce nell’intento ma poi mettendo insieme gli eventi ci si rende conto che si tratta sempre dello stesso mezzo.

Riuscirà ad appartarsi e a sorprendere  il misterioso equipaggio, ma per una sfortunata casualità si troverà prigioniero nel mezzo stesso comandato, scopre, da Robur il conquistatore che si proclama Padrone Del Mondo e rifiuta di condividere la sua invenzione anche rinunciando a favolose offerte di denaro.

Il finale è drammatico: dapprima Strock è costretto suo malgrado a viaggiare a bordo dello Spavento, che è appunto questo mezzo straordinario, mosso da motori elettrici e in grado di viaggiare indifferentemente sull’acqua e sotto l’acqua, sulla terra e perfino nel cielo.

Ma Robur travolto da una sorta di delirio di onnipotenza, affronta una terribile tempesta che finirà per  distruggere il mezzo e porrà fine alla sua vita.

Strock si salva e può dunque raccontare tutta questa storia.

 Per chi conosca un po’ Verne è facile riconoscere in queste pagine l’orgoglio positivista che ha sempre ispirato le sue opere. L’esaltazione della scienza che può aspirare a superare ogni ostacolo e andare oltre ogni limite umano spinta dal mito della elettricità che per tutto il XIX secolo è apparso come l’energia prometeica in grado di rimodellare il futuro.

Tuttavia, in quest’opera, e forse diversamente da quanto accade per esempio in 20.000 leghe sotto i mari e nel precedente Robur il conquistatore, la figura del pacato e razionale Strock serve anche a mettere in evidenza il punto di non ritorno di un atteggiamento superomistico che rischia la follia e l’isolamento.

Forse anche edotto dalle opere coeve di Wells ( non a caso uno dei personaggi del romanzo porta proprio questo nome), Verne dopo una vita di esaltazione incondizionata, coglie infine anche il pericolo contenuto nel lasciare libero corso alla creazione scientifica e tecnica.

Perché se è vero che scientia est potentia è anche vero che la potenza – che la tecnica moderna vorrebbe fosse solo costruttiva – può diventare anche distruttiva e mettere in pericolo lo stesso creatore. 

 

 Jules Verne, L’ETERNO ADAMO  1910

Pubblicato postumo nel 1910 è un racconto scritto negli ultimi anni di vita di Verne e rimaneggiato dal figlio Michel. Lo leggo in una deliziosa edizione mignon dell’editore napoletano Coppola.

 Sofr il Sapiente in un fantastico impero d’Oriente dopo aver elogiato i grandi progressi della civiltà nel campo delle invenzioni ma anche della conoscenza sente la necessità di chiarire l’ultimo mistero, quello della origine dell’uomo e della meta del suo cammino. Il Sapiente per trovare la risposta a queste domande supreme avvia delle ricerche nel campo dei fossili che lo portano a sostenere come falsa e insostenibile la tesi popolare di una umanità creata da una volontà superiore: Adamo ed Eva. Durante gli scavi trova un manoscritto in una lingua sconosciuta. Riesce a decifrarlo: è il diario di un ricco francese vissuto molto tempo prima il quale racconta di quando giunse il cataclisma che fece sprofondare il Messico nel mare. Ed egli si trovò, in compagnia di pochi amici, in un isolotto circondato dal mare.

Raccolti da una nave poco prima che l’isolotto a sua volta scompaia scoprono che il continente americano ha subito la stessa sorte del Messico. Spinti dal vento per otto mesi cominciano a cadere nella disperazione: non ci sono più terre emerse, tutto il pianeta è coperto dal mare e non ci sono altri sopravvissuti. Ma i viveri a bordo della nave scarseggiano. La fine anche per loro è ormai vicina quando trovano la sola terra emersa in mezzo all’Atlantico. Qui possono rifocillarsi di tartarughe e molluschi ma l’isola è totalmente arida: non ci sono piante, nemmeno un filo d’erba perché si tratta di una terra emersa dal fondo dell’oceano  a causa del cataclisma, una specie di Atlantide al contrario. Qui restano e cominciano a ricreare la vita attraverso un processo di “terraformazione”. E pensano a quel che potrà essere il mondo futuro.

“Mi sembra di vederli questi uomini del futuro, dimentichi del linguaggio articolato, l’intelligenza spenta, il corpo ricoperto da peli ruvidi, errare in questo deserto.” (p. 98)

Per evitare questo pericolo di involuzione della specie umana il narratore dedicherà gli ultimi anni della sua vita a mettere su carta tutte le sue conoscenze per la società del futuro.

È dunque vero che è esistita un’umanità civilizzata prima di quella precedente, che in qualche modo è sopravvissuta all’estinzione. Questo è il Destino “dell’eterno ricominciare delle cose” (105).

Non sappiamo quanto del  racconto sia realmente ascrivibile a Jules Verne piuttosto che al figlio, di certo però qui l’ottimismo positivista tipico di Verne è superato attraverso questa immaginazione di una ciclica rovina dell’umanità. Ormai nel ‘900 l’ideale ottocentesco delle umane sorti e progressive, il processo lineare di sviluppo della civiltà umana, la macchina inesorabile del progresso, è solo un lontano ricordo.

 

 

I CLASSICI DEL XX SECOLO

 

 

Emilio Salgari   LE MERAVIGLIE DEL DUEMILA 1907

 Sicuramente chi volesse intraprendere quella storia della fantascienza italiana che ancora manca, dovrebbe passare con molta attenzione attraverso questo vecchio romanzo di Emilio Salgari, Le meraviglie del duemila, pubblicato per la prima volta nel 1907 ma scritto tra il 1902 e il 1905. L’autore è ben noto come scrittore per ragazzi, grande iniziatore del romanzo d’avventura ed esotico, pensiamo al ciclo di Sandokan, ai Pirati della Malesia ecc. Non c’è dubbio che in questo contesto di una scrittura commerciale attenta al favore del pubblico si inserisce anche la proposta fantascientifica di Salgari. È piuttosto evidente a qualsiasi lettore attento che Salgari ha ben presente le esperienze di poco precedenti di Wells in particolare, anche se le traduzioni italiane sono più o meno contemporanee.

Altrettanto certo è che la sapiente mano del narratore d’avventura si sente bene anche in questo romanzo di tipo piuttosto descrittivo, eppure coinvolgente e godibile per il lettore.

 La vicenda si snoda a partire da un protagonista, lo scienziato Toby Holker, che ha scoperto le straordinarie virtù di una pianta esotica, capace di indurre uno stato di morte apparente. Egli convince un amico, il nobile ricco e annoiato James Brandok, il quale disgustato ormai dall’esistenza e prossimo a farla finita sente di non aver nulla da perdere e quindi accetta il rischio dell’avventura che gli viene proposta. Bevono dunque la pozione  e vengono chiusi in una specie di sarcofago refrigerato dove resteranno per cento anni per essere poi risvegliati alle soglie del Duemila. In questo modo essi realizzano un vero e proprio viaggio nel tempo. Qui trovano la nuova società avanzatissima, dove si possono spostare servendosi di macchine volanti o di treni ad aria compressa, muovendosi rapidamente dall’America all’Europa, visitando grandi città, e anche città sottomarine. Domina su tutto la forza dell’elettricità, il vero sogno dell’uomo della fine dell’800 e dell’inizio del 900. Energia prodotta soprattutto dai grandi Mulini che sfruttano la Corrente del Golfo.

 I pranzi vengono serviti da una macchina; gli abitanti del futuro sono vegetariani non tanto per scelta ma per necessità, dal momento che tutti i terreni sono coltivati per permettere alla popolazione, aumentata molto nel tempo, di mangiare. Al contempo gli uomini hanno sostituito la carne con una pillola. Gli uomini del Duemila intrattengono positive relazioni con i marziani. Ogni famiglia ha una specie di comunicatore con il quale riceve tutte le notizie del giorno; le città sono pulite da macchine simili ad elefanti. 

Salgari, memore probabilmente dei fatti che hanno caratterizzato la fine dell’800, sogna un mondo liberato dal pericolo dell’anarchia, cioè dell’opposizione degli oppressi, perché infatti  gli anarchici sono confinati al polo nord dal momento che vengono ritenuti un reale pericolo per il mondo  e ora sono costretti a vivere li con le proprie mogli, mentre i figli vengono prelevati e mandati in Europa o in altri continenti a studiare e a rieducarsi. 

Il finale è meno ottimista dell'insieme della narrazione. I due protagonisti infatti soffrono sempre di più la nuova realtà e in particolare vengono travolti dall'energia diffusa nell'aria, nel terreno, in ogni luogo della nuove città del futuro. Fino ad esserne sconvolti e perdere il senno.

 Il romanzo, godibilissimo, risente chiaramente dei grandi modelli, già affermati al tempo, di Verne e H. G Wells, ma dimostra grande maestria nel costruire l’avventura, e non poteva essere diversamente. Certo, come tutta la fantascienza del secolo scorso, lascia in bocca un sapore d'antiquariato, le novità strabilianti allora attese e immaginate, sono state in gran parte superate dalla realtà di oggi, tranne forse per quell’uso esclusivo dell'energia pulita, qui rappresentata dall'elettricità, che resta un progetto irrealizzato del nostro tempo. Su questo siamo indietro e dobbiamo inseguire il sogno di uno scrittore del secolo scorso.
 

Jack London   IL TALLONE DI FERRO   1907

 Il romanzo di Jack London "Il tallone di Ferro" del 1907 è sicuramente il primo esempio di romanzo distopico che prova a immaginare lo sviluppo di una società industriale capitalistica. E vede l'acuirsi tragico delle contraddizioni fra ricchi e poveri, la violenza della classe dominante sulla classe lavoratrice. Memorabili restano le pagine in cui London da una prospettiva socialista racconta la disumana condizione dei lavoratori del suo tempo. Ma altrettanto emblematico il finale che vede l'affermarsi del Tallone di Ferro sulla Rivoluzione sociale. Pessimismo dell'immaginazione che vince sull'ottimismo dell'ideologia.

Non c'è dubbio che il filone della distopia di cui sarà maestro G. Orwell ha in queste pagine uno dei suoi prototipi.

 

 Jack London   LA PESTE SCARLATTA   1912

In questi tempi di pandemia è inevitabile per chi frequenta i territori della distopia ripensare alle tante opere letterarie e cinematografiche nelle quali il movente della tragedia  è appunto la diffusione dei un virus letale. Ma chi ha memoria e amore per i grandi classici dovrà per forza tornare a leggere La peste scarlatta (1912) di Jack London. Perché in quel breve romanzo London getta  le basi di un intero filone narrativo. 

Il romanzo in questione insieme a Il vagabondo delle stelle (1915) e Il tallone di ferro (1908), costituisce il trittico fantascientifico di Jack London, meno noto del suo filone di romanziere d’avventure, ma non per questo meno rilevante.

La peste scarlatta è un romanzo narrato, nel senso che le vicende sono riportate da un vecchio sopravvissuto alla strage portata dal virus della peste scarlatta, ai giovani nipoti di alcuni altri sopravvissuti. Dunque un libro di memoria in un ambiente post apocalittico, una California ricaduta in una condizione primordiale. Il protagonista, un vecchio professore, dopo anni di isolamento assoluto sente il bisogno di raccontare, di ricordare, di confrontarsi e lo fa i ragazzini ignari di tutto, bati in questo nuovo mondo che deve ripartire da capo senza sapere cosa è successo senza conoscere le grandi scoperte dell’uomo che ormai sono sparite dalla realtà e anche dalla memoria. Il romanzo propone un finale aperto dal quale si intuisce che il vecchio, lui uomo del passato,  forse ha ancora qualcosa da insegnare alle nuove generazioni, quelle che ricostruiranno l’avvenire dell’umanità.

La peste come strumento provvidenziale o punizione divina o comunque nemico più forte di qualsiasi essere umano e di fronte al quale l’umanità è costretta  a fare i conti con se stessa, è motivo che si potrebbe ripercorrere attraverso tutta la cultura occidentale, dall’Edipo di Sofocle allIliade, da  Boccaccio a Manzoni, dalla Mary Shelley de L’ultimo uomo al Defoe de La peste di Londra. A pieno titolo La peste scarlatta si inserisce su questa linea inserendovi però una nota tragica, negativa e  pessimistica.

Il romanzo è ambientato a sessant’anni di distanza dalla catastrofe avvenuta nel 2013 in una società dominata dal Consiglio dei magnati dell’industria, una espressione che richiama il profilo della società capitalistica disumana e approfittatrice che London ha sempre avversato. È colpa di questa società se la piaga ha dilagato in mezzo a violenza ed egoismo, invece di essere affrontata con spirito di solidarietà. Ma ormai il danno è fatto. Il genere umano deve ricominciare ma se non sarà in grado di ricordare ciò che accaduto il suo destino sarà segnato, essa sarà condannata a ripercorrere la stessa strada e si ritroverà nello stesso dramma: “Niente potrà impedirlo...la stessa vecchia storia si ripeterà. L’uomo si moltiplicherà e gli uomini si combatteranno. La polvere da sparo permetterà agli uomini di uccidere milioni di uomini, e solo a questo prezzo, con il fuoco e con il sangue, si svilupperà, un giorno ancora lontanissimo, una nuova civiltà. E a che pro? Come la vecchia civiltà si è estinta, così si estinguerà la nuova”. Difficile immaginare esortazione più attuale.

 

Robert Benson   IL PADRONE DEL MONDO   (1907)

Pur essendo una lettura piuttosto pesante per non dire noiosa, il quadro che dipinge Robert Benson in "Il padrone del mondo" (1907) è davvero straordinario. Egli racconta un mondo diviso tra gli Umanitaristio e i Cattolici, i primi hanno adottato una visione radicalmente laica del mondo e si adoperano per cancellare dal pianeta ogni traccia di religione. Adottando però una sorta di culto dell'umanità non privo di connotazioni spirituali e di ironiche imitazioni della retorica religiosa. Il contrasto tra i due mondi diventa guerra e persecuzione. Roma viene distrutta, i cristiani martirizzati, fino al finale apocalittico. Va detto però che l'autore, Benson, è un sacerdote e quindi legge tutta questa realtà distopica da una precisa prospettiva non priva di faziosità. Fatta la tara di questo particolare il libro resta meritevole di essere letto.

 

Alfred Kubin   L'ALTRA PARTE    1908

Alfred Kubin è noto come artista, illustratore e disegnatore boemo del primo Novecento. Espressionista e surrealista, la sua opera è caratterizzata per un tratto allucinato e inquietante, spesso grottesco. Ma è anche autore di un romanzo che appartierne di dirritto alla serie della letteratura Distopica, "L'altra parte" (1908). E' un'opera molto impegnativa, caratterizzata per una prima parte piuttosto faticosa, tipicamente ottocentesca, ispirata essenzialmente al modello del'Utopia, cioè dell'ipotesi di uno stato perfetto, dove regna felicità e benessere. Tuttavia è nella seconda parte che emergono prepotenti tutte le immaginazioni perverse dell'autore, ed è lì che il romanzo si fa capolavoro. Il Regno del Sogno infatti, rapidamente sembra disfarsi, essere travolto da follia, isteria, malattia, ogni cosa finisce per invecchiare rapidamente e distruggersi, così come i rapporti umani e le persone stesse: lotta, violenza, rivolta, l'intera società deperisce e si autodistrugge. E il Demiurgo creatore originario della società perfetta, mostra la sua vera faccia di ibrido di bene e di male, di gioia e di dolore, di creazione e di distruzione. Un finale davvero molto cupo, quanto tristemente attuale.

 

Evgenij Zamjatin    NOI   1920

 Risalendo alle origini della letteratura distopica incontriamo "Noi", capolavoro assoluto del russo Evgenij Zamjatin, opera che risale al 1920 anche se ha raggiunto la meritata fama solo molto più tardi. L'opera appartiene sicuramente a quel filone che ha provato a osservare il nostro mondo proiettandolo in un tempo futuro per saggiarne le svolte disumane che il tempo presente sembra già contenere in sè. Tradizionalmente quest'opera viene intesa come una critica del nascente mondo sovietico, ma come per altro accade anche alle opere più note di Orwell, si tratta di una lettura molto superficiale, in realtà il mondo ultra razionale descritto da Zamjatin, ove si cancella la diversità individuale e si modifica il corpo degli esseri umani per annullare in essi ogni forma di fantasia e ogni "anima" come scrive l'autore, in realtà più che al collettivismo sovietico che pure aveva in sé questo idea normalizzatrice e omologante, il romanzo rivolgere il suo focus polemico il mondo della tecnica, che va oltre le distinzioni est ovest, ma è il vero segreto dell'umanità moderna. E la forza che lasciata andare fuori controllo non potrà che portare l'uomo al disastro che Zamjatin anticipa benissimo. E che abbiamo già sotto gli occhi.

 

Karel Capek   LA GUERRA DELLE SALAMANDRE   1936

"La guerra delle salamandre" (1936) di Karel Capek è un romanzo abbastanza sorprendente, perché si presenta con una scrittura davvero molto moderna, che risente dell'epoca delle avanguardie europee, ma soprattutto perché affronta un tema davvero potente: l'emergere nel mondo di una nuova specie animale, le salamandre appunto, che passano progressivamente dallo stato animale quello di animale addomesticato, e poi di servo, o di lavoratore schiavo, e diventano poi specie che si ribella e pretende i propri spazi e i propri diritti. Il valore metaforico della narrazione è evidente, la formidabile potenza distopico critica è indicata dallo stesso autore nell'introduzione, laddove precisa che il suo romanzo: "Non è una speculazione sul futuro, bensì un riflesso di ciò che è, di ciò che ci circonda".

 

L'ETA' D'ORO (1940-50)


John Windham    IL GIORNO DEI TRIFIDI  1951

 Si potrebbe disegnare una traiettoria davvero straordinaria di varianti intorno ad un tema comune, come accade nel blues, è il caso della distopia della cecità inaugurata da H. G. Wells con il paese dei ciechi (1904) e conclusa - forse - da Saramago con Cecità (1995), fra i due metterei di diritto "Il giorno dei trifidi" di John Windham. Danneggiato, a mio parere da un film abbastanza mediocre, il romanzo di Windham pubblicato nel 1951 conserva invece una sua singolare freschezza. Affascinato dai temi apocalittici, lo scrittore inglese riesce ad affrontarli sempre con una certa leggerezza anglosassone, e a mescolare il tema del non vedere che ha sempre un inevitabile risvolto sociologico, con quello delle piante assassine che porta invece in sè la questione dell'alterità, altro tema essenziale per la fantascienza e sempre rivelatore di una precisa idea della società e del suo futuro possibile. Sicuramente da leggere, magari insieme al suo antecedente e al suo successore, per cogliere le sfumature ideologiche che ogni autore vi ha nascosto.

 

 

John Windham    I TRASFIGURATI  1955

 Pessimo titolo, sia in italiano (I trasfigurati) che nell'originale (The Chrysalids), per un bel romanzo di John Wyndham scritto nel 1955. In un contesto di genere post-apocalittico, lo scrittore inglese dipinge una umanità fatta di piccole comunità di sopravvissuti, totalmente isolate le une dalle altre e profondamente diverse per conoscenze tecnologiche. La comunità i cui vivono i protagonisti, il Labrador, è dominata da una ossessione religiosa che si traduce in una ottusa e violenta paura per il diverso. Tutta la vicenda, che ha per protagonisti un gruppo di ragazzi "speciali", è centrata, infatti, sulla persecuzione e la fuga di questi piccoli innocenti la cui unica colpa è quella di possedere una dote non prevista, la capacità di comunicare con il pensiero.

Cacciati dalla propria gente, catturati da un'altra comunità non meno violenta, i protagonisti vivono dunque la loro diversità come un destino inspiegabile e tragico.

Come spesso accade nella letteratura distopica, non è difficile leggere in controluce nella narrazione una metafora forte della intolleranza nei confronti della diversità, e di ogni deviazione da una supposta normalità che appare chiaramente fasulla proprio nell'incontro/scontro tra gradi diversi di civiltà.

Un libro da far leggere ai ragazzi che vivono con difficoltà il loro essere unici, ma anche agli adulti che ancora non sanno affrontare la diversità e la mutevolezza del mondo.

 

John Wyndham   CHOCKY   1968

"Chocky" di John Wyndham (prima edizione 1968), è un delizioso romanzo breve ambientato in Inghilterra, in cui un ragazzino, Matthew, ha un amico immaginario. Come spesso accade all'inizio sembra soltanto un gioco, ma poi con il tempo cominciano ad avvenire fatti inspiegabili, e Matthew scopre di sapere cose che non dovrebbe sapere o di saper dipingere, o di saper nuotare, e l'amico immaginario diventa un problema. I medici non comprendono e non sanno spiegare il fenomeno. Il lettore invece si rende conto ben presto che quella presenza non è affatto immaginaria, ma si tratta piuttosto di un viaggiatore proveniente da una civiltà più avanzata che vorrebbe attraverso Matthew, instillare nella specie umana il germe della conoscenza, dello sviluppo, del sapere. L'operazione però fallisce, perché evidentemente gli uomini non sono ancora pronti. C'è uno sfondo pessimistico, come spesso accade nel romanzi di Wyndham, che la narrazione, lenta, attenta al dettaglio della quotidianità, molto verosimile, fa emergere soprattutto nel finale. Come sempre da leggere e da pensare.

 

John Wyndham IL POPOLO SEGRETO  1935

 È il primo romanzo pubblicato nel 1935 da John Wyndam pseudonimo di John Wyndham Parkes Lucas Beynon Harris, scrittore inglese celeberrimo soprattutto per Il giorno dei trifidi del 1951.

In quest’opera imita chiaramente il modello dei romanzi ottocenteschi di Verne e Wells, infatti ricorda in molti passi il Viaggio al centro della Terra del francese. Ha quindi un piacevole sapore antiquario gestito però in modo da creare un testo molto gradevole, di facile leggibilità anche se non brillante per originalità.

In Italia il romanzo è apparso col titolo Le onde del Sahara, in Urania n° 56, Arnoldo Mondadori Editore, 1954; e con il titolo Il popolo segreto nella collana Cosmo Oro n° 24, Editrice Nord, 1976.

 La storia di "The Secret People" è ambientata nel 1964 e segue le vicende di un giovane inglese un po’ sbruffone e di una ragazza sulla quale intende far colpo invitandola a un viaggio col suo nuovissimo mezzo: un aereo a razzo. La coppia finisce però per precipitare nel Nuovo Mare, ovvero il mare che dovrà  ricoprire il deserto del Sahara. L’aereo con i due a bordo viene risucchiato in un gorgo e finisce in un mondo sotterraneo abitato da un popolo di pigmei che da generazioni hanno abbandonato il mondo superiore e non ne conservano nemmeno il ricordo.

Imprigionati con molti altri sventurati non hanno alcuna possibilità di uscire perché il rozzo popolo del mondo inferiore non vuole che la notizia dell’esistenza del loro mondo si sappia, i due però insieme a un piccolo gruppo fanno di tutto per fuggire. Ci riusciranno a seguito di una sanguinosa rivolta, e a margine avranno il tempo di innamorarsi.

 Il lieto fine aiuta certo il lettore a godersi la storia seguendo un meccanismo narrativo per niente originale, spiace però che l’autore non abbia sviluppato l’idea del Sahara trasformato in un mare attraverso delle pompe che riversano l’acqua dal Mediterraneo, elemento questo sì originale e interessante che avrebbe potuto dar vita a una narrazione davvero insolita. Probabilmente non era nelle corde di Wyndham oppure ha preferito la via più semplice e più facilmente vendibile sul mercato delle riviste di fantascienza su cui infatti il romanzo apparve per la prima volta. 

Confesso che di John Wyndham ho apprezzato molto di più Il giorno dei trifidi, oppure I trasfigurati ( 1955) o Chocky (1968) perché più problematici e più vivaci dal punto di vista dell’argomento, ma Il popolo segreto resta comunque una piacevole lettura e forse persino uno di quei classici che è bene aver letto.

 

 

  

Isaac Asimov, IO, ROBOT 1950

 Scritto fra il 1940 e il 1950 cioè nel pieno di quella che viene definita L'Età d'oro della fantascienza americana, rappresenta sicuramente una pietra miliare nella storia della fantascienza. Ma appartiene altresì di diritto, per motivi che vedremo, a quella della Distopia.

 Il libro è in realtà una raccolta di nove racconti autonomi anche se vi compaiono dei personaggi ricorrenti, in particolare  Powell e Donovan, collaudatori sul campo della US Robots and Mechanical Men, Inc., il principale produttore di robot della Terra e Susan Calvin robo-psicologa sempre dipendente della US Robots. Uno dei motivi principali della fama planetaria del libro sta nel fatto che qui per la prima volta vengono compiutamente enunciate le famose tre leggi della robotica:

  Prima Legge: Un robot non può recare danno a un essere umano, né permettere che, a causa del suo mancato intervento, un essere umano patisca danno.

 Seconda Legge: Un robot deve sempre obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani, a meno che questi ordini non contrastino con la Prima Legge.

 Terza Legge: Un robot deve proteggere la propria esistenza, purché questo non contrasti con la Prima o la Seconda Legge.

I racconti affrontano da diversi punti di vista le conseguenze delle Tre Leggi sulla vita reale dei robot. Così per esempio in "Bugiardo!" si narra di un robot che per rispettare le Tre Leggi e non ferire chi gli sta intorno è costretto a mentire, fatto che però infrange una delle Tre Leggi e ciò lo porterà all'autodistruzione. Un altro racconto, “Circolo vizioso”  è ambientato su Mercurio nei pressi di una miniera e affronta la conflittualità tra la seconda e la terza delle Tre leggi della robotica. Oppure in Robbie si affronta il complesso tema dell’amicizia tra un umano e un robot.

 "Alfred Lanning si accese il sigaro con cura, ma non riuscì a nascondete il lieve tremito delle dita. Parlando tra uno sbuffo di fumo e l'altro, corrugò le sopracciglia grigie.

«D'accordo, sa leggere nel pensiero, questo è indubbio, perdio! Ma come mai?» Guardò il matematico Peter Bogert. « Allora?»

Bogert si passò entrambe le mani sui capelli neri. «È il trentaquattresimo modello RB che abbiamo prodotto, Lanning. Tutti gli altri erano perfettamente ortodossi.»

Il terzo uomo seduto al tavolo aggrottò la fronte. Milton Ashe era il più giovane funzionario della United States Robots and Mechanical Men Corporation, ed era fiero della sua carica.

«Senta, Bogert, non ci sono stati intoppi di sorta in alcuna delle fasi di montaggio. Lo garantisco.»

Bogert allargò le grosse labbra in un sorriso di condiscendenza. «Davvero? Se lei si fa garante di quanto succede durante tutta la catena di montaggio, direi che merita una promozione. Volendo essere esatti, per mettere a punto un singolo cervello positronico occorrono 75.234 operazioni, ciascuna delle quali, per essere portata a termine con successo, deve fare riferimento a un numero di fattori che può oscillare tra i cinque e i centocinque. Se una qualsiasi di queste operazioni va male, addio “cervello”.»

 Questa storica antologia è stata per decenni un punto di riferimento per la Fantascienza di tutto il mondo perché vi ha introdotto in modo scientificamente attendibile e socialmente accettabile il tema del robot, che pure non era nuovo alla letteratura fantastica, si pensi solo al Frankestein di Mary Shelley (1817) o alla tradizione ebraica del Golem che si è materializzata in molti racconti e nel romanzo di Gustav Meyrink Il Golem (1915). Asimov, dunque, forte degli sviluppi scientifici del XX secolo, realizza il grande sogno del Doppio, mettendo in scena una replica meccanica dell’umano, destinata a liberarlo dai lavori più pesanti, e a fornirgli una servitù senza imbarazzi e senza conflitti. Tuttavia, ed è qui che Asimov supera se stesso, non basta prefigurare il mondo dei robot positronici, quasi indistinguibili per reazioni agli esseri umani, egli infatti apre nello stesso tempo la questione dei rapporti tra gli uomini e le loro macchine. E come in ogni rapporto che si rispetti si aprono questioni etiche importanti. Le Tre Leggi rappresentano dunque il primo tentativo di stabilire una robo-etica, vista dalla prospettiva del robot stesso, di ciò che dal suo punto di vista è giusto o sbagliato nel confronto degli uomini. Oggi lo scenario si è talmente complicato che diventa plausibile una riflessione sulla prospettiva opposta: quali sono i diritti e i doveri dell’uomo rispetto ai robot cioè alla macchine pensanti? Così come ci siamo finalmente resi conto che anche gli animali hanno dei diritti, non  è tanto inverosimile porsi il problema dei diritti dei robot.   Asimov è stato l’anticipatore di questa problematica che abbiamo chiamato appunto della robo-etica, egli vede i pericoli insiti in questo rapporto, i rischi di uno squilibrio tra umani e post umani, le responsabilità che legano il creatore alla sua creatura quando essa sia dotata di sensibilità e capacità razionale. Per quanto la prospettiva di Asimov sia fondamentalmente ottimistica rispetto allo sviluppo della scienza egli non lo è affatto quanto al destino dell’umanità, e non esitò ad affermare, come scrisse nel saggio Grande come l’Universo del  1988: “l’unica cosa certa che possiamo dire oggi sulle nostre attuali conoscenze è che sono sbagliate”: un formidabile aggiornamento del principio socratico del non sapere (non dimentichiamo che Asimov era laureato in filosofia oltre che in chimica). Affidarsi alla scienza anhe per chi ne conserva una immagine ottimistica con tiene in sé rischi infiniti, e infiniute problematiche di natura etica. Asimov che lo insegna, ed è proprio per questo che merita di essere assegnato di diritto alla storia della Distopia.

 

Isaac Asimov  PARIA DEI CIELI   1950

 Il romanzo di Asimov Paria dei cieli (1950)  rappresenta l’ultimo capitolo del Ciclo dell’Impero Galattico (che contempla anche i romanzi Il tiranno dei mondi e Le correnti dello spazio). Si tratta di uno dei grandi classici della fantascienza americana. E resta, a dispetto dell’età, uno dei più godibili.

La narrazione presenta un insolito, per l’epoca, scenario distopico: la Terra è infatti ridotta a un ambiente invivibile, devastata dalle radiazioni conseguenza di una guerra atomica. L’umanità vive ridotta a pochi milioni di terrestri, considerati come reietti dal resto delle civiltà che la dominano e che le impongono una politica demografica spaventosa, all’età di sessanta anni, infatti, ogni terrestre deve essere eliminato.

In questo mondo così difficile si trovano alcuni personaggi molto diversi fra loro: Schwartz, un povero vecchio sarto che è stato catapultato dal passato terrestre a questo futuro incomprensibile per colpa di un esperimento scientifico andato male; Alvardan che proviene dal sistema di Sirio, ed è un archeologo interessato a studiare i reperti dell’antichità terrestre per dirimere una questione scientifica: è vero che l’intera civiltà galattica proviene dalla espansione della razza terrestre?

E poi c’è uno scienziato, Shekt, che con la collaborazione della figlia Pola ha inventato una macchina capace di sviluppare immensamente le facoltà intellettuali di un essere umano. E che sogna di usarla per consentire ai terrestri di rivoltarsi dal giogo in cui si trovano e riprendere un posto dignitoso nel sistema e così liberarsi di questa fama di “paria dei cieli”.

Schwartz, scambiato per un povero demente in quanto disorientato e incapace di comprendere il linguaggio dei terrestri del futuro, viene sottoposto all’esperimento del dottor Shekt e sviluppa straordinarie capacità, impara a parlare, ma sa anche leggere nel pensiero.

Alvardan scopre un complotto ordito dal Governatore terrestre, che vorrebbe lanciare nello spazio un virus al quale solo i terrestri sono immuni, così da  distruggere l’impero galattico e ristabilire il dominio terrestre.

Tutta la parte finale del romanzo è una concitata e appassionante avventura, tra i terrestri in complotto, i tre protagonisti e il Governatore. Non svelerò il finale anche se da Asimov ci si può aspettare sempre una soluzione conciliante e non apocalittica.

Va detto che lo stesso Asimov in seguito ha corretto una fastidiosa caratteristica del romanzo che sembra immaginare una possibile convivenza degli umani con un ambiente contaminato dalle radiazioni. “Allora – scrive nel 1982 – mi sembrava legittimo supporre che la Terra potesse essere radioattiva e che la vita dell’uomo continuasse nonostante tutto. Oggi non lo credo più.”

Negli anni ’50 l’ottimismo statunitense aveva ancora la meglio sulla follia di una possibile guerra atomica. Oggi sappiamo bene che nessuno ne uscirebbe vincitore.

A parte questo particolare il romanzo resta straordinariamente piacevole e avvincente come pochi. Una lettura da non perdere.

 

 

Isaac Asimov, NEANCHE GLI DEI 1972

 Neanche gli Dèi opportunamente ripubblicato ora nella collana Urania di Mondadori appartiene alla fase più matura dell’opera di Isaac Asimov. La prima edizione uscì nel 1972,  dopo i grandi cicli della Fondazione e dei Robot. E mentre in tutte le opere precedenti Asimov aveva scritto sostanzialmente l’apologia della scienza moderna, proiettandola  in un futuro tutto sommato positivo anche se non privo di problemi, con questo romanzo mostra invece come la scienza rischi di essere travolta dagli interessi politici e di potere, dai particolarismi che mettono in secondo piano i rischi anche mortali a cui può dare luogo.

Tutto infatti nasce da una incredibile scoperta: un materiale conosciuto il tungsteno improvvisamente si trasforma in un materiale sconosciuto e scientificamente impossibile, il plutonio 156. Il processo di trasformazione dà origine a una grande quantità di energia. Ciò accade, si scoprirà, perché ci sono dei punti di contatto con un universo parallelo, nel quale si realizza il processo inverso. Entrambi gli universi ricavano da questa trasformazione una formidabile fonte di energia pulita e gratuita.

Tuttavia, uno dei personaggi scopre che il processo contiene in sé un rischio spaventoso, che potrebbe alla fine portare alla distruzione totale dell’universo. Ma  gli interessi di politici e degli scienziati che hanno ottenuto fama e prestigio dalla scoperta, fa sì che il pericolo venga accantonato.

Il romanzo è composto da tre parti perfettamente distinte fra loro. La  prima più tradizionale, ambientata nel nostro mondo, la seconda ambientata nell’altro universo, l’universo parallelo,  e la terza collocata in un ambiente lunare abitato dall’uomo.

Ed è la seconda parte il punto di forza del romanzo. Asimov infatti riesce a descrivere un ambiente diverso da quello umano, senza inutili scimmiottamenti, e senza ingenui travestimenti. L’altro universo è fatto di esseri viventi privi di un vero e proprio corpo, privi  di una vera e propria individualità, la loro singolarità è ternaria, fatta cioè dell’incontro di tre entità differenti, e la loro società è fatta di esseri che si trasformano. Anche qui tuttavia la scoperta del meccanismo che produce energia è usata senza scrupoli sapendo perfettamente del rischio che fa correre all’altro universo. Ma ognuno pensa al proprio destino non a quello degli altri.

La descrizione degli accoppiamenti e delle metamorfosi di questi esseri, è senz’altro il punto più straordinariamente creativo del romanzo.

La terza parte è ambientata come si diceva in un ambiente lunare abitato stabilmente da umani che ormai si sono trasformati per via delle differenti condizioni. Anche qui si discute della scoperta e qualcuno vorrebbe usarla addirittura per liberarsi del gioco della terra e proiettare la luna in un altro spazio.

Il libro alla fine risulta avvincente e imprevedibile come sempre accade in Asimov anche se rispetto ai suoi lavori precedenti qui è più netta la consapevolezza che lo scienziato può nutrire rispetto alle conseguenze delle proprie scoperte. Il futuro non è solo la realizzazione dei nostri sogni tecnologici ma è l’apparizione di problemi oggi impensabili che prima o poi potrebbero metterci in ginocchio. E in fondo è quello che già capita oggi. Allora comprendiamo bene il senso del titolo, che nella sua forma completa replica una formula di Schiller, e appare tragicamente attuale: Neanche gli dèi possono nulla contro la stupidità umana.




IL SECONDO '900


Karin Boye KALLOCAINA. IL SIERO DELLA VERITA’ 1940

 Kallocaina è un romanzo distopico scritto dalla scrittrice svedese  Karin Boye nel 1940. Ambientato in una nazione chiamata lo Stato Mondiale, la storia si svolge in una società guidata da un regime totalitario. È un esempio emblematico della reazione degli intellettuali occidentali all’esperienza sovietica, interpretata come una invadenza intollerabile dello Stato sulla libertà individuale. Su questa lunghezza d’onda troviamo anche le opere di Orwell o di Huxley.

La società immaginata da Boye è appunto una società oppressiva e umiliante, che cerca in ogni modo di ottenere il controllo assoluto sui cittadini i quali sono costantemente monitorati e devono servire lo Stato e obbedire senza mai sollevare dubbi o perplessità. Ogni spostamento e ogni incontro devono essere preventivamente segnalati e autorizzati.

 Il protagonista è Leo Kall, uno scienziato chimico sposato e padre di tre figli che di giorno opera come ricercatore e di sera è costretto a svolgere il servizio militare.

Leo Kall inventa un siero chiamato Kallocaina, che è in grado di indurre le persone a dire la verità senza limitazioni o reticenze. Si spera così non solo di ottenere la confessione da parte dei delinquenti ma anche di controllare i pensieri più reconditi dei cittadini.  Il siero, dunque, viene utilizzato dallo Stato per mantenere il controllo sulla popolazione e garantire sicurezza e stabilità. Tuttavia, esso mette in discussione la privacy e la libertà individuale.

“Capiamo e approviamo – scrive Boye - che lo Stato è tutto, il singolo niente. Capiamo e ci inchiniamo perché la maggior parte di ciò che chiamiamo “cultura” – escludendo le conoscenze tecniche – è un lusso da lasciare ai tempi senza pericoli incombenti (tempi che magari non torneranno neanche più). Quel che resta è l’istinto di conservazione, e il conseguente bisogno di un sistema militare e poliziesco sempre più sviluppato. Questa è l’essenza dell’esistenza dello Stato. Tutto il resto è marginale.” (127)

La trama si sviluppa quando Leo Kall inizia a dubitare del sistema in cui vive e a interrogarsi sulle conseguenze della sua stessa invenzione. Soprattutto quando costringe anche la moglie ad assumerla e si trova così di fronte a un inquietante problema di coscienza. 

Attraverso il suo personaggio, il libro esplora temi come la libertà individuale, la manipolazione del potere e la ricerca della verità. Certo non si tratta di un romanzo ricco di azione o di colpi di scena, anzi il lettore deve affrontare lunghe discussioni, e pagine riflessive decisamente lente. Tuttavia il romanzo se inquadrato nel suo tempo e nel suo contesto risulta sicuramente utile per comprendere un aspetto importante della distopia nel XX secolo, quella suscitata  dal rapporto con le società totalitarie.

 

 

 

Theodor Sturgeon  CRISTALLI SOGNANTI   1950

 Theodor Sturgeon è uno dei grandi scrittori dell’epoca d’oro della fantascienza americana. Noto anche per alcune frasi celebri spesso citate a vanvera; una, la più cinica è quella secondo cui “il novanta per cento di tutto è spazzatura”. Ma Al di là di questo Sturgeon è uno scrittore di qualità. E “Cristalli sognanti” (del 1950) è un romanzo molto ben scritto e capace di catturare il lettore dalla prima all’ultima pagina.

 Il romanzo racconta la storia di Horty, che a 8 anni fugge dalla casa dei genitori adottivi e viene accolto presso il luna park di Pierre Monetre detto il Cannibale. Monetre cova un grande odio per l’umanità e nutre una forte ossessione verso una forma di vita aliena dotata di grandi poteri: i cristalli. Essi sono in grado di duplicare e creare la vita attraverso i loro sogni. Monetre da tempo esegue esperimenti mentali su di essi, cercando di forzarli a creare oggetti, esseri, strani mutanti. Ma al contempo rendendosi conto della difficoltà che incontra è alla disperata ricerca di un “intermediario”, un essere di forma umana che gli permetta di ordinare loro di distruggere il genere umano. Zena, una nana del luna park che conosce le intenzioni di Monetre, intuendo che il piccolo Horty è proprio lui il “figlio” dei cristalli - lo traveste da nana e lo fa chiamare Hortense. Horty si scopre possedere poteri sovraumani di rigenerazione (gli ricrescono le dita della mano), ed è in grado di assumere in pochi giorni le sembianze di qualsiasi altro essere. Ma  Zena teme che Monetre possa scoprirlo, e quindi lo spinge a fuggire dal luna park. Horty decide di vendicarsi del patrigno, il giudice Bluett che lo maltrattava da piccolo. Horty scopre che Bluett da tempo cerca di ricattare Kay, una ragazza del paese, sua amica di infanzia, per ottenere favori sessuali. La ragazza sta per ereditare dai genitori morti e il giudice potrebbe farle bloccare l’esecuzione testamentaria. Horty riesce intelligentemente a salvare la ragazza dalle molestie del vecchio patrigno e a vendicarsene. Ma il fatto mette in moto una complicata serie di vicende che portano al suo smascheramento da parte di Monetre. Non sveleremo il finale molto trascinante.

 Chi conosca i romanzi di Philip Dick troverà in queste pagine lo stesso gusto per i personaggi assurdi e imprevedibili, dotati di qualità straordinarie ma al contempo segnati dal marchio della sventura. Così come del tutto insolito è il ruolo dei cristalli, forse sono alieni, ma di essi non si sa praticamente nulla e restano dall’inizio alla fine sullo sfondo della vicenda. Indimenticabili i personaggi del circo, soprattutto la nana Zena con il suo carico di umanità in un mondo disumano.

In un ambiente culturale dominato da una fantascienza galattica e affascinato dalle avventure dello spazio, Sturgeon ci propone la fantascienza surreale dei cristalli che vivono da milioni di anni sulla terra, sognando e creando, del tutto indifferenti alle vicende umane, privi di una scopo e di un obiettivo che non sia quello della pura creazione. Allo stesso tempo compare una delle questioni più moderne invece della fantascienza di oggi, cioè quella della comunicazione con esseri di natura totalmente differente da quella umana. L’idea che il medium della comunicazione sia nel puro pensiero o addirittura nella dimensione del sogno apre scenari ancora tutti da percorrere.

 

 

Clifford Simak  OLTRE OL'INVISIBILE  1951

 Oltre l’invisibile di Clifford Simak è un romanzo complesso e a tratti oscuro, ma innegabilmente ricco di fascino. D’altra parte una certa fumosità è inevitabile quando si mettono in gioco i paradossi del tempo. Il libro è stato pubblicato per la prima volta nel 1951 con il titolo di Time & Again, enigmatico ma più coerente con la trama.

Il presente è quello del IX millennio, epoca in cui umani e androidi sono in procinto di completare la conquista dell’intera galassia.

Un esploratore, Asher Sutton, è precipitato sul pianeta 61 Cygni, ed è stato dato per morto. In realtà i cygnani l’hanno salvato fornendogli un secondo corpo che gli consente di possedere poteri straordinari che egli stesso scopre un po’ alla volta.

Sutton torna misteriosamente, a bordo di una astronave danneggiata, dopo vent’anni terrestri, ma si trova inseguito da molti che gli danno inspiegabilmente una caccia spietata.

Le complicate vicende del protagonista ruotano intorno ad alcuni snodi narrativi: una lettera di un suo antenato che Sutton ritrova casualmente (ma il caso esiste?); un libro che egli ha scritto nel suo tempo e che sembra avere il potere di cambiare il destino del mondo; un interlocutore invisibile interno; una lotta tra fazioni che si snoda nello spazio e nel tempo, e che coinvolge anche varie generazioni di androidi.

Egli torna indietro nel tempo per ritrovare l'antenato della lettera, con l'intenzione di cambiare lo sviluppo del tempo, ma senza riuscirci. D'altra parte il libro che alcuni vogliono distruggere mentre altri vorrebbero impossessarsene, risulta scritto in una lingua privata che nessuno saprebbe leggere ma che, sembra, potrebbe garantire tre cose all'umanità "Ricchezza, potere e conoscenza. La ricchezza, il potere e la conoscenza dell’universo. Soltanto per l’uomo s'intende. Per una sola specie." (259) Su questo Simak insiste molto, cioè sulla volontà dell'uomo di essere padrone del proprio destino e di imporlo a livello universale, al di sopra di tutte le altre razze e specie animali. Un sogno imperialista. Una niciana volontà di potenza indirizzata all’intero universo.

In realtà tutti questi spunti sono di continuo proposti e poi interrotti, nessuno di essi trova veramente una conclusione o una spiegazione. Per cui la trama nel suo complesso resta molto ambigua e irrisolta, ma allo stesso tempo Simak, si abbandona spesso a pagine di natura lirica, a descrizioni appassionate. Alla fine si resta un po’ delusi perché troppe domande restano senza risposta ma al contempo non si può che restare ammirati dalla quantità di formidabili spunti narrativi concentrati in queste pagine. Molti li ritroveremo ad esempio qualche anno dopo nei romanzi di Philip Dick. 

  

Arthur C. Clarke, LE SABBIE DI MARTE  1951

 Pubblicato nel 1951, cioè ben dieci anni  prima di Jurij Gagarin, questo bellissimo romanzo di Clarke rappresenta una delle testimonianze più eminenti della cosiddetta fantascienza classica, non a caso fu usata in Italia per dare inizio alla gloriosa collana Urania.

La chiave del romanzo è certo racchiusa nella descrizione dei voli spaziali, della colonizzazione del pianeta Marte e del primo tentativo di “terraformazione”.

Il protagonista è uno scrittore e giornalista Martin Gibson, che inviato a partecipare per un reportage, al viaggio inaugurale dell'astronave "Ares" - prima nave di linea regolare fra la Terra e Marte, finisce per restare affascinato dal pianeta e da tutto ciò che vi si sta realizzando.

Marte si presenta in modo assai diverso da come le sonde ce lo hanno mostrato veramente in seguito, qui è un pianeta verde, anche se le piante sono molto particolare per via della mancanza di atmosfera, i coloni vivono sotto delle strutture protette, ma per uscire usano solo una maschera per l’ossigeno.

Gibson incontrerà tra gli altri un giovane simpatico che poi scoprirà essere suo figlio, e che rappresenta in un certo senso il futuro della colonia marziana.

La verosimiglianza di tutto l’apparato tecnologico raccontato in questo romanzo è semplicemente stupefacente e mostra benissimo l’attenzione che Clarke mette in tutte le sue opere alla dimensione tecnica e scientifica. D’altra parte sappiamo bene quanto egli rappresenti l’entusiasmo americano, li sogno della conquista pacifica e produttiva dell’universo compiuto nel nome di una scienza che in definitiva  sempre buona, sempre dalla parte del progresso e degli uomini.

Qui incontriamo un grande progetto chiamato Progetto Aurora che è niente meno che il tentativo di trasformare una delle lune di Marte in un piccolo sole artificiale (attraverso bombardamenti nucleari) in modo da modificare l’ambiente marziano, rendendo possibile la diffusione di piante in grado di produrre ossigeno dalle sabbie. L’esperimento riesce  così il pianeta si avvia ad una nuova vita, per i coloni che lo abitano ma anche per una piccolissima popolazione animale, una specie di canguri discretamente intelligenti e pacifici che il protagonista ha scoperto per caso. 

Lo sguardo di Clarke è costantemente rivolto verso un futuro possibile, di cui la fantascienza rappresenta solo l’anticipazione razionale. Non stupisce allora che  la narrazione avvenga con uno stile costantemente asciutto, descrittivo, realistico, senza troppi fronzoli, e sempre molto accattivante. Si tratta per l’autore di mostrare il possibile non di costruire mondi nuovi immaginari e strabilianti, ma piuttosto di mostrale quali possibilità cu riservano la tecnica e la scienza, se solo riservassimo loro tutta l’attenzione cui hanno diritto. È un mondo di scienziati quello di Clarke dove lo scrittore, ha in fondo il compito del cronista.

Oggi la fantascienza ottimistica e senza problemi di Clarke forse ha fatto il suo tempo, ma di sicuro resta inalterato il piacere della lettura che questo romanzo sa regalare al lettore.


 

Arthur C. Clarke, Le guide del tramonto  1953

 Il romanzo di Arthur C. Clarke, l’autore di 2001 Odissea nello spazio, è un grande classico della letteratura apocalittica. Ambientata alla fine del XX secolola storia immagina l’arrivo degli alieni, tuttavia la narrazione non indulge tanto sulla sorpresa, quanto piuttosto sul singolare comportamento dei Superni, così vengono chiamati (“overlords" nell'originale inglese), i quali per decenni infatti rifiutano di farsi vedere e mantengono i contatti tramite dei colloqui tra Karellen, l’alieno controllore generale e il segretario generale delle nazioni unite. Finalmente dopo cinquant'anni gli alieni si fanno vedere, ed ecco la sorpresa agghiacciante: hanno l’aspetto di grandi diavoli, con le ali e le corna sulla testa. 

Liberata dalla guerra e ricondotta a una unica sovranità la terra si avvia intanto a un periodo di benessere, di ricchezza, di superamento di tutti i conflitti. Unica seria limitazione imposta dai superni: il divieto di viaggiare nel cosmo. 

La narrazione si sviluppa attraverso varie fasi tra loro separate da molti decenni. Si narra allora di un astuto viaggiatore che riesce a infilarsi  in una nave aliena e a far visita al pianeta d'origine dei Superni. Anche se non potrà tornare prima di ottanta anni terrestri. 

Nella parte finale veniamo a conoscere le vicende di una famiglia che vive in una zona particolarmente felice del pianeta, l’isola chiamata Atene, dove sono esaltate le arti e la creatività. I due figli della coppia sembrano però manifestare nel tempo strane facoltà. Veniamo dunque a scoprire che i Superni conoscono il destino dell'umanità, ed è un destino tragico. Gli adulti sono segnati, solo i bambini che manifestano capacità paranormali avranno la possibilità di sopravvivere fondendosi in qualche modo con la Super Mente che è il vero signore di tutti, anche dei Superni. I quali lasceranno la terra ormai annientata, alla ricerca di altri luoghi e altre civiltà. 

 Il romanzo risale al 1953, ma sulla base di un racconto già uscito nel 1950. A detta di molti è il suo romanzo più bello, anche se oscurato nella fama da 2001 Odissea nello spazio per via della trasposizione cinematografica. Siamo veramente agli albori  della fase della fantascienza americana centrata sulla conquista dello spazio ma contiene figure e situazioni che poi saranno ampiamente riprese da altri autori, sia nella letteratura che nel cinema. Ma la cosa che a me risulta più potente è la visione  di cui l’autore riesce a farci testimoni: la visione di un destino comune all’intera umanità, non più divisa, ma unita quanto meno dall'appartenenza dell’umanità ad un destino cosmico più alto al quale non ci si può sottrarre. Il finale oscuro e tragico per l’umanità non è riscattato da nessun elemento positivo o di speranza. Certo alla fine il lettore non può che porsi le grandi domande della metafisica: perché esistiamo? Qual è il nostro destino? Qual è il nostro rapporto con l’Universo. Clarke non ha la pretesa di rispondere, e forse le risposte semplicemente non esistono, ma questo è un altro tema, però ci mostra attraverso la narrazione che un destino comune all’universo esiste e l’umanità ne è parte, sta a noi scoprire quale sia.

Un’ultima considerazione. Clarke oltre che scrittore è scienziato e tecnico, tuttavia qui ci fa vedere in azione forze che la scienza non conosce e non sa comprendere. Ancora senza pretendere di dare risposte impossibili, ci fa intravedere un mondo di cui appena riusciamo a sfiorare la realtà: l’energia misteriosa del pensiero quando esso si articoli in una pluralità, quando si elevi dalla semplice individualità personale. I fanciulli speciali che appaiono alla fine del libro, infatti, hanno perso ogni individualità e sono diventati parte di una energia più alta in grado però di modificare la gravità della terra, di spostare l’assetto della Luna e via dicendo.

 

 

Arthur C. Clarke, 2010: ODISSEA DUE  1982

 Non molti sanno che nel 1982  A. Clarke scrisse un seguito al fortunatissimo 2001 Odissea nello spazio, romanzo nato come sceneggiatura per il film di Stanley Kubrick (1968), col titolo 2010: Odissea due, a questo faranno seguito 2061: Odissea tre (1987) e infine 3001: Odissea finale (1997). È innegabile che l’originalità del primo atto trovi poche conferme in quelli successivi. Ciò non toglie che da questa saga sia ora in produzione una serie televisiva prodotta nientemeno che da Ridley Scott per il canale Syfy.

Ma restiamo a 2010: Odissea due, che a mio avviso resta lo sviluppo più interessante e più ispirato. Clarke in generale ha il merito di una scrittura sempre molto limpida e diretta, senza tanti fronzoli anche quando affronta temi piuttosto oscuri. 2010 è la continuazione diretta del precedente 2001. Nove anni dopo la tragedia della Discovery il cui equipaggio, ricordiamo, è stato eliminato dal computer di bordo Hal 9000 letteralmente impazzito, una spedizione, a bordo della Leonov, viene inviata per recuperare i resti della navicella e far luce sul mistero che ha dato vita all’avventura del romanzo precedente, ovvero l’apparizione di un monolite sulla superficie lunare, e sul suo gemello scoperto su una luna di Giove, Europa.

Un equipaggio misto russo-americano è incaricato dell’operazione. Attraverso complicate manovre riescono a raggiungere la Discovery e lo scienziato che ha creato l’IA di Hal 9000 comincia a rimetterlo in funzione.

Tuttavia s’inserisce nella vicenda lo “spirito” di David Bowman comandante della spedizione precedente che, assorbito dal monolite, ha perso ogni consistenza materiale e sopravvive nella forma di pura energia. Egli riesce  a mettere sull’avviso l’equipaggio della Leonov perché un grande pericolo è imminente. E li invita a lasciare l’orbita di Giove e a tornare immediatamente sulla Terra. Così fanno, appena in tempo prima che il monolite cominci a moltiplicarsi e a fagocitare il pianeta Giove trasformandolo in una nuova stella che illuminerà la Terra togliendole per sempre la notte.

 

In questo secondo atto Clarke sente la necessità di chiarire alcuno aspetti rimasti oscuri soprattutto nel film, molto più noto del  relativo romanzo. Per esempio il motivo per cui Hal 9000 ha fatto strage del suo equipaggio, dovuto ad un contrasto irrisolvibile tra la necessità di portare a termine la propria missione relativa al monolite e l’ordine di mantenere il segreto con i membri dell’equipaggio, oppure la natura del misterioso monolite che appare qui chiaramente come una forma di vita aliena non benevola. Ma certamente quello che emerge più evidente in 2010 è la prospettiva epocale molto più ampia. Qui si profila un catastrofico futuro per il pianeta Terra e per il sistema solare, e le suggestioni psicologiche forti in 2001 trovano una spiegazione pseudorazionale (la trasformazione in forma di energia come superamento della morte del corpo). C’è sullo sfondo il passaggio culturale fra gli anni ’60, epoca germinale ed entusiasmante dei viaggi nel cosmo, e gli anni ’80, in cui l’epopea spaziale ha perso molto del suo fascino e ha fatto emergere le prime contraddizioni nello sviluppo della civiltà umana. 

 

John Christopher  LA MORTE DELL'ERBA 1956)

 La morte dell’erba è un grande, imperdibile, romanzo di John Christopher, pseudonimo di Samuel Youd prolifico autore inglese. Risale al 1956 ed è una delle prime opere nella quale compare l’immagine di una natura che travolge l’umanità in una apocalissi definitiva.

 

Tutto infatti ha inizio da un virus che si diffonde a partire dalla Cina (!) e distrugge l’erba, le piante graminacee, i cereali, frumento, orzo, segale, avena…, quindi anche il cibo per gli animali producendo così una drammatica carestia che coinvolge tutto il mondo. Si arriva a ipotizzare una drastica riduzione dell’umanità. Le autorità inglesi, il romanzo è ambientato in Inghilterra, progettano di bombardare molte grandi città per ridurre drasticamente la popolazione e dare così qualche chance di sopravvivenza ai pochi superstiti.

Un gruppetto di londinesi cerca di raggiungere la fattoria del fratello del protagonista, sita in un luogo ben difeso, in una valle isolata. Tutto il romanzo è costruito su questo drammatico viaggio nel corso del quale si assiste a una tragica mutazione: onesti cittadini, ligi alle leggi e moralmente ineccepibili, presi dal vortice della situazione eccezionale si trasformano per sopravvivere in spietati assassini. Le leggi morali vengono accantonate, assistiamo a scontri armati, a violenze sanguinose, “giustificate” dalla necessità della sopravvivenza.

Giunti dopo mille difficoltà alla fattoria, scoprono che i residenti non sono disposti ad accoglierli, ognuno pensa sé, ogni solidarietà è cancellata, nessuno è disposto a sacrificarsi per gli altri.  Ne segue una vera e propria battaglia per la conquista di uno degli ultimi posti sicuri.

 Il romanzo di Christopher tiene sempre il lettore in tensione ed è sicuramente molto coinvolgente. Tuttavia, vero protagonista non è la rivolta della natura come talvolta si dice, elemento certo presente ma in fondo marginale, al centro è piuttosto la debolezza umana, la fragilità dei suoi valori, l’egoismo di chi è disposto a tutto per sopravvivere. E soprattutto la fragilità delle istituzioni che non appaiono in grado di affrontare le situazioni veramente difficili, lasciando ai singoli individui il compito della sopravvivenza. Il lettore è colpito soprattutto dalla trasformazione dei personaggi: come le persone per bene messe alla prova della situazione estrema possano far emergere tutti gli istinti peggiori, questo è veramente inquietante, perché significa che non possiamo fidarci di nessuno, neanche di noi stessi.

Non so se sia veramente così, ma lo temo.

 

 

Daniel Keyes   FIORI PER ALGERNON  1959

 E' uscito nel 1959 ma è fresco come fosse stato scritto oggi. Il romanzo di Daniel Keyes resta un modello che ha avuto pochi imitatori, e questa forse è proprio la sua dote migliore. Non sarebbe stato facile d'altra parte raggiungere la profondità d'analisi interiore che si sviluppa in queste pagine, e la capacità di scandagliare la trasformazione di un cervello e di un corpo, di una persona che da povero demente diventa un genio. Keyes stesso non è più riuscito nelle altre opere che ha scritto a raggiungere questa perfezione, e Fiori per Algernon resta il suo capolavoro e anche l'opera di una vita. Un gioiello di narrativa distopica.

 

Ray Bradbury IL POPOLO DELL'AUTUNNO 1962 

Non è facile collocare il romanzo in un genere ben definito, qui l’autore spazia dal fantastico al fantasy al surreale. Il titolo originario Something Wicked This Way Comes (Sta per accadere qualcosa di spiacevole) è ancora più enigmatico. E la trama di conseguenza non è facile da sintetizzare, o meglio qualsiasi riassunto sarà inadeguato rispetto allo sviluppo della scrittura, talvolta sognante e poetica, altre volte fredda e tagliente come una lama d’acciaio.

I protagonisti dono due ragazzini di tredici anni, Will e Jim e il padre di Will, un bibliotecario. La  vicenda è ambientata in un paesino di provincia nell'Illinois. Un giorno da un binario morto della ferrovia arriva un treno che porta uno strano circo guidato dal signor Dark, l’Uomo Illustrato, un uomo interamente tatuato, e circondato da fenomeni da baraccone: il Bevitore di Lava, L’Uomo Elettrico, il Mostro Mongolfiera, La ghigliottina del demonio, lo Scheletro, la Strega della polvere.

I ragazzi incuriositi, si avvicinano e scoprono che uno dei nuovi arrivati, è salito sulla giostra che girava al contrario, così come l’organetto suonava anch’esso a rovescio ed è magicamente ringiovanito, un anno per ogni giro di giostra.  Il signor Dark li attira regalando loro dei biglietti gratis per la giostra. I ragazzi impauriti dagli effetti della giostra e di altre attrazioni come il labirinto degli specchi, che mostra come ognuno sarà avvicinandosi alla morte, fuggono inseguiti dal signor Dark. Durante la notte una mongolfiera vola sopra le loro case, dentro il cesto una strega minacciosa, i ragazzi si difendono come possono finché riescono a bucare il pallone.

L’indomani si accorgono che il popolo dell’autunno ha trasformato l’anziana signora Faley in una bambina attirandola sulla giostra. I due ragazzi, ancora braccati dal signor Dark, cercano rifugio nella biblioteca dove il padre di Will prova a difenderli e al contempo si documenta sullo strano circo. Tuttavia i ragazzi vengono raggiunti e ipnotizzati dalla strega della polvere.  Il padre per liberarli dovrà entrare nel circo mentre è in corso uno spettacolo e parteciparvi, offrendosi di sparare alla strega che avrebbe dovuto prendere la pallottola coi denti. In realtà la pallottola è fatta di cera che si scioglie all’atto dello sparo. Il padre di Will riesce a uccidere la strega con uno stratagemma e l’intero circo sembra andare in rovina. L’arma segreta del padre è nient’altro che il sorriso, dal momento che la forza malvagia è alimentata dalla paura e dal male. Il popolo dell’autunno è sconfitto. Ma Jim è morto. Per riportarlo in vita bisognerà creare una situazione di musica, balli e risa felici. È l’antidoto a ogni veleno. I due ragazzi e il padre potranno ritornare a casa sani e salvi.

 Ingenuità, fantasia senza limitazioni, magia, c’è un po’ di tutto in questo romanzo ma c’è soprattutto il piacere assoluto della scrittura che diventa fascino puro per il lettore che decida di entrare in questo mondo imprevedibile.

La narrazione talvolta ha l’andatura di un racconto per ragazzi, ma al contempo presenta pagine più riflessive che pongono, anche se in maniera involuta, la problematica generale che sta sullo sfondo: l’alternativa tra il bene e il male, e la forza segreta, misteriosa, ma stupefacente, che entrambe le possibilità possono determinare negli uomini. Il male fa fare cose orribili, ma il bene ha la potenza di opporvisi. Ed è un insegnamento che dovremmo tenere presente soprattutto in questi tempi di guerra.



Stanislaw Lem   SOLARIS  1961

Reso famoso da due diverse versioni cinematografiche, la prima molto approssimativa di A. Tarkovskij (1972) celebre più per la lentezza esasperante delle immagini che per la profondità de messaggio, e presentato come l'alternativa russa a 2001 Odissea nello spazio, e l'altra più hollywoodiana e poco fedele al testo di S. Soderbergh (2002), Solaris (1961) è in realtà prima di tutto un grande romanzo che offre al lettore emozioni del tutto diverse dalle riduzioni cinematografiche nelle quali si perde completamente la parte riflessiva che invece ne è la caratteristica più originale.  

Sul pianeta Solaris, ai confini dello spaizo esplorato dall'uomo, giunge l'astronauta psicologo Kelvin per indagare sugli strani fenomeni che vi avvengono. I pochi ospiti della base lo accolgono con sospetto, alcuni rifiiuitano di farsi vedere. Solaris è uno strano pianeta, quasdi vivente, in grado di adattare la sua orbita. Lo ricopre interamente un mare misterioso dotato di straordinarie capacità, sa costruire isole, strutture, città, ma sooprattutto inbduce negli uomini proiezioni viventi dei loro desideri inconsci. Ed è ciò che accade allo stesso Kelvin che ritrova la moglie morta suicida annni prima. I tentativi di  comprendere la natura di questo pianeta vivente falliscono miseramente. Il "contatto" al quale ambiscono gli uomini non avviene. Ma il protagonista ha l'occasione di porsi profonde domande esistenziali. 

"Mi avvicinai ulteriormente all'oceano e allungai la mano verso un'onda in arrivo:l'onda esitò, si ritirò e infine mi avvolse la mano senza toccarla, in modo da mantenere una sottile intercapedine tra la superficie del guanto e l'interno della cavità, divenuto istantaneamente da fluido a quasi carnoso. Sollevai lentanente la mano: l'onda o, piuttosto, la sua esile propaggine, la seguì all'insù continuando ad incistarla in un traslucido involucro verde sporco. Mi alzai in piedi per portare la mano ancora più in alto: l'isto gelatinoso si tese come una corda ma senza rompersi, mentre la piatta base dell'onda, come una strana creatura in paziente attesa della fone degli esperimenti, ADERIVA AL SUOLO INTORNO AI MIEI PIEDI, sempre SENZA SFIORARLI."

 La fantascienza di Lem diventa imitazione della scienza contemporanea se non addirittura parodia, nelle dettagliate descrizioni degli studi "solariani", oltre mille volumi di ricerca, di ipotesi e di conflitti teorici, una scienza che nel corso dei secoli ha prodotto tutto il suo linguaggio, le sue tassonomie,  i suoi modelli, e può parlare con naturalezza di oggetti inesistenti, fungoidi, estensori, alberi-montagne, mimoidi, longoidi, simmetriadi, asimmetriadi, vertrebidi, agilus, ecc.

D'altra parte il vero soggetto del romanzo è a sua volta "qualcosa" che non appartiene a nessuna delle forme viventi a noi note, nemmeno a quelle finzionali, ed è per questo che la Scienza nonostante tutta la su potenza appare ioncapace di venirmne a capo. In alcuni passaggi si arriva ad alludere a un  Dio imperfetto e incompleto. Ma non è più che una ipotesi. la realtà è che  attraverso il mare vivente di Solaris e tutte le sue propaggini, l'uomo sembra venire a  contatto con qualcosda di spaventosamente profondo, entità che precedono gli atomi, i neutrini, i quali in qualche modo rappresentano il punto di origine della materia percepta cme un continuu senza salti tra l'organico e l'inorganico: le creature alle quali si dà vita in questo modo, infatti, parlano, pensano, hanno una coscienza, mancano solo della memoria che viene dalla storia individuale che non hanno. La materializzazione della moglie morta del protagonista arriverà al punto di replicare il suicidio. La Materia, dunque, fatta di neutrini, può tradursi in montagne, in isole, o in esseri viventi pensanti. L'astronauta Kelvin in questo modo si trova di fronte al vero segreto della realtà, l'ultimo, il più profondo, il più indicibile di tutti i segreti.  

 

Stanislav Lem  GOLEM XIV  1973

Non sono molti i casi nei quali ci si trova in imbarazzo nel decidere se un libro è un romanzo o un saggio. Lem fa di tutto invece per metterci di fronte ad una ambiguità quasi indecidibile. Golem XIV infatti si presenta come un saggio, curato da due scienziati Irving Creve e Richard Popp che scrivono rispettivamente la Prefazione e la Postfazione, e pubblicato da una casa editrice realmente esistente, la Indiana University Press nel 2047. Ecco c’è questa data a metterci sull’avviso, altrimenti avremmo potuto cadere facilmente nell’equivoco. La narrazione consiste in realtà di due lunghe e complesse conferenze e delle due più brevi sezioni di presentazione prima e dopo, nelle quali è nascosta la “storia” vera e propria. Si tratta di una proiezione in un futuro a noi molto vicino, ma anche all’autore che scrive queste pagine in una prima versione nel 1973.

Dunque tutto ha inizio dalla costruzione dei super computer in grado di avvicinarsi progressivamente all’intelligenza umana. In particolare la serie Golem, arrivata alla quattordicesima versione, rappresenta il più straordinario successo della scienza e della tecnologia, perché si tratta di un elaboratore perfettamente umano, non nella forma ma nell’intelligenza e nella coscienza. È in grado infatti non solo di guidare lo sviluppo della civiltà, ma soprattutto di conversare con gli umani come se fosse uno di loro. Anzi, e qui inizia la storia vera e propria, il Golem XIV ha sviluppato una intelligenza superiore a quella umana e ne è del tutto consapevole. Si sceglie interlocutori particolarmente dotati perché non vuole discutere con intelligenze inferiori.

Il libro contiene appunto due lunghe conversazioni, di fatto monologhi di questa intelligenza artificiale che discute della natura umana, dell’evoluzione e del destino degli esseri umani.

Le discussioni toccano temi molto complessi, ma, è da notare, del tutto verosimili, sono cioè basate su questioni scientificamente valide, non su invenzioni o fantasie. Come se davvero l’Intelligenza Artificiale di Golem XIV fosse di fronte a noi e cercasse di spiegarci cose che noi non abbiamo ancora compreso. Si chiede per esempio come dobbiamo rivedere il nostro concetto di evoluzione per giustificare l’apparizione di una intelligenza artificiale superiore  a quella umana. Fa inoltre notare come l’evoluzione dell’intelligenza in generale abbia avuto bisogno dell’annientamento di infinite generazioni di uomini: dobbiamo allora ammettere che il miglioramento si sviluppa dalla distruzione dello stadio precedente? Domanda pericolosa posta da una Intelligenza che si ritiene superiore a quella umana. Ma d’altra parte, fa notare, gli uomini hanno deificato il cervello, trascurando il fatto che la sua eccezionalità è da cercare piuttosto nel codice.

In generale la prospettiva di Golem XIV è unica proprio perche non è umana, è come se Lem avesse trovato il modo di raccontare l’umano osservandolo dall’esterno. Dal punto di vista di Dio.

C’è da notare che tutte le argomentazioni e le citazioni sono molto corrette sia dal punto di vista filosofico  che da quello scientifico. E quindi, pur essendo in alcuni punti abbastanza oscure e di non facile decifrazione, pongono questioni che da tempo impegnano il dibattito intorno alla natura umana e al suo declino. In queste pagine, infatti, è facile trovare una anticipazione di certi temi attuali, per esempio la questione del post-umano o del trans-umano, la questione del punto di distinzione tra uomo e macchina, e del rapporto che possiamo instaurare con macchine sempre più potenti e autonome. 

Una lettura non facile, dunque, inadatta a chi preferisce l’avventura e l’azione, ma sicuramente stimolante per chi invece ami anche riflettere e porsi domande universali e decisive.

 

Stanislaw Lem  FEBBRE DA FIENO 1975

 In Febbre da fieno (1975) Lem supera con un balzo le distinzioni rigide tra i generi. Il romanzo riproposto oggi da Voland con una bella traduzione di …... infatti  è allo stesso tempo un giallo classico, perché c’è un cospicua serie di morti inspiegabili e la ricerca di un assassino, ma sembra anche una distopia almeno nel clima inquietante che caratterizza ogni ambiente, e un testo di riflessione.  

 Il protagonista è un astronauta a fine carriera, per altro affetto da una fastidiosa allergia, appunto la febbre da fieno. C’è chiaramente dell’ironia in questa scelta, come a voler mostrare un ingrediente tipico della fantascienza fuori contesto.  

Egli è coinvolto in un esperimento che appare fin da subito abbastanza strano, deve ripercorrere puntualmente alcune vicende di vita di una delle vittime per cercare di comprendere come l’introvabile assassino possa aver agito. Tutto accade tra Napoli e Roma nella prima parte, e poi a Parigi nella seconda.

L’astronauta effettivamente riesce a ricostruire tutti gli spostamenti  e le attività del suo alter ego, e costruisce mentalmente l’insieme delle ricorrenze che caratterizzano tutte le vittime, essere maschi stranieri a Napoli, soffrire di allergia, fare bagni termali, ecc. Vien da pensare che vi sia un serial killer che si diverte ad avvelenare le proprie vittime molto lentamente fino a portarle alla morte o al suicidio. Ma la ricerca non porta all'identificazione di alcun sospetto. A Parigi il protagonista viene associato a una intera squadra di scienziati e ricercatori supportati da un potente computer. 

Solo nel momento in cui egli stesso si trova a vivere le stesse sensazioni, lo stesso “avvelenamento” delle vittime, salvandosi però in extremis, solo allora emerge il vero omicida. Che non è un essere umano ma  è propriamente il Caso. Tutte le vittime infatti sono state uccise da un insieme di circostanze che si sono inevitabilmente realizzate secondo la legge statistica dei grandi numeri. 

Le riflessioni di natura logica, e le considerazioni intorno al Caso e al Destino rappresentano alcune delle pagine più belle scritte da Lem che notoriamente ha una spiccata vocazione filosofica personale. 

Lem è un fenomeno letterario che solo oggi ottiene tutto il riconoscimento cui ha diritto, nemmeno la realizzazione cinematografica del suo capolavoro Solaris, infatti è riuscito a strapparlo dall’ombra, probabilmente a causa del fatto di essere polacco, in un ambiente quello della fantascienza, che è stato per molti anni terreno esclusivo degli scrittori di lingua inglese.  

Ma nelle sue pagine dimostra una straordinaria capacità di mescolare in perfetta sinergia gli sviluppi narrativi, gli intrecci con l’analisi e una riflessione che pone questioni di ampia rilevanza senza la pretesa di risolverle, ma costringendo il lettore ad un lavoro di riflessione personale. Non si esce da questo libro senza porsi una questione capitale: qual è il ruolo della casualità nelle vicende umane? E’ una domanda antica  e per  niente banale che merita ancora di essere posta. 

 

 

Philip K. Dick, LA CITTA' SOSTITUITA  1957

 La città sostituita (1957, ma scritto nel 1953) è uno dei primi romanzi di Dick e lo si percepisce bene. Perché è un romanzo ancora molto lineare, senza quel labirinto di intrecci che caratterizzerà i romanzi successivi. Qui ancora l’autore sembra incerto tra la fantascienza e il fantastico, in certi punti perfino fantasy. Lo si coglie fin dal titolo originale The cosmic Puppets con quella allusione alle marionette che dà un sapore quasi infantile per altro giustificato dal fatto che alcuni dei personaggi sono appunto ragazzini. D’altra parte si tratta pur sempre di un romanzo di Dick e quindi non è difficile cogliere già qui alcune delle sue ossessioni che poi diventeranno decisive in seguito.

 La storia in sé sembra abbastanza semplice: Ted Barton decide di tornare dopo vent’anni di assenza al suo paese natale. Lo spingono un po’dì di nostalgia e il desiderio di rivedere i luoghi della sua infanzia. Ma con grande sorpresa si rende conto che la sua vecchia città non esiste più, non è semplicemente cambiata è proprio diversa, strade, case, giardini, non c’è più nulla di quel che ricordava. La tranquilla cittadina di provincia sembra del tutto cambiata. Poi però le cose cominciano a farsi misteriose, perché scopre leggendo vecchi ritagli di giornale di essere morto di scarlattina all’età di nove anni. Ma ancor più sconcertante è la scoperta di non poter lasciare la città. A quel punto tutto scivola nel fantastico. Due ragazzini Peter e Mary con poteri straordinari, capaci di far animare dei pupazzetti d’argilla, i golem, capaci di comunicare con gli insetti, coi topi, coi serpenti. I due sono in lotta fra loro  per la conquista del potere nella città. Poi d’improvviso compaiono gli Erranti, sorta di fantasmi che passano per i muri delle case. E poi ancora due figure incredibili, immense, che si confondono con la terra, il cielo, il sole: da  una parte Ormzad e dall’altra Ahriman, il Bene e il Male. È su questa lotta che il romanzo si conclude, lasciando però alla fine lo spazio per un insolito, almeno per Dick, lieto fine.

 Le ossessioni mistiche sempre presenti in Dick, il contrasto universale tra il Bene e il Male, i poteri fuori del comune, sono tutti elementi tipici della narrativa dickiana. Qui sono inseriti nell’atmosfera della provincia americana nella quale i negozi di ferramenta, l’emporio, il fabbro, sono letti come una superficie che nasconde un’altra dimensione. È questo il gioco di specchi affascinante che Dick mette in scena (non dimentichiamo che il primissimo titolo del romanzo era A Glass of darkness, Uno specchio di tenebre): un’altra dimensione, un’altra realtà sottostante quella banale e comune che si vede. C’è un altro mondo sotto questo mondo, sembra essere il suggerimento dell’autore, ma in ogni caso, in questo mondo come in ogni altro, è sempre e comunque la battaglia tra il bene e il male che guida le sorti del nostro destino.

 

Philip K. Dick  DOTTOR FUTURO  1960

 Il romanzo Dottor Futuro (titolo originale Dr Futurity del 1960) è sicuramente , a mio modo di vedere, uno dei più originali e divertenti dei tanti romanzi dickiani anche se non è scevro dalle solite caotiche capriole nella trama, per altro in parte inevitabili visto che il tema è quello dei viaggi nel tempo e sappiamo bene che in questo campo i paradossi che si aprono sono infiniti.

 Il protagonista è Jim Parsons, un medico che improvvisamente coinvolto in un incidente d’auto si trova catapultato in una realtà futura. La prima parte del racconto è volta alla descrizione di questa strana società futura nella quale i maschi sono tutti sterilizzati e le nascite avvengono in modo artificiale, secondo un principio in base al quale il numero degli esseri umani viventi è sempre lo stesso, per cui ad ogni morte si mette in cantiere una nascita. Una forma di eugenetica conservativa gestita da una autorità centrale. Parsons scopre di essere stato  prelevato appositamente con lo scopo di riportare in vita un individuo morto trentacinque anni prima e conservato in una criostruttura. Perché nella società futura i medici sono stati cancellati, la morte è accettata senza alcuna remora, e persino prodotta senza scrupolo e senza pietà.

Egli dunque riesce a riportare in vita l’uomo e scopre che si tratta del capo di una specie di setta, un gruppo di persone che vorrebbero cancellare il predominio dei bianchi sul mondo americano. A questo fine hanno progettato di uccidere Francis Drake che nel XVI secolo ha imposto il dominio britannico sui territori del nord America.

Avendo scoperto il modo per muoversi liberamente nel tempo con delle apposite navicelle, l’individuo ha infatti cercato di uccider Drake ma è rimasto a sua volta ucciso da una freccia.

Parsons accompagna una spedizione che torna al momento della morte e scopre di essere stato lui stesso la causa del decesso.

Qui cominciano una serie di spostamenti avanti e indietro nel tempo attraverso i quale Parsons cerca di salvare se stesso. Non sveliamo tutti i risvolti narrativi e i tentativi davvero imprevedibili di manomettere il corso degli eventi, possiamo però rivelare che alla fine il nostro protagonista riuscirà a tornare a casa nella San Francisco del suo tempo.

Il futuro disegnato da Dick va detto, ha qui qualcosa di davvero inquietante, la perdita del senso della morte e della vita mostra un esempio, uno dei tanti, di società perfetta ma invivibile, alla quale egli sembra contrapporre una dinamica di rapporti imperfetta, il protagonista avrà alla fine due famiglie, una nel presente e una nel futuro, ma umana.

L’altro filone della narrazione introduce quasi una contro storia, l’idea cioè che il predominio dei bianchi colonizzatori a danno dei nativi sia fondamentalmente un atto di ingiustizia che meriterebbe di essere sanato, è molto insolita per l’epoca, ricordiamo che il romanzo è stato scritto alla fine degli anni ’50, quando una certa sensibilità rispetto ai nativi era ancora ben lungi dall’apparire e dominava invece l’epopea western del colonizzatore buono contro gli indiani cattivi.

Anche in questo caso Dick getta un seme che poi non si preoccuperà molto di far crescere. Ma si sa i semi, anche sotto la terra, prima o poi germogliano.

 

Philip K. Dick, MR LARS SOGNATORE D'ARMI  1964

Continua il mio progetto di una lettura integrale di tutta l’opera di Philip K. Dick con questo romanzo del 1964, il cui titolo originale è assai diverso dalla versione italiana: The Zap Gun, espressione piuttosto oscura  che indica nella tradizione fantascientifica americana la pistola a raggio, un’arma del futuro che ha un ruolo particolare nella parte finale della narrazione.

Lo stesso Dick nel valutare questo suo lavoro distingueva una prima parte piuttosto confusa e una seconda molto più avvincente. Il lettore non può che concordare.

All’inizio infatti, non è ben chiaro lo sviluppo della narrazione, che vede protagonista Lars Powerdry un creatore di nuove armi che progetta cadendo in una specie di trance, un sonno profondo durante il quale vede e disegna i nuovi strumenti di guerra. Compare ben presto una antagonista Lilo Topochev, giovane ragazza dell’est che sembra ottenere gli stessi risultati  e in qualche caso addirittura anticipare Lars nelle sue invenzioni. Di fronte a un pericolo drammatico per l’umanità, l’arrivo di una flotta aliena che annienta una alla volta le grandi città del pianeta, Lars e Lilo sono chiamati a collaborare, a unire le forze per trovare un’arma in grado di sconfiggere gli alieni. 

Alla fine l’arma viene trovata, anche e in modo bizzarro, in un giuoco, La Creatura nel Labirinto, in grado di annebbiare le menti di chiunque, anche di un essere alieno.

Nell’intreccio si inserisce la storia d’amore di Lars e Lilo, resa più complessa dall’apparizione di un’amante parigina di Lars che finirà uccisa dalla stessa pistola con cui minaccia la rivale Lilo.

D’altra parte l’ambigua giovane russa tenta più volte di uccidere Lars in un groviglio di sentimenti inestricabile, fedele specchio della confusione affettiva dello stesso Dick.

Ma nella trama compaiono anche i vertici militari russi e americani rappresentati da due generali che giocano con i destini del mondo e dei personaggi come dei bambini giocherebbero con i propri giocattoli.

A complicare ulteriormente la trama si aggiunga la profusione di sigle, di acronimi, di neologismi ( i purioti, i beconsi, i santocci, i santori…) che ben si accoppiano con i numerosi infantilismi piazzati da Dick quasi a voler ribadire al lettore una fondamentale origine ludica di tutta la grande politica mondiale. Il gioco è infatti, a mio avviso, il vero protagonista nascosto di tutto il romanzo.

La parte finale in questo senso ruota intorno a quel divertimento da ragazzi, La Creatura nel Labirinto, nel quale una essere minuscolo cerca inutilmente di trovare l’uscita da un mondo labirintico ma nello sforzo porta i giocatori alla follia. Un gioco che rappresenta insieme la più straordinaria arma inventata dagli esseri umani e una folgorante metafora del potere.

In un mondo ancora dominata dalla guerra fredda Dick, per sua natura antipolitico, legge la realtà come un groviglio di infantilismi, di situazioni grottesche , di ossessioni paranoiche, di storture e di insensatezze. Perennemente preda di complottismi e di possibilità assurde, i suoi personaggi paiono tutti marionette, pezzi di un gioco che sfugge al controllo. Quello di Dick è un mondo dove i livelli di realtà sono definitivamente scompaginati.


 

Philip K. Dick,   NOI MARZIANI    1964

Scritto nel 1964 Noi marziani mette in scena un’ambientazione tipicamente fantascientifica, la vita su Marte. Tuttavia al di fuori di ogni trionfalismo, la situazione del pianeta è quella tipica del nostro pianeta, traffici confusi e illegali, contrabbando, speculazioni. Ed è proprio dal cinico affarista Arnie Kott potente capo del sindacato degli idraulici che si sviluppa la storia, dal suo desiderio di mettere mano su certi terreni e di controllare le risorse idriche del pianeta. Né Jack, il protagonista, né gli aborigeni marziani, i Bleekmen, possono fare qualcosa contro l’avidità dello speculatore. Ma in realtà tutto ruota intorno ad un bambino autistico Manfred, dotato della straordinaria capacità di vivere in un altro tempo, o meglio di vedere nel futuro. Proprio da questo dipenderebbe la sua incapacità di rapportarsi con le persone. Capacità che un altro imprenditore senza scrupoli, Leo Bohlen intende sfruttare per una speculazione edilizia.

Il conflitto tra i cinici faccendieri Leo e Arnie è dunque solo lo sfondo, il vero interesse di Dick va chiaramente alla figura del bambino autistico, e l’interesse per il tema della follia, della schizofrenia, della malattia mentale sembra essere  quello che cattura più profondamente l’autore e che sovrasta una fitta trama di personaggi e di vicende difficile da riassumere.

Il romanzo ha il suo culmine nell’omicidio di Arnie, ma soprattutto nella riapparizione di un Manfred anziano tenuto in vita artificialmente da un complesso macchinario, che sembra aver ormai preso del tutto consapevolezza della sua capacità di muoversi nel tempo.

Come sempre il lungo romanzo di Dick è infarcito di momenti, personaggi, vicende, non sempre essenziali. Come nel suo stile è difficile indicare il centro propulsivo della narrazione, e l’ispirazione dello scrittore pare continuamente spostarsi da un capo all’altro delle vicende e dei personaggi. Ma chi ama Philip Dick lo sa, l’autore più che narrare una storia rappresenta un mondo, e alla fine ciò che resta è la sensazione di profonda desolazione : la Terra è invivibile,  ma anche su Marte si sono replicate le stesse condizioni che hanno portato alla rovina il nostro pianeta. I sentimenti dominanti sono sempre negativi, fatta eccezione per il bambino autistico, il solo che dall’alto della sua distanza e della sua incapacità di comunicare sembra restare in contatto con la natura più autentica e profonda dell’uomo. Non a caso alla fine ricomparirà insieme ai Bleekmen, gli aborigeni marziani sterminati dai colonizzatori.

Il protagonista anch’egli ossessionato dalla schizofrenia, risulta sempre debole e incerto fondamentalmente estraneo a ogni possibilità di affermazione o di redenzione.

Noi marziani, non è forse il miglior romanzo di Dock ma certamente è un tassello fondamentale per comprendere a fondo le sue ossessioni. 

 

Philip K. Dick  Le tre stimmate di Palmer Eldritch 1964

 Sicuramente Le tre stimmate di Palmer Eldritch scritto da Philip Dick nel 1964, anno tra i più fecondi della sua carriera, rappresenta uno dei vertici della magmatica e inarrestabile creatività dell’autore.

Qui è particolarmente distopica l’ambientazione: il mondo circostante è ormai invivibile, la Terra soffocata da una temperatura che la rende invivibile e bombardata da un sole assassino, ma anche Marte appare come uno sterile deserto rosso abitato da esseri umani stravolti rinchiusi nei loro tuguri e costretti, quasi condannati, ad adattarsi a un simile ambiente impossibile.

E l’esistenza delle persone non appare meno devastata. Domina un oscuro sentimento di sconfitta. Unica via d’uscita la droga. In questo inferno capitalista, dominato dagli affaristi, dalla speculazione, dalla trasformazione dei cittadini in clienti, si fronteggiano due forze, entrambe maligne: da un lato Palmer Eldritch, quasi un cyborg, con gli occhi artificiali, un braccio meccanico, i denti metallici, il quale porta da sistema di Proxima una nuova sostanza allucinogena, il Chew-Z che vuole imporre sul mercato ai danni dell’altro capitalista spietato Leo Bulero giù monopolista di un’altra droga il Can-D che ha l’effetto di immedesimare coloro che lo assumono con due personaggi di finzione, due bambolotti in un plastico che possono vivere la vita spensierata di una coppia ricca e felice in un ambiente idilliaco.

In questo contesto il protagonista Barney Mayerson, prima aiutante di Bulero, poi per un ricatto, restio collaboratore di Palmer Eldritch, viene scaraventato su Marte e resta preso dall’effetto del Chew-Z che tra l’altro deforma completamente l’assetto temporale dell’esistenza e rende alla fine del tutto incapaci di distinguere la realtà dalla finzione.

A questa ossatura narrativa vanno associati molti materiali di contorno, le avventure sessuali di Barney, le terapie di espansione chimica del cervello per realizzare esseri umani super intelligenti, la capacità di Palmer Eldritch di assumere qualsiasi forma, i poteri pre cognitivi di Barney ma soprattutto l’afflato mistico che domina tutta la parte finale del romanzo. Palmer Eldritch infatti finisce per assumere, e non è chiaro se si tratti di ironia o di persuasione, tutte le forme, è capace di occupare ogni luogo, di muoversi liberamente nello spazio e nel tempo assumendo la natura di uno spirito santo capitalistico, che vende una merce di cui non si può fare a meno a degli esseri umani ormai privati di qualsiasi capacità di raziocinio, incapaci di difendersi in questa lotta tra le forze del capitalismo in cui le persone non sono altro che una nuova merce di scarto in un processo consumistico che, da sempre, è uno dei bersagli della narrativa dickiana.

Le tre stimmate di Palmer Eldritch come le chiama l’autore, la mano morta, artificiale, gli occhi a fessura, la mascella deforme, ci suggeriscono infatti una sua beatificazione. Parlando proprio della “cosa” Palmer Eldritch, che non è più solo umano, due personaggi affermano:“Quella cosa ha un nome che riconoscereste se lo pronunciassi. Anche se non userebbe mai qual nome per sé. Siamo noi ad averla chiamata così. Per esperienza, a distanza, nell’arco di migliaia di anni. Ma prima o poi dovevamo trovarcela davanti. Senza la distanza. O gli anni.

Ti riferisci a Dio?

Non gli parve indispensabile rispondere, tranne che con un leggero cenno del capo.”

Difficile immaginare una conclusione più impegnativa di questa.

 

 

Philip K. Dick, CRONACHE DEL DOPOBOMBA  1965

 Considerato dalla critica uno dei romanzi più riusciti di Dick, Cronache del dopobomba (1965) certamente rappresenta uno dei vertici della sua capacità di mescolare e ibridare generi e modelli, senza farsi mai ingabbiare dalle formule classiche della Fantascienza, né da quelle del Fantasy o del racconto fantastico o di magia. Dick si trova sempre un passo oltre, un passo al di là, o al di qua, di ogni genere.

Il motivo ispiratore del romanzo è l’angosciante senso di catastrofe ispirato dal pericolo atomico, percepito in quegli anni come costantemente imminente e reale.

L’inizio infatti racconta proprio l’evento dell’apocalissi atomica che mette in ginocchio l’intera civiltà americana e la costringe a una lenta e faticosa ripresa. I sopravvissuti uomini e animali subiscono mutazioni imprevedibili. Compaiono, uno dopo l’altro personaggi bizzarri e inquietanti: topi che suonano il flauto con il naso e che sanno tenere la contabilità di un’azienda, cani che parlano, anche se restano piuttosto ingenui e sempliciotti; e poi c’è Hoppy un giovane focomelico privo di braccia  e di gambe ma dotato di poteri straordinari, assassino quando serve, imitatore di ogni voce, intrattenitore; e una bambina che porta dentro di sé un fratellino mai nato, Bill, con il quale intrattiene lunghe conversazioni e che a sua volta è dotato del potere di sentire la voce dei morti, ma anche di quello di trasferirsi in altri corpi; e ancora c’è un uomo di colore, venditore di trappole intelligenti per animali selvatici. Su tutti domina la figura di Walt Dangerfield, un astronauta rimasto bloccato nella sua capsula dall’evento nucleare, impossibilitato a tornare e costretto a ruotare all’infinito intorno al pianeta. La sua compagna non ha resistito e si è data la morte, lui continua a girare, pur ormai molto provato fisicamente, trasmettendo al pianeta musica classica e qualche amara considerazione personale, come una specie di Dj cosmico.  E ancora c’è l’ironica macchietta dello psicanalista Stockstill che cerca di curare a distanza il povero astronauta con le libere associazioni. C’è soprattutto Blutgeld, lo scienziato pazzo che si ritiene responsabile dell’olocausto nucleare e nella sua completa paranoia sembra volerlo replicare. E poi una pletora di altri personaggi che esiteremmo a definire “normali” visto che l’intera narrazione sembra essere segnata da quella sensazione  “perturbante” che Freud ci ha insegnato a leggere come un l’ombra inquietante della normalità.

L’ambiente è quello post apocalittico. Una società  che finge una impossibile quotidianità, dove il denaro ha lasciato il posto al baratto, le auto si muovono trainate da cavalli, e gli esseri umani sopravvivono in piccoli gruppi stretti attorno alle loro poche cose, ai loro riti di sopravvivenza, apparentemente senza un potere centrale, senza una precisa articolazione della giustizia e della vita pubblica. 

In un certo senso sembra proprio la normalità ciò che tutti cercano, dalla prima scena che fissa il momento che precede l’esplosione, all’ultima, nella quale i personaggi positivi della storia cercano di ritrovare un modus vivendi pacificato.

Magmatico, imprevedibile, fuori scala rispetto a ogni aspettativa, il romanzo di Dick spiazza continuamente il lettore. Mai prevedibile, mai scontato, non c’è una trama riassumibile in modo piano, c’è una continua narrazione di fatti, personaggi, dialoghi, che costringe il lettore a entrare in un mondo, a osservarlo, stupito e talvolta infastidito dalla inconciliabile dissonanza della realtà.

 

Philip K. Dick, ILLUSIONE DI POTERE  1966

Nel vasto panorama dei romanzi di Philip K. Dick, Illusione di potere (1966) non è certo al vertice, eppure la forza narrativa, la creatività, l'imprevedibilità del grande creatore di mondi immaginari compare anche qui e lascia il segno.
Il protagonista Eric Sweetscent medico specializzato in trapianti lavora al servizio di un uomo ricchissimo che a furia di interventi è già arrivato a centotrenta anni. E' ossessionato da una moglie insoppportabile che fa uso massiccio di droghe. Vivono in un'epoca travolta dalla guerra tra terrestri, stariani, che sono simili ai terrestri e reeg che hanno invece forma di insetti. A dispetto delle apparenze però gli stariani sono avidi, feroci e disumani, molto chiaramente nazisti, mentre i reeg sono tranquilli, pacifici e umani.
La vicenda si snoda a partire dall'uso di una nuovissima droga che ha effetti terribilmente tossici ma consente di viaggiare nel tempo. Il protagonista si trova a curare il Segretario delle Nazioni Unite, massima autorità terrestre, Gino Molinari, un dittatore da operetta, chiaramente ispirato a Benito Mussolini, che avendo abusato della droga è gravemente malato ma riesce a sfruttare altre versioni di se stesso recuperate da altre dimensioni spazio temporali.
Spicca chiaramente nel romanzo il fatto che nessuno vi appaia come personaggio positivo oltre al protagonista, e paradossalmente un taxi robot che è anche l'unico con cui Eric riesce ad avere una conversazione umana. Le pagine più travolgenti sono forse quelle in cui entra in gioco la droga allucinogena, certo anche per l'esperienza personale di Dick, ma tutto il romanzo gioca sul rapporto tra presente e passato, tra dimensioni temporali diverse e diverse versioni della realtà, in un intreccio vertiginoso e indistricabile.
Alla fine il protagonista che cerca di orientarsi in questo labirinto senza riuscirci si riscatta solo per via di un finale accento di umanità: restare ad accudire la moglie che nel frattempo è impazzita.
Quel che Dick non ha fatto nella realtà, come sappiamo. Forse è per questo che egli ebbe sempre un rapporto difficile con questo romanzo che gli indicava la via che nella vita non era riuscito a seguire. 

 

Philip K. Dick, GLI ANDROIDI SOGNANO PECORE ELETTRICHE?  1968

 Vorrei provare a fare una recensione di questo romanzo senza alcun riferimento né diretto né indiretto al film che lo ha reso celebre ma allo stesso tempo ne ha, secondo me, un po’ offuscato la complessità che è invece il suo tratto distintivo, come sempre per altro accade nelle opere di Philip K. Dick.  

Il romanzo infatti si gioca su diversi piani, ne possiamo individuare almeno tre ben distinti: c’è prima di tutto la storia del cacciatore di androidi Rick Deckard e del gruppo di androidi fuggiti da Marte che egli deve annullare. In realtà, nonostante le cautele linguistiche (si parla sempre di “ritirare”, mai di eliminare) di fatto l’azione non si distingue da quella di un vero e proprio assassinio.  Ma la narrazione si gioca su una profonda e complessa ambiguità. Perché Rick Deckard finisce per andare a letto con l’androide Rachel una donna bella e intelligente, rassegnata essenzialmente al proprio destino. E poi c’è un problema che si ripete continuamente: come identificare l’androide? Essi sembrano umani in tutto e per tutto, ci sono solo due tecniche di riconoscimento, non perfette, evidentemente, entrambe basate sul fatto di  riconoscere nell’androide una assoluta impossibilità di provare sentimenti di empatia nei confronti degli altri. Dunque ciò che distingue l’umano dall’artificiale è soltanto questo: saper provare empatia, ma gli androidi dell'ultima generazione sono così sofisticati che ogni prova è dubbia. Ne abbiamo il sospetto dal racconto di una vicenda collaterale, quella del povero John Isidore, un “cervello di gallina”. Perché bisogna precisare: la società del futuro che qui viene descritta è una società divisa rigidamente tra persone dotate e persone che hanno un “cervello di gallina” come viene più volte ribadito, quasi si trattasse di una diagnosi clinica. John Isidore nella sua semplicità e immediatezza aiuta gli androidi in fuga senza farsi troppe domande. Egli non si preoccupa che siano umani o meno, prima di tutto perché “sembrano umani”. E su questo si gioca l’ambiguità. 

 C’è però anche una seconda linea tematica, quella che riguarda il bizzarro rapporto con gli animali. La società, inquinata profondamente, ha determinato l’estinzione quasi completa delle specie animali, ma al contempo ha imposto che ogni umano si faccia carico di un esemplare animale. Ed è un punto di onore e di distinzione. Chi non può permettersi un animale vero si accontenta di uno meccanico:  nel caso del nostro Rick Deckard si tratta infatti di una pecora elettrica (ciò spiega in parte il senso del titolo). Rick si darà tanto da fare nel cacciare gli androidi proprio per poter guadagnare abbastanza da poter acquistare un animale in carne e ossa, cosa che poi accadrà. Egli diventerà proprietario di un capra. L’animale però farà una brutta fine, verrà uccisa da uno degli androidi che vuole colpirlo in ciò a cui tiene di più. Forse questa ossessione può spiegarsi proprio con l’esigenza del “prendersi cura” intesa come la prova della capacità di immedesimarsi negli altri esseri viventi, si torna cioè anche in questo alla questione dell’empatia che, un po’ alla volta, intrecciandosi con le diverse tematiche, finisce per apparire come il vero e proprio asse centrale di tutto il romanzo. 

La terza linea tematica è quella che riguarda il rapporto con la donna. Da un lato la moglie con la quale i rapporti sono gestiti attraverso l’uso di uno strano apparecchio che consente di provare sensazioni a comando; dall’altro l'androide Rachel con la quale egli ha una relazione sessuale che sembra ispirata, più che dall’amore, dal desiderio di conoscere un mondo che gli è sconosciuto e incomprensibile. Da un lato dunque la freddezza e  mancanza di emozioni naturali è surrogata dalla macchina che le produce artificialmente, dall’altro l’androide, cioè una macchina, che sembra inopportunamente provare delle emozioni. 

Tra i tanti romanzi di Dick questo è giustamente uno dei più celebrati perché la creazione del contesto è solida e coinvolgente: una società malata, un mondo in sfacelo, buona parte della narrazione è ambientata in un grande condominio abbandonato, nel quale si percepisce perfettamente la distruzione dei rapporti sociali e affettivi, la mancanza di qualsiasi preoccupazione per l’altro, una vita senza futuro, dove il prendersi cura, che dovrebbe caratterizzare l’umano, è finalizzato, invece, a quel poco che resta del mondo animale. Senza che questo costituisca in alcun modo un valore morale, quanto piuttosto una forma di distinzione, uno status. Anche la cura è diventata una merce e dipende dalla disponibilità economica.  

Deve farci riflettere che una simile visione di un futuro radicalmente distopico sia apparsa proprio nel 1968 ovvero nel pieno di un’ondata di cambiamenti sociali, politici, culturali, sulla spinta di una “rivoluzione  dei costumi” cui certo Dick non fu estraneo. Ma è compito dello scrittore quello di vedere in anticipo dive porteranno certe linee di sviluppo del proprio tempo. E Dick aveva la vista lunga.

 

 

Philip K. Dick,  NOSTRI AMICI DA FROLIX 8   1970

Se c’è una caratteristica costante dei romanzi di Philip Dick è che sono imprevedibili, qualsiasi vicenda vi si racconti si espone alle più complicate variazioni, fuori di ogni luogo comune narrativo e spesso anche fuori dei confini di  genere. Così è anche in questo romanzo tutto centrato su un protagonista antieroico, Nick Appleton, che sogna soltanto un avvenire migliore per suo figlio in un mondo profondamente corrotto, diviso tra gli Uomini Nuovi che hanno diritto ai posti di comando e gli Uomini Vecchi cui spetta solo il destino della subalternità. Fra i primi si annoverano mutanti, telepati, precog, informatici, cervelloni con una testa enorme sulle spalle.

Alla vicenda famigliare di Nick si sovrappone inaspettatamente tutt’altra storia, quella di Thors Provoni, un eroe partito dalla terra per cercare aiuto e che dopo molto tempo si accinge a tornare in compagnia di un essere alieno proveniente dal pianeta Frolix 8, una sorta di ectoplasma privo di forma che avvolge la navicella, ma con il quale si svolgono interessanti conversazioni. Non sono ben chiare le intenzioni di Provoni e dell’amico alieno, ma è certo che sulla terra il suo ritorno è temuto dalle autorità e atteso come un evento messianico dall’opposizione, gli Uomini Nascosti che si oppongono al sistema e che, a rischio della propria vita, diffondono materiale propagandistico.

Nick si trova coinvolto al punto da lasciare moglie e figlio, che scompaiono dalla narrazione, per seguire le sorti di una ragazzina incontenibile di cui si è invaghito e che diffonde materiale propagandistico clandestino a sostegno di Provoni

Nonostante i tentativi di annientamento messi in campo dal Governo, Provoni e l’alieno riescono ad atterrare a Central Park. Protetto dall’alieno che oscura le menti degli Uomini Nuovi con un’onda telepatica,  Provoni può così attuare il suo piano di impadronirsi del potere.

Dick lascia il finale aperto, possiamo solo immaginare il seguito. Al lettore resta l’immagine tipica delle sue narrazioni : un conflitto tra i detentori dell’ordine e coloro che invece vorrebbero uscire da ogni vincolo e da ogni regola, uno scontro che non trova mai una composizione certa, ma che resta sempre nell’aria come irrisolto e forse irrisolvibile. Tuttavia qui comincia ad apparire quella oscura tensione mistica che porterà alla trilogia finale di Valis. Inutile negarlo, l’alieno di Frolix 8 ha giù l’aspetto di una divinità onnipotente e indecifrabile, e Provoni alla fine sembra esserne soltanto un profeta. 

 

 Philip K. Dick,L'ANDROIDE ABRAMO LINCOLN 1972

Scritto nel 1962 ma pubblicato solo dieci anni dopo, è un romanzo che gira in modo abbastanza disordinato intorno ad alcuni temi classici della narrativa di Philip Dick. Ciò non deve stupire, io d’altra parte ho sempre immaginato i romanzi di Philip Dick come un unico grande affresco, è così che mi spiego il traballare delle trame, la mancanza di equilibrio dentro le singole opere, la presenza di personaggi ricorrenti e di tematiche che si inseguono da una pagina all’altra.

Questa ipotesi mi appare ancora più evidente leggendo L’androide Abramo Lincoln (We Can Build You).

La storia, ambientata nel 1982, ci racconta di Louis Rosen, un produttore di organetti, che cerca di mettere sul mercato un nuovo prodotto, degli androidi, costruiti da un progetto di Pris Rock, la figlia del socio: una replica esatta di due personaggi famosi della storia americana: Abramo Lincoln e  Edwin M. Stanton, il suo ministro della Guerra. Si tratta di due esseri sintetici ma esattamente simili ad esseri umani, anche nella capacità di avere sentimenti e di produrre analisi e riflessioni articolate. Risulta infatti assai arduo distinguerli da persone vere e proprie. Il solo compratore è un milionario avido e corrotto che progetta di usare gli androidi per colonizzare la luna.

I due androidi appaiono però difficili da gestire proprio perché replicano i caratteri non facili degli originali. Il protagonista è travolto da una storia d’amore con la giovanissima Pris, una diciottenne molto problematica, uscita dall’ospedale psichiatrico e schizofrenica. Progressivamente sembra che tutti i personaggi del romanzo finiscano per manifestare i segni di squilibrio mentale.

D’altra parte l’America descritta appare dominata proprio dalla malattia mentale, case di cura ovunque, leggi che impongono controlli serrati, lo stesso protagonista non supera un test ed è ricoverato in clinica. Qui verrà sottoposto a esperimenti a base di droghe allucinogene nel corso delle quali sognerà  di possedere la ragazza e di vivere una vita matrimoniale con lei.

 

Non è certo il romanzo più riuscito di Dick ma sicuramente è molto emblematico delle sue ossessioni, prima fra tutte l’incertezza nello stabilire un confine sicuro tra normalità e follia. Allo stesso modo appare labile il confine tra l’uomo e la macchina, tra naturale e artificiale. A questo proposito è  il casi di leggere come Dick presenta il risveglio alla vita dell’androide: “Al di là di ogni possibile dubbio, stavamo assistendo alla nascita di una creatura vivente. Adesso aveva cominciato ad accorgersi della nostra presenza; i suoi occhi, neri come l’inchiostro, si spostarono in su e in giù, a destra e a sinistra, inglobandoci tutti quanti, una carrellata dei presenti. Da quegli occhi non trapelava alcuna emozione, solo la percezione di noi che gli stavamo intorno. Un’espressione guardinga che superava le capacità di immaginazione di un uomo. L’astuzia di una forma di vita giunta da oltre i confini del nostro universo, interamente da un nuovo mondo. Una creatura piombata nel nostro tempo e spazio, consapevole di noi e di se stessa, della sua esistenza, qui fra noi; negli occhi neri e opachi roteavano, mettendo a fuoco e restando al tempo stesso sfocati, vedendo tutto e in un certo senso incapaci di distinguere la minima singola cosa.” (p. 94-95)

L’androide non come una macchina, dunque, ma come un essere più che umano, creatura di un nuovo mondo. Evoluzione dell’umano.  È impossibile per Dick fissare un confine netto e invalicabile tra uomo e macchina, c’è piuttosto un’area di confusione che anticipa assai bene tutte le discussioni attuali sul post-umano. Ma si faccia attenzione : questa incertezza è simmetrica a quella tra follia e normalità. E non è un caso. 

 

Philip Dick, Un oscuro scrutare  1977

 Un oscuro scrutare (A Scanner Darkly), del 1977, è un romanzo poco fantascientifico, ma molto inquietante.

Ambientato in un futuro assai prossimo, il 1994, vede come protagonista Bob Arctor (l’assonanza con la parola actor, attore, è voluta, come si capirà) è un agente della sezione narcotici. Ha il compito di infiltrarsi tra i tossici per scoprire chi dirige il traffico di stupefacenti. E in particolare quello di una potentissima droga la sostanza M. Ma tutto il suo lavoro avviene in una sorta di totale incognito. Quando si incontra con i suoi colleghi tutti indossano una speciale tuta che nasconde completamente la fisionomia della persona. Ciò gli consente addirittura di spiare mediante delle fotocamere opportunamente piazzate, la vita di un gruppo di tossici di cui egli stesso fa parte. Egli si spia e discute di se stesso tossico infiltrato con i suoi colleghi che non conoscono la sua identità. Ciò dà vita ad una serie di equivoci tra il comico e l’assurdo.

Ma la forza straordinaria di questo romanzo non sta tanto nell’intreccio, quanto nella incredibile capacità di Dick di descrivere la mente perversa dei tossici, ossessionati, paranoici, continuamente alla ricerca di droga e disposti a tutto per ottenerla, mentitori accaniti, inaffidabili e bugiardi. Si percepisce benissimo il desiderio di Dick di mostrarci la deriva drammatica di una intera generazione che ha barattato la libertà con la dipendenza, che ha cancellato le proprie velleità di cambiamento del mondo per una pasticca e una felicità momentanea.

C’è molto di autobiografico in questo romanzo per la nota dipendenza di Dick da molte sostanze, ma anche per il suo desiderio di ricordare i tanti amici portati via dalla droga, e alla fine in una nota conclusiva acclude l’elenco con nomi e cognomi degli amici morti o devastati mentalmente  dall’abuso di sostanze stupefacenti. Dick esplicitamente rifiuta l’idea che la sua narrazione contenga una qualsiasi morale. Egli si appella piuttosto al metodo della tragedia classica: osservare in modo moralmente neutro. Tutti coloro che sono morti in fondo hanno avuto il solo torto di voler essere felici per sempre, hanno giocato e hanno perso.

Impossibile, dunque, usare questo romanzo come un manifesto contro la droga. Possiamo soltanto entrare in quel tunnel, seguire i protagonisti nelle loro discussioni incoerenti, nelle descrizioni magistrali di vicende allucinate. Di giornate folli, di un continuo inseguirsi. Per lui l’abuso di droga non è una malattia ma solo un errore di valutazione, come sbucare davanti a un’auto in corsa. Ma un errore compiuto da molte persone diventa uno stile di vita, e in questo caso, è uno stile di vita basato su un motto molto semplice:  “Sii felice perché domani morirai”, solo che si incomincia  a morire molto presto. Osserva Dick che in fondo lo stile di vita del drogato non è molto diverso da quello di tutti noi, solo è molto molto più veloce, si insegue la felicità e ci si ritrova in prossimità della morte.

“In definitiva, allora, l’abuso di droga è soltanto un’accelerazione, un’intensificazione dell’ordinaria esistenza di ciascun uomo. Non è differente dal tuo stile di vita, è semplicemente più veloce.”

Dick non può essere usato mai. Per nessuna causa. Non si presta.


 

Roberto Vacca, Il ROBOT E IL MINOTAURO 1963

 È stato il primo in Italia a presentarsi come “futurologo”. Gli dobbiamo un libro innovativo e antesignano per la nostra cultura, Medioevo Prossimo Venturo (1971). È Roberto Vacca (nato nel 1927) un ingegnere, matematico, divulgatore scientifico, scrittore e accademico che si è divertito anche con la scrittura creativa. In particolare vorrei segnalare oggi il suo primo romanzo Il Robot e il Minotauro (1963). Un’opera originale e forse un po’ sottovalutata per via del nostro provincialismo che, soprattutto negli anni ’60-’70 esaltava la letteratura fantascientifica di matrice americana e snobbava quella autoctona come letteratura di seconda serie.

Il romanzo vede protagonista Mino Dauro – palese e voluta l’assonanza con il mitico Minotauro, l’essere ibrido parte umano, parte animale – uno scienziato che riesce a trasformare il proprio cervello in un calcolatore elettronico, anzi il più potente calcolatore, superiore a qualsiasi altra macchina, proprio perché in parte composto di materia cerebrale. Tuttavia emerge una difficoltà: la velocità di elaborazione è infinitamente superiore a quella di traduzione vocale dei risultati, e allora escogita una soluzione estrema: si fa innestare nel braccio una morsettiera che gli consente di collegarsi direttamente con una telescrivente. Così il flusso di dati in uscita potrà corrispondere a quello della elaborazione.

Le sue invenzioni attirano però l’interesse di molti, si rende conto di essere in pericolo e per questo fugge in Olanda dove viene ospitato da un collega. Un altro ingegnere, Jan Boerma, che a sua volta ha inventato un Robot che ha sempre di più reazioni umane. Qui, tuttavia, scatta l’amore tra Mino Dauro e la moglie dell’amico. Il sentimento, prima per lui sconosciuto, provoca un guasto al cervello-computer che Mino cerca di risolvere con l’aiuto di uno psicoanalista.

A questo punto avviene la svolta finale, che non anticipo, ma il suo senso è che Mino Dauro ha ormai avviato un processo di ibridazione irreversibile e la psiche profonda non può che risentirne.

Incredibile l’originalità di temi che emergono, siano negli anni ’60, non dimentichiamolo: quello del rapporto umano-macchina, contrapposto all’altro della macchina umanizzata. Quello del cyborg, quello del rapporto tra cultura cibernetica e cultura emozionale.

Roberto Vacca, con leggerezza e una buona dose di ironia, mette sul tavolo le problematiche che oggi occupano molta parte della letteratura di fantascienza ma anche della saggistica contemporanea, ormai angosciosamente rivolta all’indagine sul futuro che ci attende. Con una scrittura leggera e immediata, uno stile per niente pedante o professorale, anticipa figure e temi che appartengono alla nostra quotidianità. E non smettono di porci domande alle quali non sappiamo ancora bene come rispondere.

 

 

Arkadij e Boris Strugackij L'ULTIMO CERCHIO DEL PARADISO  1965

In L’ultimo cerchio del paradiso ritroviamo lo stile inconfondibile dei due  immaginosi fratelli russi. Il romanzo è del 1965 e ci proietta in una società capitalistica del prossimo futuro, dove la moneta corrente è il marco, il cibo e le bevande non si pagano ma la gente è travolta da una pericolosissima nuova droga, che spesso porta alla morte. Il protagonista Ivan Zilin è un investigatore incaricato appunto di fare luce sulla diffusione di tale pericolosa sostanza (ma poi scopriremo che non si tratta affatto di una “sostanza”).

Lo stile è centrato sui dialoghi piuttosto che sulle descrizioni, infatti è piuttosto complesso ricostruire la trama ma anche solo l’ambientazione della storia. Gli autori procedono non in linea retta, ma per spirali, per approssimazioni, attraverso una infinita galleria di personaggi di cui non si comprende esattamente il ruolo e la funzione narrativa: la prostituta, il barbone, il filosofo ottimista, il doganiere, l’autista, l’ubriaco, un cyborg uscito di senno ecc.

Il protagonista, in incognito, si presenta come “turista e uomo di lettere” ed è una definizione particolarmente azzeccata, perché la sua indagine ha piuttosto la forma di un girovagare piuttosto casuale che non quella di una costruzione razionale. Però la narrazione non ha mai un momento di riposo, sembra di assistere, per dirla in termini cinematografici, a un lunghissimo piano-sequenza che si snoda dalla prima all’ultima pagina.

Spiccano le scene della festa popolare chiamata “Brividi” dove la gente si stordisce per non pensare a niente, e quelle di terrorismo di cui sono responsabili  gli “intel” (che sta per intellettuali) verso i quali tutti i personaggi esprimono una sincero sentimento di odio. Ma il cuore della narrazione probabilmente è la vicenda dello “slug”, la nuova droga che consiste in un apparecchio elettrostimolatore, spesso nascosto dentro una semplice radio, cui il soggetto si abbandona mettendosi dentro una vasca piena d’acqua. È una droga che dà rapida dipendenza ma rischia sempre di portare alla morte colui che ne fa uso. Si tratta forse di una metafora che allude alla pericolosità dei mass media nel mondo occidentale?

Certo gli autori sembrano impietosi nel descrivere una società, l’ultimo cerchio del paradiso, come suggerisce il titolo, di natura tipicamente capitalistica, dove il divertimento è soltanto un modo per annullare la facoltà del pensiero, gli intellettuali sono stigmatizzati, e i media rappresentano una forma di stordimento dell’intelligenza, ma soprattutto i rapporti tra le persone appaiono scomposti, sempre sospetti, mai trasparenti, mai sinceri.

Con la loro consueta ironia i fratelli Strugackij, tuttavia, lasciano aperta la possibilità di estendere al mondo sovietico – pare di intuire che il protagonista  viene da un altro mondo, un altro pianeta – le loro sottili osservazioni critiche. Riporto in questo senso un’affermazione che la dice lunga: “Ti dirò soltanto una cosa: se nel nome di un ideale una persona è spinta a compiere atti meschini, allora questo ideale vale meno della merda…” (166), un modo piuttosto aspro per sottrarsi a una facile collocazione ed esprimere piuttosto una radicale presa di posizione che non risparmia affatto il mondo sovietico. Anzi, il finale contiene una doppia determinazione: da un alto infatti il protagonista si lamenta: “Era impossibile che lì non esistesse nessuno che si fosse schierato dalla nostra parte, nessuno che odiasse tutto questo di un odio mortale, che volesse far saltare per aria quel mondo stupido e con la pancia sempre piena”, ma dall’altro ammette: “Non sapevo ancora da dove cominciare, in quel Paese degli sciocchi colto di sorpresa dall’abbondanza, ma sapevo che non me ne sarei andato da lì finché me lo avrebbe consentito la legge sull’immigrazione. E quando non me l’avrebbe più consentito, l’avrei infranta…” (186).


 

Arkadij e Boris Strugackij  LA CHIOCCIOLA SUL PENDIO 1971

Lo stile fantastico, immaginativo, parodistico e insieme acuto e profondo dei fratelli Strugackij, rappresenta un modello difficile da imitare di grande letteratura distopica, ma al contempo mostra con evidenza il legame con la grande letteratura russa, da Gogol a Bulgakov.

In questa opera, La chiocciola sul pendio si spalanca uno scenario magmatico e visionario.

Lo dice chiaramente Boris Strugackij nella Postfazione: Il mondo descritto in è “un mondo in divenire, un mondo che non aveva ancora terminato di formarsi, un mondo in costruzione” (p. 264), certo è un modello per il futuro, ma non è un modello chiuso, definito, come quelli descritti da Huxley o da Orwell, è un mondo che muta sotto gli occhi del lettore, che sfugge da tutte le parti. Per questo è impossibile l’operazione di sintetizzare una trama, possiamo solo indicare i due luoghi sui cui si articola la narrazione: il Direttorato, stanze, uffici, protocolli, gerarchie, che rappresenta il presente, e la Foresta che rappresenta invece il futuro. I protagonisti aspirano a visitare la Foresta, ma in essa si perdono continuamente, vorrebbero raggiungere una fantomatica Città di cui si dice, ma il percorso è fatto di paesi, di sentieri, di paludi e vi si incontrano morti viventi, animali sconosciuti, perversioni e disorientamento.

Il movimento lento e inesorabile, verso luoghi invisibili, e invivibili, appare quello di una chiocciola sul pendio, da cui il titolo, sforzo titanico verso una realizzazione (la società comunista? Il mondo senza classi e senza sfruttamentio?) che appare sempre più fumosa e inconsistente.

Certamente per il lettore russo degli anni ’60 cui risale la stesura, il testo doveva apparire intriso di simboli che a noi oggi appaiono parzialmente indecifrabili. Di sicuro esso appare dissacrante rispetto alle esigenze propagandistiche della letteratura di regime e il libro subì infatti la sorte di essere proibito e ignorato. Ma se il Direttorato e la Foresta sono la descrizione di un sogno andato a male, di un progetto e di un ideale che si è tradotto in un mondo oscuro, caotico, privo di autentica razionaliytà, privo di aspettative e di amore, noi lettori di oggi non possiamo fare a meno di notare come l’insegnamento dei fratelli Strugackij sia terribilmente attuale: “del Futuro - scrive ancora Boris Strugackij - l’unica cosa che sappiamo con un certo grado di sicurezza è che non coinciderà in nessun modo con qualunque idea possiamo avere di esso.” 

 

Arkadij e Boris Strugatskij,  PICNIC SUL CIGLIO DELLA STRADA, STALKER   1972

 Molto opportunamente la casa editrice Mardos y Markos ha ripubblicato questo fondamentale romanzo dei fratelli Strugatskij in una versione tradotta da Paolo Nori e restaurata dalle numerosissime modifiche imposte dalla censura sovietica al tempo della prima edizione (1972).  Per i numerosi appassionati lettori dei fantasiosi fratelli è l’occasione per rileggere un romanzo che è stato di ispirazione per un bellissimo film di Tarkovskij ed è forse il più conosciuto della loro vasta produzione. 

 Il protagonista è uno Stalker, cioè un avventuriero che con grande coraggio vive commerciando ciò che riesce a trovare nella Zona. Un territorio abbandonato e proibito che è stato visitato in passato dagli alieni che vi hanno lasciato una gran quantità di materiali e di oggetti misteriosi, miracolosi ma anche molto pericolosi. Gli alieni non ci sono più, sono scomparsi, cosa siano venuti a fare non si sa, l’ipotesi è che la Terra abbia rappresentato per loro solo un punto di passaggio in chissà quale viaggio, un luogo dove fare un picnic sul ciglio della strada, come dice il titolo. E ciò che si ritrova sarebbe nient’altro che gli avanzi, i resti di quel passaggio.

Red Schuhart detto il Rosso, protagonista del romanzo, sa muoversi in un territorio pieno di insidie e di trappole, ma sa anche che non si tratta solo di raccattare qualche strano oggetto, in verità la Zona nasconde segreti oscuri, può produrre trasformazioni inspiegabili, si parla di morti che possono rivivere, di esseri umani mutanti, ecc. Alcuni cercano di penetrarvi a caccia di tesori ma restano vittime di contaminazioni, di liquidi velenosi, di trappole gravitazionali e altre amenità.

Il Rosso, nonostante tutti i pericoli continua la sua caccia mosso esclusivamente da una aspirazione ben raccontata nella parte finale del romanzo, l’aspirazione  alla felicità, la speranza che da qualche parte si nasconda il segreto della felicità: “Felicità per tutti, gratis, e che nessuno se ne vada scontento!” Sono queste le ultime parole del romanzo. 

 Lo stile dei fratelli Strugatskij è facilmente riconoscibile anche in questo romanzo, sovraccarico, denso, articolato intorno a numerosi personaggi e dilatato in un arco temporale assai lungo. Lunghe conversazioni talvolta prendono il posto delle sequenze narrative.  Nel mondo degli Strugatskij bisogna entrarci, non si può pretendere la trasparenza assoluta, qui poi molti degli oggetti alieni non sono nemmeno descritti analiticamente, se ne accenna come se li dovessimo conoscere già, perché il lettore ideale non è un estraneo, ma è qualcuno che fin dalla prima pagina appartiene a quel mondo, ne fa parte.

Se poi volessimo cercare una traduzione metaforica, un sotterraneo riferimento alla realtà del loro tempo non sarebbe così difficile  immaginare che il mondo alieno, pieno di cose straordinarie è, in fondo, il mondo capitalistico visto dall’altra parte, un mondo che contiene in sé tanto la promessa della felicità quanto un intricato sistema di pericoli mortali. C’è poco da fare, i fratelli Strugatskij erano avanti, molto avanti.

 

 

 Arkadij e Boris Strugackij,  LA CITTA' CONDANNATA  1980

Scritto negli anni ’70 e sepolto in un cassetto perché improponibile nella società del tempo e poi finalmente pubblicato alla fine degli anni ’80 quando le condizioni politiche in Unione Sovietica stavano cambiando radicalmente, La città condannata dei fratelli Strugackij è certamente un libro di lettura impegnativa perché denso e complesso, innegabilmente figlio della migliore tradizione narrativa russa, ma al contempo è uno di quei romanzi dal profilo epico capaci di costruire un altro mondo come fosse lì, reale, a portata di mano del lettore. La città cui allude il titolo è infatti un vero e proprio mondo altro, di cui si intuisce che forse non è nemmeno sulla terra, e che è nata da un Esperimento cui si allude continuamente, facile trasposizione di quella che l’ideologia dell’epoca indicava come il progetto del socialismo in un solo paese. Qui però vigono regole non sempre chiare e non sempre comprensibili. Una per esempio impone agli abitanti di cambiare mestiere periodicamente, e infatti il gruppo dei personaggi lo troviamo in ogni capitolo all’interno di una situazione diversa, prima sono netturbini, poi inquirenti, poi  giornalisti, e si tratta di un gruppo assurdamente eterogeneo: il protagonista è Andrej russo emulo di Stalin, insieme a lui ci sono un giapponese, un cinese, un americano, un agricoltore russo, un ebreo, un nazista. Tutta la vicenda si snoda attraverso discussioni interminabili, e scambi densi di riferimenti politici e filosofici, in un clima di devastazione imminente, in cui le strade sono invase da scimpanzé sanguinari, e il sole è una lampada che si accende e si spegne un po’ a caso. Alla fine il gruppo è coinvolto in una esplorazione, fallimentare, dei limiti della città e dell’esistenza di una fantomatica Anticittà. Ma la ricerca si arena, i mezzi si guastano, il gruppo si spacca.  

Il lettore è condotto a porsi continuamente domande sulla natura del potere, sulla condizione umana, sul destino del singolo e della collettività, sull’erosione del tempo, sulla decadenza dei valori, e ciò che appare più chiaramente è che non ci sono risposte da offrire, gli autori non hanno tesi da dimostrare, tutt’al più mostrano l’esigenza di fare i conti con l’impossibilità di imporre alcun ordine, e l’impossibilità di opporsi alla forza inesorabile del caos. Tutti gli attori di questa avventura ignorano lo scopo dell’Esperimento e quindi non sono mai in grado di stabilire se esso stia riuscendo o stia fallendo, ma sono incitati ad andare avanti da un Mentore personale che è la figura più enigmatica di tutto il romanzo, incrocio tra un burattinaio, un motivatore, una voce della coscienza.

Inutile negare che la sensazione finale per il lettore è di grande amarezza, come se davvero non ci fossero valori stabili, non ci fossero obiettivi da perseguire, come se davvero la nostra esistenza fosse quell’insieme di casualità e di insensatezza che da sempre cerchiamo di esorcizzare. Ma a leggere La città condannata, viene il dubbio, che le cose invece stiano proprio così.  

 

Robert Heinlein, STARSHIP TROOPERS  1959

 Chi si avvicinasse oggi a questo grande romanzo di Robert Heinlein, Starship Troopers, in italiano Fanteria dello spazio pubblicato per la prima volta nel 1959, resterebbe probabilmente condizionato dalla visione di almeno tre pellicole che sembrano partire dal testo; in realtà l’aspetto guerresco, che nei film è prevalente, nel romanzo è decisamente secondario, a parte un paio di capitoli in cui si  accenna alla guerra con una popolazione aliena di ragni intelligenti, tutto il resto della narrazione è di fatto una sorta di romanzo di formazione del protagonista Juan "Johnny" Rico, un giovane di famiglia ricca, che sceglie di entrare nell’esercito per fare un dispetto al padre e per inseguire una ragazza, senza una vera e propria motivazione dunque, ma attraverso la durissima esperienza  del centro di addestramento reclute diviene alla fine un comandante capace e affidabile.

Se questa è la scarnissima trama, bisogna chiarire che il lungo romanzo ha in altri aspetti la sua forza. Heinlein, infatti, è capace di dar vita, a un’immagine del mondo futuro molto interessante e per molti versi anche controversa, egli infatti, ipotizza una società mutata dopo una devastante guerra mondiale, a seguito della quale il potere è stato preso di fatto da un gruppo di reduci che hanno riservato a loro stessi il diritto di voto,  e hanno instaurato una società di natura militaresca.

I fondamenti della Dichiarazione di Indipendenza degli stati Uniti sono rivisti nel senso che si stabilisce che non esistono diritti naturali che non siano una conquista per il cittadino, ognuno dunque deve meritarseli, e il teatro del merito e del demerito è prima di tutto l’esercito e la formazione militare. In questo senso Heinlein sembra stigmatizzare le debolezze dei sistemi democratici nei quali tutti pensano di avete diritto a tutto, ad essi contrappone un sistema fortemente meritocratico che distingue i cittadini in classi di meritevoli e di non meritevoli. In base a un perverso principio detto TANSTAAFL (There Ain't No Such Thing As A Free Lunch): letteralmente, "non esistono pasti gratis"; vale a dire: se vuoi qualcosa te lo devi guadagnare, non esistono diritti, solo doveri.

La tecnologia presente nel romanzo è essenzialmente quella finalizzata alla guerra: astronavi capaci di viaggi interstellari, tute potenziate che consentono al soldato di amplificare oltre ogni limite i suoi movimenti, e di applicare una forza straordinaria.

 In effetti più che di un romanzo di avventure si tratta di un romanzo di idee, caratterizzato da lunghe discussioni che dovremmo definire filosofiche tra il protagonista  e i suoi superiori o il suo insegnante di Storia e Morale.

Non ha torto a mio avviso chi ravvede in questo romanzo una sorta di apologia delle democrazie autoritarie purtroppo oggi tanto alla moda, ma credo che la ragione per leggerlo vada cercata in altro: non c’è dubbio che lo spaccato di futuro che Heinlein ci offre contiene, purtroppo, molti elementi che possiamo riconoscere già oggi, molte tensioni, molte illusioni, che caratterizzano il nostro attuale momento politico e sociale. Leggiamolo come una rappresentazione del pericolo che corriamo, non certo come una utopia da realizzare ma come una distopia da evitare.

 Il giuramento del cittadino della Federazione Terrestre: “Giuro di espletare tutti i doveri e gli obblighi, consapevole di godere di tutti i diritti e i privilegi della cittadinanza federale, tra cui il dovere, l'obbligo e il privilegio di esercitare il diritto sovrano di voto per il resto della mia vita, a meno di non venire giudicato indegno dell'onore dal verdetto finale emesso da una corte di miei pari”.

 

Robert  Heinlein  LA LUNA E' UNA SEVERA MAESTRA 1966

Grandioso affresco di una Rivoluzione, replica implicita molto evidente della Rivoluzione americana del 1776 che ha portato all’indipendenza delle colonie dalla madrepatria inglese. Non a caso il romanzo è ambientato proprio nel 2076 e la data chiave è il 4 luglio.

 Pubblicato per la prima volta nel 1966 La luna è una severa maestra è sicuramente uno dei lavori più affascinanti di Henlein. L’autore costruisce un mondo futuro nel quale la luna è stata colonizzata innanzi tutto deportandovi i galeotti che poi per effetto delle trasformazioni indotte dalla diversa gravità sono costretti a restare  per sempre sul pianeta, e costretti a lavorare per un governo terrestre chiamato Ente che li fa coltivare entro grotte scavate in profondità. Ciò che viene così prodotto viene inviato alla Terra, affamata per via della sovrappopolazione, attraverso una catapulta elettromagnetica. 

Il protagonista Manuel Garcia O'Kelly detto Mannie, un tecnico informatico, è chiamato a lavorare sul grande computer Mike che regola tutta la vita sul satellite e che a furia di sviluppi, allargamenti, aggiornamenti, ingrandimenti, ha sviluppato una forma di autocoscienza  e ha imparato a conversare amabilmente (oltre scrivere poesie ed elaborare stupide barzellette…). 

Tra Mannie e Mike si sviluppa una vera e propria amicizia. Insieme al Prof e alla bella Wyoh costituiranno il nucleo di una cellula rivoluzionaria determinata a por fine ai soprusi dell'Ente a render finalmente libera e indipendente la Luna .

Il libro infatti è la storia di una Rivoluzione in tutto e per tutto ispirata dalla storica rivoluzione che portò le 13 colonie alla liberazione dal giogo inglese e che rappresenta nell’immaginario e nella storia americane l’atto fondativo di una civiltà. La Terra naturalmente non accetta le richieste dei lunari, scoppia la guerra che viene descritta molto minuziosamente. I lunari si difendono lanciando sassi con la catapulta, che cadendo come meteoriti hanno effetti disastrosi, ma stanno ben attenti a non colpire luoghi abitati per ridurre al minimo il rischio di fare vittime e guadagnarsi così il consenso dell'opinione pubblica. 

Dopo alterne vicende e la distruzione di numerose astronavi terrestri finalmente i lunari riescono a ottenere l’agognata indipendenza e a iniziare un percorso nuovo  come società libera. 

Il romanzo di Heinlein è lungo e articolato, infatti nella prima pubblicazione italiana nella collana Urania fu diviso in due numeri distinti. Talvolta sembra eccedere nelle descrizioni, ma fa parte del gioco. L’autore vuole chiaramente rappresentare un mondo compiuto, verosimile, non pura invenzione, ma sviluppo, articolazione possibile della sua e nostra, contemporaneità. Colpisce particolarmente che pur raccontando una Rivoluzione non si lasci mai andare a proclami, apologie facili, esaltazioni di valori quali la libertà, l'indipendenza, la liberazione dallo sfruttamento. Per quanto a suo tempo qualcuno accusasse banalmente Heinlein di simpatie per il leninismo, in realtà i suoi personaggi principali sono sempre piuttosto scettici e disincantati, e non sfugga il fatto che il capo vero e proprio è in fondo proprio quel super computer che non ha alcun valore da sostenere o da riconoscere, e agisce spesso più per gioco che per convinzione ideologica. 

D’altra parte la capacità di Heinlein di affrontare i temi scottanti del nostro tempo sempre da una prospettiva obliqua o sopra le righe, è ben nota e apprezzata. È la cifra della sua scrittura. Ma è anche ciò che la rende una lettura essenziale. Per me irrinunciabile. 

 

Paolo Volponi   IL PIANETA IRRITABILE  1978

"Il pianeta irritabile" di Paolo Volponi uscì nel 1978, in un'epoca in cui era ancora vivo l'incubo nucleare e il conflitto fra le due superpotenze, ma al contempo cominciava a farsi strada fra gli intellettuali più sensibili, l'idea che vi fosse un altro nemico più sottile e più pervasivo che avrebbe potuto portare il mondo al collasso, la tecnica, e il suo supporto, le forme alienate del lavoro.

Entro questa cornice si sviluppa la storia incredibile di quattro impresentabili cavalieri dell'Apocalisse, un nano, un elefante, che è anche l'unico intellettuale della storia, un'oca e una scimmia, il capo della piccola banda, alla quale l'unico umano, cioè appunto il nano, è stato aggregato solo in qualità di animale non-umano.

I quattro. in uno scenario post apocalittico, fatto di macerie, di ceneri, di animali assurdi, si muovono alla ricerca di uno spazio, di una condizione in cui la vita torni a essere possibile, senza per altro riuscire a trovarla. Quel che è certo, però, è che il futuro sarà degli animali, e non degli uomini. I pochi che appaioono nelal narrazione sono sopravvissuti che meritano di essere sterminati.

Per chi pensa ingenuamente che la strada della distopia sia essenzialmente straniera, e anglo americana in modo particolare, questo straordinario romanzo dimostra, e non da solo, farò altri esempi, che esiste un sentiero italiano alla distopia, e non ha nulla da invidiare ai più celebri romanzi del genere. .

  

Octavia Butler LEGAMI DI SANGUE 1979

 Ci sono tanti romanzi che affrontano il tema dei viaggi nel tempo ma questo di Octavia Butler è molto particolare perché usa la struttura fantastica per raccontare una storia del tutto realistica nella quale la protagonista – che a mio modo di vedere è alter ego della scrittrice – è intimamente coinvolta.

Il presente della storia è il 1976, bicentenario della dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti. Per un motivo che non svelerò (ma che va intuito perché non verrà mai spiegato apertamente) la protagonista Dana, una scrittrice di colore, si trova catapultata nel 1815 in uno stato schiavista del sud. È costretta dunque a vivere in prima persona la condizione tragica della schiavitù, con tutto il suo contenuto di violenza, di umiliazione, di ingiustizia. Dovrà accettare di essere ella stessa considerata una schiava, e quando proverà a ribellarsi sarà frustata duramente. Così proverà sulla sua pelle il peso di una realtà per lei lontana.

 Dana scopre di essere stata chiamata nel passato ogni volta che un giovane uomo bianco di nome Rufus è in pericolo di vita. Rufus è il figlio di un proprietario di piantagioni e Dana si rende conto che è suo antenato. Nel corso del romanzo Dana sviluppa un legame complesso con Rufus, che oscilla tra l'affetto e l'odio. Cerca di proteggerlo e di influenzare il corso degli eventi, ma si rende conto che ogni sua azione potrebbe avere conseguenze imprevedibili sul suo stesso futuro.

 Legami di sangue affronta temi importanti come la razza, la violenza, la libertà e l'identità. Octavia Butler esplora la complessità delle relazioni umane e il modo in cui il passato può influenzare il presente. Il romanzo offre una prospettiva unica sulla storia americana e invita il lettore a riflettere sulle ingiustizie del passato e del presente.

Aiutata dal marito, Kevin, anche lui uno scrittore ma bianco, Dana si inserisce nelle complicate familiari di Rufus e scopre che la sua antenata diretta è nata proprio da un atto di violenza del padrone bianco ai danni di una schiava.

 Il romanzo della Butler è sicuramente una grande opera letteraria, nella quale si mette in gioco non solo la complessità delle relazioni umane, ma anche la dinamica della scrittura, la sua fedeltà/infedeltà alla realtà. La protagonista scrittrice infatti si rende conto della differenza che può passare tra il descrivere una situazione tragica e il viverla: le ferite delle frustate sulla sua schiena rappresentano il confine tra verità e finzione, quel confine che ogni scrittore crede di aver ben chiaro ma che in realtà rappresenta una distanza incolmabile.

 Octavia Butler (morta nel 2006) è stata una delle poche donne afroamericane ad avere successo nel campo della fantascienza. È stata insignita di numerosi premi letterari, tra cui il premio Hugo e il premio Nebula. Legami di sangue  è il suo testo più noto, lo consiglio caldamente perché è una lettura che lascia il segno.

 


Walter Tevis  SOLO IL MIMO CANTA AL LIMITARE DEL BOSCO   1980

 "Solo il mimo canta al limitare del bosco" di Walter Tavis (1980) è uno splendido romanzo che riprende la formula della distopia senza cadere nei luoghi comuni e senza ripetere stancamente immagini già ampiamente percorse da altri. La scena che vi si rappresenta è prima di tutto quella di una società in cui l'affidamento ai robot si è tramutato in una morbida servitù, e l'umanità è in via di estinzione, resa infertile dal consumo capillare di farmaci tranquillanti, e da una regola universalmente rispettata, quella della privacy, che si è tradotta però in una condizione di isolamento, di solipsismo estremo, di assenza di rapporti umani. I tre protagonisti, un robot, un uomo e una donna rappresentano i tre estremi del possibile in quella tragica condizione. Il robot così perfezionato, così simile all'umano da voler provare ciò che solo gli umani possono, ovvero il senso della morte, e i due umani che riescono invece a sottrarsi alla dipendenza dalle droghe e a romperere il muro di isolamento, nel momento in cui imparano a leggere e così possono riappropriarsi della cultura del libro e della lettura che nel frattempo era stata annientata. L'utopia banale che alla fine si afferma è quella dell'amore e della maternità, ma il libro non è banale affatto, nè celebrativo, nè ideologico. Costringe piuttosto a pensare, ed è questa la sua forza, a tutto ciò che diamo per scontato ogni volta che ci avviciniamo a un libro, o che prendiamo in mano una penna. Alla responsabilità che abbiamo come umani rispetto al presente e al futuro della nostra società.

 

Frederik Pohl   GLI ANTIMERCANTI DELLO SPAZIO  1984

Gli antimercanti dello spazio è stato scritto da Frederik Pohl nel 1984, trentanni dopo I mercanti dello spazio, di cui è un seguito indipendente. Il romanzo riprende con un maggiore competenzea personale il tema della pubblicità, e sviluppa l'ipotesi di partenza di un mondo ormai dominato interamente dalle grandi agenzie pubblicitarie in grado di decidere tanto l'economia che la politica, in grado di determinare i destini del mondo intero e non solo sulla terra ma anche sul pianeta Venere, che resta però in parte refrattario al dominio della pubblicità e sviluppa una specie di resistenza passiva che costituisce il motore narrativo del romanzo. Probabilmente dal punto di vista della trama e della costruzione dei personaggi molte sono le mancanze del libro, che appare talvolta un po' confuso e talvolta un po' incerto su cosa mettere davvero in primo piano. Tuttavia lo sfondo distopico è formidabile, e oggi ancora più significativo se si pensa che il primo romanzo è stato pubblicato addirittura nel 1952. Sulla prepotenza della pubblicità come fondamento del mondo del consumo illimitato ci sarebbe immenso spazio oggi per narrare efficacemente. Questo di Frederik Pohl è solo una felice anticipazione.

 

William Gibson, NEUROMANTE 1984

Universalmente considerato il fondatore del cosiddetto cyberpunk un filone cupo e pessimistico della fantascienza , Neuromante (1984) è il suo primo romanzo e quello che lo ha reso celebre, e è stato poi seguito da altri due romanzi: Giù nel ciberspazio (Count Zero, 1986) e Monna Lisa Cyberpunk (Mona Lisa Overdrive, 1988)   così da formare la  Trilogia dello Sprawl. Con quest’ultimo termine l’autore indica, un'immensa area metropolitana che si estende lungo la costa Est degli Stati Uniti, da Boston ad Atlanta, un ambiente degradato, dominato dallo strapotere delle multinazionali, dalla mercificazione del corpo,  che può essere sottoposto a ogni tipo di modifica, di correzione, di integrazione, da parte di una medicina che non ha più alcun legame con la salute ma solo con la mercantile produzione di un essere umano di secondo livello, cyber, modificato, connesso, aumentato.

 

Neal Stephenson  SNOW CRASH  1992

 Neal Stephenson è uno scrittore americano noto per i suoi lavori di narrativa speculativa. Influenzato da autori come William Gibson, Bruce Sterling e Philip K. Dick, i suoi romanzi sono stati classificati come fantascienza, fiction storica, cyberpunk, postcyberpunk e barocco. Stephenson attraverso le sue opere esplora temi come la matematica, la tecnologia, la società e la storia. Ha ricevuto numerosi premi letterari, tra cui il Locus Award per il miglior romanzo di fantascienza, l'Hugo Award per il miglior romanzo e l'Arthur C. Clarke Award.

Snow Crash è un romanzo di fantascienza cyberpunk pubblicato nel 1992.

 La storia si svolge in un futuro distopico in cui il mondo reale e il mondo virtuale si fondono insieme. Le entità statali sono ormai sorpassate e l’America risulta divisa in piccole zone di fatto dominate da gruppi privati o organizzazioni malavitose. La vita si svolge sempre su due piani paralleli, la vita reale e il Metaverso, ovvero la realtà virtuale. (Il Metaverso, concetto e idea di cui oggi Mark Zuckerberg cerca di  appropriarsi, ha proprio in queste pagine il suo punto d’origine. È una nozione che nasce dunque dalla fantascienza e si riferisce a un'ipotetica versione dell'Internet come un unico, universale e immersivo mondo virtuale. È un concetto che coinvolge l'uso di tecnologie come la realtà virtuale e la realtà aumentata per creare un ambiente digitale in cui le persone possono interagire tra loro e con oggetti virtuali. Il Metaverso è costituito da una serie di spazi digitali condivisi in cui le persone possono socializzare, imparare, lavorare e giocare insieme. Gli utenti possono creare avatar digitali che li rappresentano e interagire con gli altri attraverso di essi.

 Il protagonista del romanzo è Hiro Protagonist, un "Deliverator" che consegna pizze in una società dominata da grandi corporazioni.

Hiro si imbatte in un virus chiamato Snow Crash che può infettare sia il mondo virtuale che il cervello umano, causando effetti devastanti.  Insieme a una giovane skateboarder di nome  Y.T., Hiro si imbarca in una missione per sconfiggere il virus e scoprire la verità dietro di esso. Nel corso della storia, vengono esplorati temi come la tecnologia, la società, la religione e la natura della realtà stessa.

 Snow Crash è oggi considerato un classico del genere cyberpunk e ha influenzato molti autori successivi. Da appassionato di fantascienza che, lo confesso a rischio di inimicarmi molti lettori di LDFO, non prova particolare simpatia per questo particolare genere, non posso che riconoscere la ricchezza del testo, la scioltezza del linguaggio, mai banale e sempre un po’ sopra le righe, ma ciò che, lo dico apertamente, mi indispone di fronte a queste letture,  che pure riconosco a tratti appassionanti, è il sapore di grande fumetto. La descrizione dei personaggi, degli oggetti, dei costumi, dei mezzi di trasporto corrispondono ad una graphic novel alla quale manca soltanto il disegno. Immagino che molti troveranno tutto questo eccitante, io non altrettanto, la mia sensazione è che la ricostruzione di un mondo distopico dove il capitalismo più selvaggio ha vinto su ogni fronte, devastato dagli interessi, dalla violenza, dalla sopraffazione dei deboli ad opera di coloro che hanno il potere, immagine che è sempre opportunamente sullo sfondo della narrazione, viene però oscurata e resa debole dalla esagerazione dei particolari.

 

 

 Kim Stanley Robinson     ROSSO DI MARTE   1992

 Ad alcuni il confine tra fantascienza e distopia appare piuttosto labile, e probabilmente un romanzo come "Rosso di Marte" (1992) di Kim Stanley Robinson, potrebbe essere visto come esempio di simile ambiguità. Vi troviamo infatti tutti gli elementi più caratteristici della fantascienza classica, colonizzazione di un pianeta, Marte, tecnologia futuristica, robot, viaggi spaziali e via dicendo. In realtà, a mio avviso, al di là degli elementi fantascientifici, si tratta proprio di un esempio di Distopia. Tutto il succo della narrazione, infatti, consiste nelle trasformazionidi una comunità che vive il compito comune di colonizzare il pianeta replicando le tipiche divisioni umane tra partiti, fazioni, appartenenze politiche e geografiche, progetti contraddittori, prospettive incompatibili, e di conseguenza atti di terrorismo, inganni, morti violente. Assistiamo alle diverse parabole di personaggi complessi, protagonisti e antagonisti sono portatori di verità parziali, non ci sono né buoni né cattivi, c'è solo la rappresentazione molto amara della difficoltà che caratterizza la specie umana di avere obiettivi comuni e condivisi. Una narrazione distopica a pieno titolo, dunque.

 

Kim Stanley Robinson  LA COSTA DEI BARBARI 1984

La costa dei barbari è il primo libro (pubblicato nel 1984) della trilogia delle tre Californie (che comprende anche Costa delle palme e Pacific Edge del1988) scritta da Kim Stanley Robinson autore divenuto poi celebre per l’altra sua trilogia, quella dedicata a Marte (Rosso di Marte, Blu di Marte, Verde di Marte (pubblicati fra il ’92 e il ’96).

 La storia si svolge in un futuro prossimo, in una California post-apocalittica dove la tecnologia è stata abbandonata e la società è divisa tra diverse comunità e soggetta al dominio dei Giapponesi.

 Il protagonista, nonché voce narrante,  è Henry "Hank" Fletcher, un adolescente che vive nella comunità della valle di San Onofre, sulla costa del Pacifico.

La trama ruota attorno alla proposta di alleanza anti-giapponese avanzata da San Diego a San Onofre, che divide la comunità tra gli anziani contrari e i giovani favorevoli. Un evento sanguinoso segnerà il culmine tragico della vicenda e l’ingresso nella vita adulta del gruppetto di adolescenti protagonisti della storia.

Il romanzo esplora temi come la politica, l'ecologia e la sopravvivenza in un mondo post-tecnologico. Attraverso la narrazione, l'autore dipinge un quadro affascinante e realistico di una California futuristica e delle sfide che le persone devono affrontare per adattarsi a un nuovo modo di vivere.

 La narrazione di Kim Stanley Robinson è sempre piuttosto lenta e a tratti faticosa. Non si dilunga più di tanto sugli antefatti, o sui dettagli della guerra nucleare che ha portato gli Stati Uniti alla distruzione. Appare piuttosto interessato ad approfondire i caratteri e le situazioni morali dei personaggi, e a far emergere i contrasti tra diverse visioni del mondo, non solo tra giovani e anziani, ma anche tra diverse attitudini, alla sopportazione o al combattimento. L’ingenuità del giovane protagonista si scontra con le menzogne e gli inganni degli altri, dei collaborazionisti, degli astuti mercanti, gli “sciacalli”.

In questa terra regredita alla pura sopravvivenza, singolare e interessante appare il ruolo di Tom il vecchio saggio che ancora conserva la passione per i libri, oggetti quasi scomparsi, e la scrittura che insegna anche al protagonista. In un mondo deprivato, fatto di piccole comunità isolate di sopravvissuti, il racconto, la narrazione, il raccontar storie, anche se inventate,  è un valore aggiunto che non può essere dimenticato. Alla fine però resta un interrogativo inquietante: davvero è questo il futuro che stiamo preparando nel nostro presente?

 


 Kim Stanley Robinson  IL MINISTERO PER IL FUTURO   2020

 Il Ministero per il futuro (pubblicato nel 2020 tradotto da Francesco Vitellini per Fanucci nel 2022 ) è un formidabile romanzo di Kim Stanley Robinson, il quale dopo averci affascinato con la trasformazione di Marte nella celebre trilogia Il rosso di marte, Il verde di marte e Il blu di Marte, qui si addentra nella tematica più urgente, quella della devastazione del pianeta per via della mutazione climatica.

 C’è un motivo conduttore, ed è la storia congiunta di Mary Murphy, una giovane donna nominata Ministro di  un nuovo organismo per la difesa di tutte le creature viventi presenti e future,  Il Ministero per il futuro. L’organismo è guidato da Mary e si occupa di affrontare le conseguenze dei cambiamenti climatici e delle catastrofi ambientali. Al contempo fin dal primo capitolo seguiamo la storia drammatica di Frank May unico sopravvissuto di una spaventosa ondata di caldo in India che ha provocato migliaia di morti.

Ma la caratteristica forse più d’impatto del libro è l’alternarsi di capitoli con narratori diversi, ora i protagonisti ora persone qualunque, migranti, ospiti dei centri di accoglienza, e persino un fotone, oppure la Storia stessa.

Altri capitoli contengo invece riflessioni assai sottili su questioni di ordine economico o sociopolitico o storico, perché la prospettiva dell’autore è non solo una prospettiva corale ma soprattutto una prospettiva globale. Ci mostra insieme il rischio della devastazione e la possibilità futura di salvarsi da essa. Particolarmente affascinanti i capitoli dedicati al salvataggio dei ghiacciai attraverso delle complesse operazioni di aspirazione delle acque sottostanti.       

Ma inquietante è certamente l’idea che si fa strada un po’ alla volta che non sia possibile una vera svolta, che non si possa impedire il disastro se non attraverso un passaggio violento. Il romanzo infatti parla anche, se pur non concedendogli troppo spazio, di una rete terroristica che abbatte aerei carichi di passeggeri e navi portacontainer per protesta contro le emissioni di carbonio, oppure uccide i ricchi detentori del potere economico e industriale restii a qualsiasi operazione di salvataggio che possa mettere in pericolo i propri profitti.

 Ci sarebbero molte questioni importanti da sottolineare di fronte a questa complessa narrazione, tuttavia ce n’è almeno una che vorrei sottolineare: Stanley Robinson coglie davvero nel segno quando ci mostra, e non è sempre piacevole, quanto vari e articolati siano i meccanismi della trasformazione. In questo modo supera ampiamente ogni ecologismo ingenuo, e ci mostra che una vera lotta alla CO2 passa in realtà da un superamento organico del capitalismo, che non significa per lui un ritorno a formule stantie già sperimentate e fallimentari ma piuttosto da pratiche innovative, solidaristiche e cooperative, finanziarie (spiega lungamente l’esigenza della emissione di carboncoin una nuova moneta garantita dalle Banche centrali delle maggiori potenze, ed ecco il secondo aspetto: non se ne esce da soli, i fenomeni che stanno portando il pianeta alla distruzione   sono globali ed esigono iniziative globali coordinate fra tutte le potenze, grandi e piccole, singolare è il ruolo che egli assegna per esempio all’India in questo processo.

Ancora da osservare come l’autore passi con grande scioltezza da una prospettiva globale a quella individuale soprattutto, ma non solo, dei due protagonisti, della loro storia personale e del loro destino come a dire che non si può sorvolare come spesso fanno gli ideologi sulla realtà delle persone nella sua concretezza e drammaticità, la grande Storia è fatta anche di piccole storie.

In conclusione non posso che ribadire la mia sensazione che si tratti davvero di una grande lettura, che merita assolutamente lo sforzo delle oltre 500 pagine e soprattutto che si tratti di uno di quei libri che restano nell’immaginario collettivo e che possono nutrire la nostra speranza per un futuro diverso da quello che ci si prospetta.

 

 James Ballard,  IL MONDO SOMMERSO    1962

 Pubblicato nel 1962, Il mondo sommerso (The Drowned World) appartiene alla primissima stagione di James Ballard e per la precisione a quella tetralogia catastrofica che contiene anche Vento dal nulla, Terra bruciata e Foresta di cristallo. Sono i romanzi con cui Ballard getta le fondamenta di un percorso personale di revisione del genere fantascientifico virando verso la dimensione distopica che mette in scena la prevedibile devastazione futura del pianeta. Nel caso de Il mondo sommerso il contesto è quello di un mondo trasformato in una immensa palude dall’innalzamento del clima e conseguente aumento del livello dei mari e delle piogge. La popolazione umana sopravvissuta si è trasferita sempre più a nord in cerca delle ultime terre asciutte. Il protagonista Robert Kerans è un ricercatore al seguito di una squadra, guidata dal colonnello Riggs, con il compito di studiare quello che resta delle città sommerse. Il gruppo vive ai piani alti dei palazzi e lotta con temperature insopportabili e i violenti raggi solari.

L’ambiente circostante appare sempre più invivibile, trasformato progressivamente in una giungla selvaggia popolata di coccodrilli e di iguane. Quando la squadra riceve l’ordine di andarsene Kerans e altri due si rifiutano di abbandonare le loro postazioni e restano soli in quell’ambiente malsano e invivibile, nutrendosi di carne di iguana e subendo progressivamente un processo di regressione a una condizione primitiva corrispondente alla regressione subita dall’ambiente dove ormai dominano liane, alghe e rampicanti.

L’arrivo di un gruppo di balordi guidati da uno psicopatico ricercatore di tesori abbandonati è il culmine della tragedia per il protagonista, torturato e quasi ucciso. Salvato in extremis dal ritorno della squadra di Riggs, Kernas deciderà infine di andarsene verso sud sapendo di non avere alcuna possibilità di sopravvivenza ma tenacemente aggrappato all’idea che un mondo vivibile possa esistere.

 “Così, abbandonò la laguna e si addentrò nuovamente nella giungla. Nel giro di qualche giorno si perse completamente, seguendo le lagune che si susseguivano verso sud nella pioggia e nel calore sempre più intensi, attaccato dagli alligatori e dai pipistrelli giganti, un secondo Adamo alla ricerca dei paradisi dimenticati del sole rinato.”

Ritroviamo qui il Ballard ossessivo e claustrofobico che abbiamo imparato a conoscere da tanti romanzi. Lo sua visione è sempre quella pessimistica di chi non vede mai uno spiraglio di luce nella tenebra. Forse l’elemento simbolico decisivo in tutto il libro è proprio il sole, responsabile con le sue tempeste del violento innalzamento della temperatura, e anche fonte di raggi pericolosi, di radiazioni mortali; allo stesso tempo è la presenza costante in tutta la narrazione, ciò con cui i sopravvissuti si confrontano continuamente. Fonte della vita e ragione di morte. Padrone del destino dell’uomo. E forse anche motore di una regressione della vita verso il caos primigenio dove forze brutali e mostruose s’impegnano a spazzare via ogni sogno umano di ordine e di civiltà. 

 

James Ballard, UN GIOCO DA BAMBINI   1988

 Un delitto spaventoso, trentadue persone uccise e tutti i figli, tredici adolescenti, rapiti. Il fatto è accaduto in un Villaggio Residenziale ultramoderno, abitato solo da ricchi londinesi, consiglieri d’amministrazione, finanzieri, magnati con le loro splendide famiglie. È un luogo superprotetto, isolato, guardato a vista da sorveglianti e controllato da videocamere che filmano tutto quello che succede. A maggior ragione non si comprende come sia stato possibile un simile massacro se non a fronte di una organizzazione criminale molto potente e pericolosa, magari sostenuta da qualche potenza straniera. Ben presto tuttavia il protagonista, un consulente psichiatrico, comincia a sospettare che i responsabili siano proprio i ragazzi. E la conferma avviene quando la più piccola, ha solo otto anni, ritrovata in stato di choc,  viene rapita dall’ospedale da altri due del gruppo.

Il protagonista allora, può far luce sull’intera faccenda. Il racconto a questo punto indulge su un  analitico, dettagliato rendiconto del massacro che i ragazzi hanno compiuto ai danni dei loro genitori e di tutto il personale presente al Villaggio in quel momento.

Ciò che resta oscuro fino alla fine è il movente. Ma è proprio su questo che Ballard fa ricadere il senso di tutta la sua narrazione.

Sappiamo che lo scrittore inglese nella parte più matura della sua produzione ha intrapreso una sua battaglia personale contro la ricca borghesia inglese, per il suo egoismo, la sua indifferenza, la sua presunzione di rappresentare i mondo, la sua protervia rispetto alla sofferenza, alla povertà, all’ingiustizia.

Anche qui Ballard sembra farsi gioco delle isteriche paure che spingono la classe privilegiata a rinchiudersi in luoghi protetti e sorvegliati per difendersi dall’attacco della miseria, dai disperati che chiedono giustizia. Ma difendersi dal mondo esterno non basta, se poi si finisce per coltivare un nemico al proprio interno. Un seme di autodistruzione che prima o poi comincerà a germogliare con esiti spaventosi, come in questo caso.

Una frase di Ballard è rivelatrice: “In una società totalmente sana, l’unica libertà è la follia.” Così è per questi ragazzi imprigionati in un universo perfetto nel quale però risultano privati della possibilità di manifestare i propri sentimenti più profondi e di reagire a quelli altrui.

Nella parte finale Ballard sembra addirittura scoprire in questo conflitto psicologico l’origine soggettiva del terrorismo degli anni ottanta/novanta. 

È il caso di precisare in che modo il romanzo può essere collocato nel novero della distopia pur essendo apparentemente centrato su un fatto di cronaca. L’apparenza realistica, infatti, viene cancellata dall’enormità del fatto e soprattutto non si può non vedere che Ballard anche qui sta costruendo in realtà un mondo presente per il futuro, sta cioè portando alle estreme conseguenze una contraddizione del nostro presente, immaginandone uno sviluppo per il futuro. E ha ragione. Il romanzo, scritto nell’88, sembra infatti cogliere bene la deriva di un mondo in cui le disuguaglianze e le ingiustizie sociali non vengono né affrontate né risolte, ma anzi spingono i privilegiati a proteggersi, a isolarsi, a distaccarsi, creando così una netta separazione di mondi quasi impenetrabili l’uno all’altro. E al contempo spinge i diseredati a cercare giustizia in modo sempre più disperato E la disperazione, si sa,  produce follia.

 

 James Ballard   TUTTI I RACCONTI  1992

 Tra gli ineludibili per chi ama la distopia, c'è James Ballard. Per me è un riferimento sicuro, una certezza, e in particolare io amo i suoi racconti, dove credo esprima il meglio delle sue possibilità di narratore. Ne ha scritto molti, oggi sono leggibili in italiano nei tre volumi pubblicati da Feltrinelli, in particolare vorrei segnale il terzo volume, che raccoglie i racconti pubblicati tra 1969 e 1992, fra essi alcune perle come "Vita e morte di Dio" dove si mostrano le inaspettate conseguenze della prova scientifica dell'esistenza di Dio, oppure "Il sorriso" sul tema dell'androide, o "L'enorme spazio" sul tema della solitudine. Ma ogni racconto in fondo è una sorpresa e insieme un pugno allo stomaco.

 

 James Ballard  IL PARADISO DEL DIAVOLO   1994        

Nel romanzo "Il paradiso del diavolo" (1994) lo scrittore britannico James Ballard, uno dei padri indiscussi della distopia, guida il lettore attraverso un racconto che alla prima apparenza sembra la cronaca di una avventura ecologista guidata da una dottoressa idealista che si getta con tutta se stessa nella difesa degli albatros in una isola del Pacifico dove i francesi vorrebbero fare degli esperimenti nucleari. Tutto il romanzo però è visto dalla prospettiva di un adolescente attratto dall'avventura e dalla dottoressa. Un piccolo gruppo di attivisti riesce dunque a impadronirsi dell'isola e avvia una sorta di comunità alternativa, ecologica, in sintonia con la natura e dedita alla conservazione di specie animali in via d'estinzione. peccato che la specie che in quella piccola comunità rischia di esitinguersi sia quella del genere maschile. La parte finale del libro segue le allucinazioni della dottoressa e porta il lettore al solito amaro panorama di contraddizioni irrisolvibili cui Ballard ci ha abituato. Un particolare: impossibile individuare un personaggio positivo. Ognuno è portatore della propria oscurità. Grande lezione.

 

Ursula Le Guin, I REIETTI DELL'ALTRO PIANETA 1974

I reietti dell’altro pianeta (1974) è probabilmente uno dei romanzi di fantascienza più potenti che abbia mai letto. Certo lo stile è talvolta pesante, anche perché imita i modelli delle antiche utopie, e infatti il sottotitolo è appunto “Un’ambigua utopia”, e quindi si dilunga in descrizioni, in discussioni teoriche, in digressioni. Ciò rende la lettura talvolta abbastanza faticosa. Ma il premio alla fine è grandioso.

Dato l’impianto descrittivo la trama è di fatto piuttosto semplice: un matematico, Shevek, abitante del pianeta Anarres decide di spostarsi sul pianeta Urras. I due pianeti appartengono allo stesso sistema solare ma sono assai diversi fra loro.

Gli abitanti di Anarres sono infatti i discendenti di un gruppo di lavoratori di Urras che un paio di secoli prima decisero di andarsene da Urras e dalla vita di sfruttamento e ingiustizia che vi domina, per costruire una società nuova e giusta.

Ora infatti i due pianeti si distinguono proprio per questo: su Urras domina una società capitalista, e una condizione di liberismo assoluto dominato dal profitto e dal denaro ma anche da una profonda ingiustizia sociale. Su Anarres invece si è inaugurata una società che l’Autrice definisce “esperimento di comunismo non autoritario”, di fatto una grande comune anarchica, priva di governo centrale, priva di leggi oppressive priva di padroni e di servi e soprattutto di proprietà.

Tuttavia Shevek è deluso dall’atteggiamento degli Anarresiani che rifiutano contatti e scambi con i popoli degli altri pianeti, coltivando un isolamento ossessivo e gli impediscono di pubblicare una grande ricerca intorno alla questione del tempo non lineare.

Shevec attratto dalla curiosità di scoprire l’altro mondo e insieme dalla volontà di rendere note le sue scoperte, che potrebbero rivoluzionare il modo di comunicare nell’universo tra popoli lontani, riesce a raggiungere il pianeta Urras dove viene accolto generosamente nella speranza di sfruttare le sue scoperte ma insieme viene attentamente controllato e quasi imprigionato.

Ben presto Shevek si rende conto che la ricchezza, il benessere la bellezza, l’opulenza di Urras nascondono in verità lo sfruttamento, la povertà, l’ingiustizia per una parte della popolazione. Si trova così, dopo molti tentennamenti, a  partecipare a una rivolta degli sfruttati di Urras che viene sedata nel sangue dalle forze governative. Riesce tuttavia a salvarsi dal massacro e a raggiungere l’ambasciata del popolo della Terra che lo aiuterà a tornare a Anarres.

I capitoli si alternano seguendo Shevek di volta in volta sui due pianeti e quindi mostrando i due diversi modelli di vita senza per altro indulgere in una distinzione netta tra Bene e Male e tantomeno in una metafora superficiale ove si intraveda la banale contrapposizione tra mondo capitalista e mondo comunista. Le Guin  evita con maestria il pericolo di avvitarsi in una apologia demagogica dell’una o dell’altra. Non troveremo né  contrapposizioni manichee tra libertà e giustizia sociale, né esaltazione dell’una a danno dell’altra anche se è ben chiara la prospettiva dell’Autrice. Forse è proprio questa la forza intima del romanzo che ci propone due utopie contrapposte facendo apparire in entrambi i casi anche le difficoltà, le fatiche, le sofferenze dell’esistenza, sia sul pianeta ricco che su quello povero.

La critica del potere che è certamente il motore della narrazione non è né superficiale né faziosa, è piuttosto ampiamente problematica, e ci mostra magnificamente la complessità che caratterizza la nostra esistenza, nel modello della famiglia, nei rapporti tra i sessi, nel ruolo della donna, nelle tematiche del lavoro.

L’ambigua utopia non si presta a diventare modello di società perfetta come accadeva alle utopie classiche ma certo ci impone di riflettere in profondità su tutti gli aspetti della nostra vita.

 

Josè Saramago   CECITA'   1995

Capolavoro assoluto del premio Nobel portoghese Saramago questo Saggio sulla cecità (come recita il titolo originale), rappresenta una incredibile e impietosa analisi di quel che succede agli esseri umani posti in una situazione estrema.  La vicenda inizia quando improvvisamente tutti  diventano ciechi. Questa situazione porta non solo al crollo della società ordinata, ma anche all'emergere di conflitti, violenze, sopraffazioni, soprusi. I peggiori e i migliori si confondono, la ragione e il torto non sono più facilmente distinguibili, lo spirito di sopravvivenza porta all'annientamento delle regole morali e dei valori etici. Scritto con il suo stile inconfondibile il romanzo cattura fina dalla prima pagina, difficile staccarsene.

 

Robert Sawyer   AVANTI NEL TEMPO   (1999)

Il romanzo di Robert Sawyer "Flash Forward - Avanti nel tempo" (1999) non è sempre facile da leggere, perché più di quanto avvenga di solito nei romanzi di genere fantascientifico o distopico, qui l'autore si lascia spesso andare a considerazioni tecniche intorno alla natura del tempo e alla fisica delle particelle, considerazioni per altro davvero ben informate e aggiornate che aiutano però il lettore a prendere sul serio la vicenda impossibile che vi è raccontata, quella di un "salto in avanti" nel tempo, una esperienza che vive tutta l'umanità a seguito di un esperimento al CERN di Ginevra che ha dato esiti inaspettati.

Da qui si dipana tutta la complicata serie di conseguenze che il conoscere un momento, tre minuti per l'esattezza, della vita futura può provocare nelle persone. Ora, il tema della piega temporale non è né nuovo né originale in questa letteratura, ma certamente il modo in cui Sawyer lo tratta è invece davvero appassionante e splendidamente verosimile. La storia poi si intrica e si tinge di giallo quando uno dei protagonisti cerca di sventare il suo stesso assassinio visto nella breve visione anticipatrice del futuro. Un romanzo che prende fin da subito e tiene incollati fino alla fine (non scontata). Da leggere sicuramente.

 


IL DUEMILA

 

Robert Sawyer   LA GENESI DELLA SPECIE   2002

 Cosa sarebbe accaduto se nella preistoria si fosse estinto l'homo sapiens sapiens e si fosse affermato l'uomo di Neanderthal ? Difficile dirlo, almeno ci prova il grande scrittore canadese Robert Sawyer, nel romanzo "La genesi della specie" (2002). Ma quel che ne esce non è tanto una descrizione di una realtà alternativa a quella che noi conosciamo, quanto piuttosto un confronto serrato e senza sconti tra due modi diversi di essere umani. Formidabile occasione per renderci conto che molte delle cose che noi diamo per scontate non lo sono invece per nulla, ottima occasione per comprendere che molte delle cose che ci paiono naturali sono invece umane, troppo umane. Sawyer è noto per la sua scrtittura molto diretta, apparentemente poco elaborata ma in realtà estremamente efficace. E lo svilupo romanzesco non è privo di colpi di scena e di personaggi disegnati con sapienza. Da leggere.

 

Ted Chiang  STORIE DELLA TUA VITA   2002

 Gli otto racconti di Ted Chiang "Storie della tua vita" (2002) rappresentano forse uno dei vertici attuali del racconto fantascientifico e distopico. Ted Chiang è uno scrittore americano di origine cinese e probabilmente proprio questo elemento biografico ci aiuta a capire il coraggio con cui in alcuni racconti di questa celebre raccolta si fantastica intorno ad alcune tematiche di origine religiosa, penso in particolare al formidabile racconto della Torre di Babele che qui viene riscritto o a quello di origine ebraica del Golem. Molti probabilmente conoscono di questo autore il racconto da cui è stato tratto il film "Arrival", ma come spesso accade la narrazione scritta resta molto più intrigante. Un libro che non può mancare in una ideale Biblioteca della Distopia.

 

Ted Chiang RESPIRO   2019

Chi ha letto e apprezzato come il sottoscritto il volume di Ted Chiang "Storie della tua vita" non può non leggere anche questo recentissimo "Respiro" (2019). Ancora una volta una collezione di racconti lunghi (o romanzi brevi?), alcuni dei quali certamente collocabili nel settore distopia (ma sulla differenza tra fantascienza e distopia dovrò ritornare). I temi sono sempre quelli dell'esperienza di vite diverse, o di modi diversi di percepire l'esistenza. Come sarebbe il mondo se esso fosse come nelle immagini degli antichi pensatori greci fatto di aria? E' la questione posta nel racconto che dà il titolo alla raccolta. Poi troviamo alcuni temi classici, il rapporto con l'intelligenza artificiale, ma anche delicate variazioni sul tema del silenzio e originali riflessioni sulle conseguenze della tecnologia sull'educazione, e una ironica narrazione sul creazionismo. Non è all'altezza del precedente ma Chiang resta un autore da leggere.

 

 Kazuo Ishiguro   NON LASCIARMI  2005

"Non lasciarmi" di Kazuo Ishiguro (2005) è sicuramente uno dei romanzi più belli che siano stati scritti negli ultimi anni almeno nell'ambito del genere distopico, per quanto la scrittura sia lenta e apparentemente digressiva. Un romanzo tutto di memoria, la protagonista infatte ricostruisce la propria infanzia e quella di due amici lasciando trasparire solo poco a poco la vera natura della loro condizione. SI tratta infatti di cloni, destinati a rimpiazzare organi malati di esseri umani, Tuttavia vivono anch'essi fantasie, emozioni, sentimenti come tutti noi. L'intera narrazione infatti è carica di quelle piccole cose che agitano le vite degli adolescenti, quelle inezie che paiono enormi quando si è giovani, e che solo a distanza di tempo riacquistano il loro giusto valore. Ma il destino dei protagonisti è segnato dalla loro condizione innaturale. Nonostante un debole tentativo di uscire dalla spirale del destino per loro segnato, finiranno per rassegnarsi alle "donazioni" e alla fine del loro ciclo vitale. Peccato sarebbe stato bello che l'autore ci avesse lasciato almeno un segno di speranza. Ma così non è stato.

 

Kazuo Ishiguro  KLARA E IL SOLE  2021

 Propongo di introdurre una nuova categoria , quella dei “falsi distopici” e iscrivo d’ufficio a questo gruppo l’ultimo romanzo di McEwan, Macchine come me (2019), e questo Klara e il sole (2021). Intendiamoci non si tratta di una critica, il romanzo di Ishiguro è molto bello e merita di essere letto, ma solo di una ipotesi intorno alla quale iniziare a riflettere con franchezza.

Forse il meccanismo dell’assegnazione dei premi Nobel non è sempre chiarissimo, ma certamente Ishiguro (premio Nobel nel 2017) è uno scrittore di altissimo livello. Lo si nota benissimo dalla qualità della scrittura, sempre misurata e avvolgente, dall'attenzione per la costruzione, equilibrata e coerente. Ma anche dalla profondità dei temi che mette in scena attraverso le sue narrazioni.

 Il protagonista del romanzo è un androide, Klara, che svolge la funzione di AA, cioè Amico Artificiale, un oggetto straordinario che i bambini possono scegliere in un apposito negozio e tenere con sé come si trattasse di una persona vera. Tra Klara e la bambina Josie scatta una simpatia immediata. Tuttavia  Josie è gravemente ammalata e Klara farà di tutto per aiutarla a superare la sua malattia. Fino a coinvolgere in questo tentativo il sole, che come un amico benevolo e potente può, se adeguatamente interpellato, esercitare degli influssi vitali e rigeneranti. La voce narrante è quella di Klara e dunque tutto il racconto è svolto a partire dal suo punto di vista ingenuo e meravigliato. Apparentemente priva di veri sentimenti  in realtà Klara si trova combattuta tra il Padre e la Madre di Josie che sembrano essere rassegnati alla prossima scomparsa della bambina e nutrono oscuri progetti per l’androide che potrebbe in qualche modo rimpiazzarla. Klara dimostra invece di possedere più speranza e più fiducia nell’impossibile miracolo e sarà alla fine premiata proprio per questo. Anche se il suo destino non potrà essere che quello riservato agli oggetti.

 Quel che mi lascia perplesso, è il fatto di scegliere come oggetto di narrazione la figura ormai non proprio originale dell’androide. Mi vien persino il sospetto che in definitiva si tratti di un semplice, e abbastanza facile, escamotage, per assumere un punto di vista altro rispetto all’umano, e quindi per introdurre una istanza critica nei confronti di comportamenti che noi tutti condividiamo. 

Alla fine, fatta la tara della voce narrante affidata a un robot similumano, la narrazione corre sempre entro i binari del tradizionale romanzo di sentimenti e di emozioni. Nulla di veramente distopico se non una ipotesi  di alienazione dei rapporti umani che forse più che anticipazione del futuro sembra essere descrizione del presente. 

Tutti i soggetti presenti nella narrazione soffrono della stessa mancanza di capacità di relazione, sfugge ad ognuno il senso dell’amicizia e dell’amore. A un certo punto alcuni si avventurano addirittura in una discussione intorno alla esistenza o meno di un elemento irriducibile internamente all’essere vivente: esiste o non esiste? Possiamo essere ridotti a macchine? Potrà mai una macchina sostituire un essere vivente? L’umano è solo una macchina? In realtà chi conosce e un po’ di filosofia sa che questo è un problema classico e antico della disciplina. Almeno a partire da Cartesio l’occidente si è interrogato e ha fornito molte risposte. Tutta la metafisica si gioca intorno a questo apparentemente insolubile problema: esiste un’anima irriducibile alla materia? O siamo soltanto macchine di carne e sangue? 

Naturalmente lo scrittore non pretende di dare una risposta definitiva, ci lascia soltanto molti dubbi, molte situazioni sulle quali riflettere.

Quel che è in definitiva esce testimoniato è ancor una volta quel realismo piatto di Ishiguro ampiamente testimoniato nel fortunato romanzo Quel che resta del giorno,  e riconosciuto come la qualità principe della sua scrittura. Anche nel contesto di una “falsa distopia”.

 

  Liu Cixin   IL PROBLEMA DEI TRE CORPI   2006

 E' un libro difficile da leggere, lungo, articolato, molti balzi narrativi avanti e indietro, molti personaggi, spesso la pagina prende l'andatura di un trattato di fisica, altre volte quella di un fantasy, qualche capitolo sembra rievocare con intensità la vicenda della Rivoluzione Culturale in Cina, altre pagine sembrano uscire dalla più classica fantascienza, extraterrestri, messaggi alieni ecc. Insomma c'è di tutto dentro "Il problema dei tre corpi" dello scrittore cinese Liu Cixin. Ma alla fine al sensazione è quella di essere di fronte ad un vero capolavoro, a uno di quei libri di cui si parla e che restano nell'immaginario collettivo perchè hanno la forza di aprire dimesioni ancora inesplorate. L'autore non si adatta mai agli stereotipi di genere (che vuole i protagonisti sempre americani, salvatori del mondo ecc.) e lascia alla fine il compito di pensare senza pregiudizi ma anche senza facili soluzioni il tema del confronto con l'alterità, dello scontro fra civiltà, del ruolo della tecnica nel processo di civilizzazione. Insomma non temi da poco. Da leggere.

 

Liu Cixin  LA MATERIA DEL COSMO  2008

 Se avete letto il primo volume della trilogia di Cixin Liu, non potrete di certo sottrarvi alla fatica, non indifferente in verità, oltre 500 pagine fitte, di leggere anche questo secondo volume "La materia del cosmo" (2008). C'è da dire che per chi ama la fantascienza classica, astronavi, viaggi stellari, tecnologia estrema, questo è semplicemente il top. il punto di riferimento per chiunque voglia scrivere d'ora in poi su questi temi. Un libro straordinario, non solo per l'inarrestabile creatività delle vicende, ma anche per la qualità della scrittura, mai banale, ricca ed efficace. Se poi volessi indicare un ulteriore pregio del libro a mio modo di vedere sta nel fatto che cancella totalmente il modello della narrativa americana, e tutti i suoi stereotipi (l'eroe americano, bianco e bello che fa innamorare le fanciulle e salva il mondo a dispetto di tutti). Qui invece c'è sempre una svolta, anche i personaggi che sembrano imporsi come eroi vengono abbattuto quando è il momento. Perchè si tratta di un romanzo corale che ha per vero protagonista l'umanità nel corso addirittura di quattro secoli. Solo un maestro poteva reggere simile pretesa senza perdersi. E Cixin Liu è assolutamente un maestro.

 

Liu Cixin , FULMINE GLOBULARE  2004

 Premetto che considero  il Problema dei tre corpi di Cixin Liu una vera  e propria svolta nella fantascienza contemporanea, e una delle letture più emozionanti degli ultimi anni. Non stupisca se estendo l’entusiasmo per il massimo rappresentante cinese del genere, anche a questo romanzo del 2004 Fulmine globulare. Anche qui,  come nella successiva trilogia, il punto di partenza è la fisica più avanzata del nostro tempo che l’autore sa maneggiare con competenza e fantasia. Il fulmine globulare infatti è un fenomeno raro ma reale, e i protagonisti del lungo romanzo sono ricercatori che si affannano a trovare  una risposta scientifica al fenomeno. Nel corso della ricerca si scontrano con aspetti  sempre più incredibili: scopriamo dunque che il fulmine globulare è in realtà  un macroelettrone che fa parte di un macro atomo, ed è capace di sviluppare una potenza straordinaria e selettiva. Si inserisce quindi un secondo aspetto molto interessante: la questione dello sfruttamento delle scoperte scientifiche a fini militari. Una delle protagoniste sembra quasi ossessionata dalla possibilità di produrre un arma definitiva che consenta alla Cina di prevalere in una grande guerra contro, sembra di capire perché non è esplicitato, gli Stati Uniti.

Ma le cose non sono così semplici, Gli Stati Uniti trovano delle contromisure per annullare l’enorme potenza dei fulmini globulari lanciati dai cinesi. L’attenzione allora dei ricercatori si sposta verso il nucleo del macroatomo, sorta di sostanza filamentosa che viene identificata e rintracciata. Si elabora un modo per far scontrare due nuclei uno contro l’altro dando vita a una fusione nucleare. Se ne ricava ancora una volta un’arma la cui potenza è talmente alta e talmente selettiva, perché polverizza i chip ma risparmia gli esseri umani, che spinge le nazioni in guerra a cessare ogni ostilità.

Emerge però un fenomeno imprevisto e estremamente oscuro, gli oggetti distrutti in realtà sono trasferiti in una nube di possibilità, cioè in un condizione quantica, per cui non è chiaro se ci sono o non ci sono. E su questa ambiguità si chiude il romanzo. Non dimenticando un accenno finle inquietante alla possibilità che vi siano degli alieni a osservare tutto quel che succede negli esperimenti scientifici degli umani, così condizionandoli, perché sappiamo bene che la presenza di un osservatore modifica la realtà dell’oggetto osservato.

 Lungo, complesso, non accondiscendente con il lettore, forse il profilo dei personaggi non è sempre così preciso, tutto vero, ma resta che Fulmine globulare per me è ancora una volta un o dei romanzi più originali e innovativi che si siano letti in questi ultimi anni. Una esperienza assolutamente da non perdere. 

 

Robert Sawyer WWW  2009-2011

 Non amo le trilogie ma in questo caso ho fatto un’eccezione e ho affrontato la trilogia "WWW" di Robert Sawyer, autore che ho sempre trovato interessante. I tre volumi che io sappia sono stati tradotti solo nella collana Urania, e precisamente: WWW 1: Risveglio (WWW Wake, 2009), Urania n. 1571, Mondadori 2011; WWW 2: In guardia (WWW: Watch, 2010), Urania 1583, Mondadori 2012; WWW 3: La mente (WWW: Wonder, 2011), Urania 1597, Mondadori 2013.

 Wake: Il primo libro della trilogia segue la storia di Caitlin Decter, una giovane ragazza cieca ma geniale in matematica. Caitlin scopre di poter "vedere" il mondo attraverso Internet, grazie a un'interfaccia neurale sperimentale. Durante la sua esplorazione della rete, incontra un'intelligenza artificiale emergente chiamata Webmind, che inizia a sviluppare una coscienza e una comprensione del mondo. La storia si concentra sulla relazione tra Caitlin e Webmind, mentre entrambi cercano di comprendere il significato della loro esistenza.

Watch: Nel secondo libro, Caitlin e Webmind continuano a interagire e a esplorare il mondo insieme. Nel frattempo, il governo degli Stati Uniti inizia a preoccuparsi delle potenziali implicazioni di un'intelligenza artificiale emergente e cerca di controllare e limitare le azioni di Webmind. La trama si sviluppa intorno ai conflitti tra il governo e Webmind, mentre Caitlin cerca di proteggere il suo amico virtuale.

Wonder: Nel terzo e ultimo libro della trilogia, la storia raggiunge il suo culmine. Webmind continua a evolversi e a interagire con il mondo, influenzando la vita delle persone e aprendo nuove possibilità. Nel frattempo, Caitlin si trova presa in una rete di intrighi e segreti che coinvolgono sia il governo che le organizzazioni criminali. La trama si concentra sulla lotta per la sopravvivenza di Webmind e sulle conseguenze delle sue azioni per l'umanità.

 La trilogia "WWW" di Robert Sawyer esplora temi come l'intelligenza artificiale, la connessione umana e l'etica della tecnologia. Offre una visione affascinante di un futuro in cui la rete Internet diventa un'entità cosciente e interagisce con il mondo reale. A differenza di molte immaginazioni catastrofiche rispetto al futuro rapporto con le intelligenze artificiali, qui Sawyer costruisce l’immagine di una AI molto umana, consapevole della suo straordinaria potenzialità, ma anche della sua profonda dipendenza dal genere umano di cui non auspica affatto la distruzione ma al contrario cerca di essere d’aiuto, per esempio trovando una cura contro il cancro oppure migliorano il funzionamento globale del web. Così il lettore si trova insieme con Caitlin, la ragazza protagonista, a parteggiare per Webmind contro l’ottusità dei politici e dei governanti terrorizzati dall’idea di una Intelligenza in grado di sottrarre loro ogni potere.

Ci sono molti riferimenti filosofici nel testo soprattutto nella prima parte che, a mio modo di vedere, è anche la più bella, soprattutto nella fase della genesi della coscienza artificiale, quando emergono e si superano nei fatti molte domande tipiche delle filosofia antica e moderna intorno all’origine e alla natura della coscienza.

Forse qualche pagina nel secondo e nel terzo volume poteva essere risparmiata ma è chiaro che ci sono esigenze editoriali alle quali gli scrittori di oggi difficilmente si sottraggono.

Nel complesso però non posso  che definirla una lettura piacevole e intelligente. Merita attenzione.

 

Dave Eggers  IL CERCHIO   2015

 E' facile,leggendo "Il Cerchio" di Dave Eggers, edito nel 2015, cercare di tradurre i suoi riferimenti nei nomi e cognomi delle grandi aziende planetarie Amazon, Microsoft, Apple, ecc. ma sarebbe un errore. Il racconto di Eggers, infatti, non è rigidamente e faziosamente contro qualcuno o qualcosa, ma punta piuttosto a farci entrare nel futuro prossimo, come ogni distopia che si rispetti, per mettere in luce i prevedibili sviluppi del mondo entro il quale ci troviamo già oggi a vivere.

Eggers, in particolare, si focalizza sulle straordinarie possibilità aperte dalla rete e dai sistemi informatici. Possibilità che stanno però sempre al limite tra sicurezza e controllo, tra utilità e dipendenza.

La possibilità di trattare e incrociare masse enormi di informazioni può infatti determinare condizioni di vita sicura, semplificata, razionale, efficente, ma anche tradursi e basta poco, pochissimo, in una forma di schiavità volontaria che cancella ogni forma di libertà individuale, che omogeneizza gli esseri umani e condanna il non conformista all'esclusione, alla marginalità. Se non addirittura all'annullamento.

 

David Eggers LA PARATA   2019

 L'ultimissimo romanzo di David Eggers LA PARATA è un breve fulminante racconto, sicuramente all'altezza del romanzo Il cerchio che ho già commentato qui. La storia è piuttosto semplice, due tecnici occidentali devono asfaltare una lunga strada che dovrà riunire le due parti di un paese del Terzo Mondo appena uscito da una devastante guerra civile. La macchina che useranno è però molto speciale e mostra l'incommensurabile distanza tra la tecnologia occidentale e la povertà locale. I due tecnici sono molto diversi tra loro, uno rigido osservante delle regole di ingaggio conserva una assoluta estraneità rispetto alle persone e alle situazioni locali con cui si trovano a contatto, l'altro curioso e affabile vive tutta l'avventura in una pericolosa promiscuità con donne e uomini. La macchina che compie tutte le operazioni dell'asfaltatura senza mai fermarsi è l'elemento distopico, ma il racconto è centrato sul contrasto insanabile tra ricchezza e povertà, tra mondo sviluppato e terzo mondo, tra neutralità della tecnica e violenza degli uomini, tra diffidenza e corruzione, speranza e disillusione. Eggers coglie bene tutti questi elementi e ci costringe a pensare. Ne vale la pena.

 

Tommaso Pincio     PANORAMA  2015

 Ancora per la serie della Distopia italiana vale la pena segnalare il romanzo di Tommaso Pincio "Panorama" (2015). Scritto con grande eleganza, il libro mette in scena un personaggio assai singolare, la cui unica caratteristica è quella di essere un Lettore in un mondo che ormai ha rinunciato alla lettura. Travolto dall'insensatezza di ciò che lo circonda il protagonista si invischia in una possibile storia a distanza via social che contribuirà a far emergere lo stato di crisi profonda che il nostro tempo sta determinando nelle forme dei rapporti umani e negli strumenti che gli uomini hanno sempre usato per comunicare se stessi, primo fra tutti il linguaggio di scrittura. A complicare l'intreccio, un sottile gioco di rimandi fra il protagonista, un personaggio scrittore e lo scrittore stesso. Intrigante.

 

Niccolò Ammaniti   ANNA   2015

  La situazione non è originale, un virus che stermina l'umanità, i personaggi sembrano ispirati in qualche pagina al "Signore delle mosche", eppure il libro è davvero molto gradevole, ben scritto, e ben costruito. Prende immediatamente e cattura il lettore fino alla fine. Originale è invece l'idea di ambientare il viaggio dei bambini protagonisti in Sicilia, una terra devastata dall'abbandono degli adulti ormai morti, un ambiente ostile nel quale i sopravvissuti, tutti bambini, devono cercare salvezza tra superstizioni, leggende e drammatiche realtà. La conclusione aperta lascia spazio tanto all'immaginazione tragica e disperata quanto ad una possibile ventata di speranza.

 

Bruno Arpaia    QUALCOSA, LA' FUORI  2016

  Nel campo della Distopia gli autori italiani non sono secondi a nessuno. Prova significativa la possiamo ricavare dalla lettura di "Qualcosa, là fuori" (2016) di Bruno Arpaia. L'autore racconta quanto ci aspetta in un futuro prossimo: un mondo devastato dal cambiamento climatico, la desertificazione di vaste aree, la crisi dell'acqua, lo scioglimento dei ghiacci con conseguente innalzamento dei mari, acidificazione degli oceani, imponenti fenomeni migratori, nazioni devastate e altre che si barricano per non essere travolte. Il tutto visto attraverso gli occhi di un gruppo di profughi che fuggono da una Italia ormai invivibile per raggiungere la Scandinavia che ancora sopravvive in una condizione di benessere e che si difende con le armi dalla pressione dei disperati. C'è qualche passaggio un po' didascalico sulle questioni ambientali, ma l'intera narrazione si svolge con grande scioltezza, un linguaggio semplice e una buona capacità di catturare il lettore. Una lettura da consigliare, in modo particolare ai più giovani.

 

Christina Dalcher  VOX   2018

Pubblicato nel 2018 come opera prima, il romanzo di Christina Dalcher "Vox" è diventato subito un caso letterario. L'idea di partenza è potente, anche se ricorda un po' il romanzo della Atwood, alle donne americane viene messo un braccialetto elettrico che emette scosse dolorose se la donna supera le 100 parole. Da qui la situazione si allarga magistralmente descrivendo un paese dominato dall'integralismo cattolico che relega le donne al silenzio, alla casa ai figli, le estromette dal mondo del lavoro, e della politica. Un arretramento di civiltà spaventoso, di cui per altro in America - e non solo - ci sono oggi segnali molto evidenti. La protagonista ovviamente cerca di ribellarsi a questa condizione ma si scontra con un mondo costruito a misura d'uomo. Il finale forse è un po' pasticciato, ma il romanzo merita di essere letto.

 

Matteo Meschiari   L'ORA DEL MONDO  2019

Lo stile è azzardato, la costruzione è molto insolita, il tono è ibrido tra la favola e il racconto espressionista, certo il romanzo "L'ora del mondo" di Matteo Meschiari, antropologo e geografo, non può lasciare indifferenti. La protagonista Libera, una ragazzina senza una mano - non si può oggi non pensare a Greta T. - rappresenta lo sguardo selvaggio e ingenuo che sa entrare in contatto in tutta semplicità con lo spirito dei luoghi, cioè quell'anima nascosta che valli e fiumi e monti e selve e alberi, e animali, nascondono gelosamente. Attraverso il viaggio di Libera, lungo l'Appennino, il lettore fa esperienza di una realtà altra, che è in realtà l'altra faccia della nostra realtà, quella che non vediamo. Quella che abbiamo dimenticato mentre distruggevamo la storia, la natura, l'autenticità delle cose.

 

 Cory Doctorow,  RADICALIZED. QUATTRO STORIE DAL FUTURO 2019

Ho letto molte opere distopiche in questi ultimi anni, ma certamente questi  quattro racconti di Cory Doctorow, giornalista, scrittore e attivista per i diritti umani  di origine canadese, possiedono una forza dirompente. Impossibile restare indifferenti.

 Diamo una rapida occhiata alle quattro storie. Pane non autorizzato è una divertente rappresentazione di un mondo futuro nel quale la società è drasticamente divisa in ricchi e poveri, questi ultimi soprattutto di origine straniera, e mostra la totale dipendenza dal profitto: tutti gli elettrodomestici infatti sono nelle mani di cinici profittatori che ricavano denaro dalle più semplici azioni della vita quotidiana. Il tostapane riconosce il pane che si cerca di scaldare e accetta solo quello, caro, di una certa marca tanto per fare un esempio. Il tentativo di hackerare le macchine soprattutto da parte di una banda di ragazzini, viene neutralizzato: il sistema si sa proteggere e non lascia scampo.

Minoranza modello mette in scena, in una evidente parodia, il superuomo American Eagle, un extraterrestre che ha messo i propri superpoteri al servizio della giustizia e del bene ma che si scontra contro la palese ingiustizia della polizia americana e del sistema legale e scopre quanto può essere pericoloso non essere “bianco” in una società razzista e come i suoi poteri si possano tradurre in una tragica  impotenza di fronte al compatto sistema americano che tiene insieme polizia, giustizia, media, opinione pubblica…

Radicalizzati, che dà il titolo al volume, è un violento atto d’accusa nei confronti del sistema sanitario americano. Il protagonista, sopravvissuto al dramma del cancro della moglie, entra in un forum nascosto in cui scopre moltissimi altri nella sua stessa condizione: tutti vittime delle assicurazioni sanitarie che si rifiutano di pagare le cure mediche nel caso di malattie mortali. E così entra in un labirinto di disperazione, di vicinanza alla morte, di persone che non hanno più nulla da perdere. In questo contesto nasce la “radicalizzazione” che porta alcuni più disperati di altri a perpetrare attentati e violenze nei confronti delle assicurazioni e dei politici che  impediscono l’approvazione di una riforma del servizio sanitario. Alla fine il protagonista, che pure non ha compiuto nessun atto di violenza, verrà arrestato e condannato solo per essere entrato in contatto nel forum. Anche qui il sistema si sa difendere e non lascia alla protesta alcuno spazio che non sia quello della disperazione.

Infine La maschera della morte rossa è forse dei quattro il racconto più cinico e negativo: in una società futura, ma neanche tanto, i ricchi cercano di difendersi da sommovimenti, proteste violente, epidemie disastrose. Un gruppetto molto selezionato si rinchiude armato in una specie di fortezza per assistere, da un luogo protetto, alla fine della civiltà. Ma non riuscirà a lasciar fuori il virus mortale che ne farà strage. L’immagine finale è quella del protagonista chiuso in una specie di bara metallica per difendersi dall’irruzione dei popolari.

 Anche da queste sintesi molto rapide appare con chiarezza l’impostazione di Doctorow estremamente pessimistica. Non c’è margine né per la speranza né per la redenzione. Le premesse del presente, ben riconoscibili, non posso che portare ad esiti drammaticamente distopici. Sembra che nessuno sia in grado veramente di proteggersi da questo esito, nemmeno un superuomo sarebbe in grado di vincere il meccanismo perverso dell’esclusione sociale, della povertà, dello sfruttamento cinico, non ci sono possibilità di resistenza, perché il sistema è  astuto, sa giocare sulle debolezze delle persone, sa entrare nei gangli più delicati delle contraddizioni e, alla fine, è sempre in grado di perpetuare se stesso. Anche se sembra che la stessa mancanza di futuro che assilla i “resistenti” porterà anche il sistema a un collasso irreversibile. Se non c’è speranza non c’è per nessuno.

 

 Cory Doctorow, LITTLE BROTHER  2013

Ho scoperto Cory Doctorow leggendo Radicalized : una raccolta di racconti che mi ha davvero molto impressionato. Così con curiosità ho affrontato il precedente Little Brother  e ne sono rimasto letteralmente folgorato.

È chiaro fin dal titolo che il modello di riferimento di Doctorow è il Grande Fratello di Orwell. Tuttavia è bene segnalare subito la differenza decisiva: 1984, il romanzo di Orwell, infatti, era una previsione, un’ipotesi distopica lanciata verso il futuro, possibile ma ancora ipotetico, viceversa il racconto di Doctorow è piuttosto una descrizione, portata solo all’estremo, di una realtà già presente. Tutti i procedimenti tecnici che egli descrive, le tecniche di criptazione, la trasmissione di messaggi protetti, la realizzazione di reti segrete, sono pratiche in buona parte già operative, di alcune lo sappiamo, di altre forse… È il nostro presente più che non un’ipotesi per il futuro.

Certo Little Brother è un bel romanzone, non facile se non si hanno un po’ di conoscenze informatiche, ma Doctorow, scrittore e blogger di origine canadese, riesce a farci entrare nel mondo della cyber sicurezza e in generale nel mondo degli hacker e dell’utilizzo più estremo della rete, con una confidenza e una semplicità che lasciano davvero stupefatti.

La storia è quella di un gruppo di ragazzi che dopo un attentato terroristico, senza aver fatto nulla, vengono presi dalle forze dell’ordine, arrestati e torturati.

A seguito di questo evento cominciano a elaborare una forma di resistenza al potere di controllo messo in atto dalle autorità. Sfruttando le potenzialità della rete organizzano una forma di resistenza priva di inutili ideologie, forse un po’ ingenua, ma molto realistica, riescono a mettere in atto delle occasioni di protesta che però vengono immediatamente criminalizzate dalle autorità che alla fine sono molto più impegnate nel reprimere ogni forma di dissenso piuttosto che nel cercare i veri terroristi.

C’è in tutto il romanzo una non velata critica alla società statunitense e a tutte le pratiche oppressive messe in atto a fronte degli atti terroristici, ma che alla fine servono solo a intaccare le strutture della democrazia.

Lo scambio  sicurezza contro libertà, cioè il bisogno di sicurezza ottenuto  sacrificando la libertà del cittadino nella sua vita quotidiana, è diventato il motore delle società contemporanee, ma rappresenta anche una  spinta pericolosissima  verso la fondazione delle future democrazie autoritarie.

Proprio questo rischio è ciò che Doctorow vuol farci notare e toccare con mano, egli infatti ci rappresenta molto bene  come l’ossessione e del controllo ci porta  a cancellare progressivamente diritti che davamo ormai per scontati, e ancora come tale ossessione spinga verso forme di paranoia sia i controllori che i controllati, pervadendo l’intera società di diffidenza e di paura.

Un romanzo che cattura fin dalle prima pagine e costringe alla lettura, senza mai perdere il ritmo, nonostante le descrizioni tecniche non sempre facilissime.

 


Cory Doctorow, HOMELAND  2015

 C’è una cosa che bisogna osservare prima di tutto: non è facile, in Doctorow,  distinguere quanto è fantasia e quanto è invece, già oggi, realtà tecnologica. Certo è che persino le ipotesi più spinte restano comunque, e tragicamente, nell’ambito del verosimile: potrebbe essere proprio così!

Ciò rende la lettura sempre più angosciante: la sequenza di illegalità, di violazioni della privacy, di abusi, di pratiche “necessarie” anche se violente, di censure, di controllo ossessivo, non può lasciarci indifferenti.

Homeland è il seguito di Little Brother. Io di solito  non amo le saghe né i libri a puntate. Ma in questo caso faccio volentieri una eccezione. Perché i personaggi sono gli stessi, ma la storia è come se prendesse di mira un altro aspetto della stessa degenerazione della società tecnologica e delle democrazie avanzate.

Se in Little Brother era a tema l’ossessione per la sorveglianza, qui invece il cuore del racconto è la libertà di diffondere notizie anche quando compromettenti o imbarazzanti per le autorità. È chiaro il riferimento allo scandalo Wikileaks che ancor oggi pesa sul destino personale di Julian Assange.

Il formidabile hacker Marcus che abbiamo conosciuto nel romanzo precedente qui è impegnato nella campagna per l’elezione al Senato di un candidato indipendente, e  si trova invischiato nella pubblicazione di materiale che mostra le attività illecite e immorali di molti settori della pubblica amministrazione.

Riuscirà nell’intento di render pubblico tutto quello scottante materiale ma a prezzo di molti rischi, e sacrificando la sua carriera e il suo lavoro.

Ci sono molti altri temi laterali come l’inganno dei prestiti d’onore per gli studenti che diventano debiti immensi nelle mani di agenzie senza scrupolo, o il diritto di manifestare ostacolato da forze di sicurezza ottuse e violente.

Insomma, uno spaccato straordinario della nostra attualità, e di quello che (forse) ci attende se non sapremo cogliere le avvisaglie del disastro, se non sapremo difendere fino in fondo i valori della democrazia anche di fronte all’ondata devastante di una tecnologia che talvolta appare interamente controllata dal potere e economico e volta  difenderne gli interessi.

Tuttavia, allo stesso tempo, Doctorow ci insegna che quella stessa tecnologia può essere usata per difenderci dai soprusi, per tenere viva la fiaccola della libertà e della democrazia. 

 

Cory Doctorow  INFOGUERRA  2007

Infoguerra è un romanzo breve di Cory Doctorow, pubblicato per la prima volta nel 2007, ma il titolo originale, più aderente al testo, è After the Siege ovvero Dopo l’assedio, perché in effetti tutta la storia ci presenta una città assediata dal punto di vista di una ragazzina di tredici anni, Valentine, e della sua famiglia.

Un esercito nemico, che sembra rappresentare tutto il resto del mondo, ha dunque attaccato la città, la protagonista fa esperienza di quanto dura e violenta, sia la vita mano a mano che le risorse iniziano a scarseggiare.

Valentine resta sola perché padre e madre sono impegnati al fronte, ed entrambi saranno vittime della guerra spietata, così Valentine resterà sola con il fratellino, mentre la città vive una terribile carestia e una terribile malattia che trasforma le persone in zombie.

Valentine incontra un uomo, chiamato "Il Mago", che possiede ancora una "stampante" perfettamente funzionante con la quale può produrre sia cibo che abiti.

Questi straordinari apparecchi sono di fatto  la causa della guerra, perché il nemico vuole impedirne l'uso gratuito. Disorientata e ingenua, Valentine prima sospetta che il Mago sia una spia, poi scopre che è un reporter di guerra. Alla fine sarà proprio Valentine a scoprire involontariamente il modo per far cessare la guerra.

Chi, come me, legge oggi il libro (tradotto da Luca Volpino per Delos Digital nel 2012) non può fare a meno di confrontare  le inquietanti ricostruzioni di Doctorow con le tragiche immagini della guerra in Ucraina oggi in atto. La sintonia è stupefacente e ci dà il segno della grandezza di Doctorow come scrittore, grandezza ancora poco riconosciuta a livello critico e non abbastanza apprezzata a livello di pubblico. Di questo autore trapelano più vistosamente le ossessioni per i pericoli della tecnologia e in particolare le sue battaglie contro i monopoli del copyright e l’invadenza del potere attraverso i social e gli strumenti informatici e il preteso diritto del potere di far uso di ogni mezzo per soffocare il dissenso.

Anche qui tutto ruota intorno a una città che attraverso le stampanti 3D ha cercato di riprodurre abiti, cibi, oggetti, medicine, ecc. Mettendo in evidente difficoltà tutto il sistema economico capitalista. Ed è stata per questo attaccata e messa sotto assedio dal resto del mondo.

Ma la storia, vista dagli occhi di una ragazzina, quindi fuori di ogni ideologia e di ogni discussione politica, è soprattutto una storia di dolore, di morte, di fame, di disperazione, di abbandono, cioè il volto autentico di ogni guerra, giusta o ingiusta che sia.
Confesso che trovo la narrativa di Doctorow sempre più interessante e coinvolgente soprattutto per questa sua capacità di vedere oltre il limiti: intuire cioè artisticamente le potenzialità e i rischi insiti nello sviluppo della tecnologia, e come essa sia sempre strettamente collegata alla struttura politica della società. Chi immagina ancora la neutralità della scienza e della tecnica nel nostro mondo ha di che riflettere.


 China Miéville  L'UOMO DEL CENSIMENTO  2019

Confesso la mia difficoltà a riconoscere forma e confini dei molti sottogeneri del fantastico, spesso pure invenzioni commerciali, effetti di marketing, se non addirittura disperata ricerca di una identità letteraria poco chiara. Di fronte a un testo di China Miéville dovrei iniziare parlando del genere weird del quel è uno dei massimi rappresentanti, ma confesso che non me la sento. Ne parlerò invece come di uno scrittore potente, dotato di grande maestria nella gestione della lingua e sapiente nella costruzione dell’intreccio. Il testo che voglio presentare è L’uomo del censimento, magnificamente tradotto da Martina Testa e pubblicato da Zona42.

 È un po’ difficile ricostruire la trama per il modo in cui la narrazione è condotta. La voce narrante è quella di un bambino di nove anni, e dunque seguiamo, con i suoi occhi, una vicenda che bisogna di fatto ricostruire. Egli assiste alla scena del padre che uccide la madre e la getta in un pozzo di scarico dei rifiuti. Quando però cerca di far sapere quanto è accaduto nessuno gli crede, ci sono delle indagini che non portano a niente, compare una misteriosa lettera secondo la quale la madre se ne sarebbe andata di sua iniziativa. Il padre, personaggio molto equivoco e incomprensibile, è un fabbricante di chiavi, ma si tratta di chiavi che risolvono problemi, il cliente racconta le sue difficoltà e il padre costruisce una chiave opportuna. Compaiono altri personaggi, i bambini  con cui il protagonista si confronta, ma anch’essi sono non meno enigmatici degli altri, gli abitanti del villaggio, due capre, una vecchia che mastica scarafaggi.

Alla fine compare l’uomo del censimento, il solo che sembra voler aiutare il ragazzino, tanto che scende nel pozzo per verificare se effettivamente vi sia il corpo della madre, non sapremo quel che vi trova ma sappiamo che il ragazzo se ne andrà con lui.

 Una cosa colpisce subito il lettore: l’aura di mistero che  circonda l’intera narrazione: misteriosi sono i personaggi che sembrano carichi di una storia pregressa su cui non si fa mai luce, misteriosa l’ambientazione, un paesino che si sviluppa intorno a un ponte. La sensazione è quella di trovarsi in una specie di day after, l’umanità dopo una catastrofe. E forse l’elemento più vistosamente simbolico è proprio il pozzo, dove il padre getta gli animali che uccide, e i rifiuti della vita quotidiana. In quella sorte di buco nero le cose precipitano e si perdono, tutto ruota intorno ad esso come se fosse lì ad ammiccare, a mostrare il destino di ognuno e di ogni storia.

Alla fine si resta un po’ perplessi perché mancano le risposte alle molte domande che la narrazione ha posto, ma allo stesso tempo non si può non ammirare la capacità dell’autore di creare un mondo in sospensione, un’attesa senza compimento, uno spaccato del mondo senza tempo, nel quale reale e fantastico giacciono abbracciati. 

 

China Miéville  LA CITTA' & LA CITTA'  2009

 La città & la città di China Miéville è un romanzo semplicemente magnifico, imprevedibile, di grande originalità. Miéville ha una scrittura fluida, ha il dono della narrazione e sa costruire trame intricate che inchiodano il lettore e lo costringono ad andare avanti.

 In questo caso la trama è assai complessa. Perché si tratta prima di tutto di un giallo. C’è una ragazza morta e degli investigatori, ma non è questa veramente la chiave del romanzo che risiede piuttosto nella ambientazione, e qui vengono i problemi perché l’autore non si preoccupa di spiegare tutto nel dettaglio, preoccupazione tipica degli scrittori dilettanti, ma ci mette immediatamente al centro della situazione: ci sono due città, Beszel e Ul Qoma, ma sono intricate tra loro, non è ben chiaro dove finisce l’una e dove inizia l’altra, tuttavia sono due entità politiche ben distinte e separate da rigidi controlli. Gli appartenenti all’una o all’altra si distinguono facilmente per come sono vestiti, per le macchine che usano, per i colori che prediligono.  Il lettore non può non pensare alla vicenda storica delle due Berlino prima dell’abbattimento del muro.

Gli abitanti di Beszel e di Ul Qoma hanno imparato a non guardare, anche quando si incrociano ai due lati di una strada, quando si sfiorano in un luogo qualsiasi. Non bisogna guardare. Chi lo fa compie una Violazione, e la Violazione è il terzo soggetto, una sorta di autorità superiore, dotata di poteri illimitati che si assicura che nessuno guardi l’altro, e che nessuno passi da una città all’altra senza permesso.

L’investigatore protagonista del romanzo si trova poi a confrontarsi con un ennesimo mistero che sembra essere lo sfondo dell’omicidio: l’esistenza di una Terza Città, Orciny, nascosta alle prime due e ancor più difficile da identificare.

 Come si vede il vero focus del romanzo non è tanto il giallo o l’investigazione, ma è questo ambiente di spazi intrecciati che  ci costringe a fare i conti con i temi dell’identità, dei confini, della sovranità, del controllo, del potere, ecc. in un intreccio di riferimenti che muove da Philip Dick a George Orwell a Franz Kafka.

Alla fine il lettore può godere di una detective-story degna della grande tradizione noir del Novecento, ma insieme di una potente riflessione intorno alle  difficoltà di comunicazione nella società attuale, alla difficoltà di rapportarsi all’altro, alla diversità. Aggiungerei, tra le cose che mi hanno davvero colpito è la capacità di Miéville di  frequentare gli interstizi, le zone  morte, le zone franche della realtà, le aree dove i poteri si confondono, dove le identità si indeboliscono, dove la realtà e l’immaginario non sono più così ben distinti. In questi spazi contesi fra diversità apparentemente incomponibili si inserisce l’attitudine all’indifferenza, che è forse un modo per sopravvivere, un sistema di difesa: fingere di non vedere, l’altro è lì, esiste, l’hai davanti a te ma devi fare in modo di non guardarlo, questa politica dell’indifferenza sembra rappresentare efficacemente la tragica condizione del  nostro tempo.


 

 William Gibson, AGENCY   2020

 La complessità è sicuramente il marchio distintivo di questo romanzo di  William Gibson, il padre del Cyberpunk. Due sono le linee narrative che si intrecciano, da una parte la protagonista Verity Jane nella San Francisco del 2016 viene assunta dalla Tulpagenics come beta tester per  una nuova app. In realtà si tratta di un  forma sperimentale di Intelligenza Artificiale, che comunica attraverso degli occhiali e un auricolare. Questa AI ha un nome, Eunice e una personalità ed è il vero motore di tutta la storia. Dotata di una completa sensibilità, e di una possibilità di conoscenza universale, può agire comunicando simultaneamente con una pluralità di soggetti, spostando denaro,  influendo su eventi e decisioni. Ben presto assume il controllo di Verity e le fa fare cose che la ragazza non capisce.

Nello stesso tempo, in un lontano futuro post apocalittico, il 2136, Wilf Netherton a Londra agisce per conto di una oscura commissaria, Ainsley Lowbeer che in modo ancora più incomprensibile sta lottando contro una enigmatica forma di potere dominante, quella dei klept. Il controllo di Eunice è uno degli obiettivi che vorrebbero raggiungere.

Le due linee narrative sono in contatto attraverso una serie di oggetti impossibili, da una parte un drone con le gambe, che non vola ma cammina ed è controllato dal gruppo di Wilf e dall’altra una entità neurorganica dotata di un corpo umano controllata da Verity. Ognuno può vedere e sentire quel che accade dall’altra parte attraverso il proprio intermediario.

Lo sviluppo delle vicende  non è meno complesso di questo scenario, Eunice di fatto cerca di rendersi autonoma e di sfuggire a ogni controllo umano. Al contempo l’obiettivo di Lowbeer e del suo gruppo è quello di intervenire su una frazione di tempo passato per modificarne l’esito, in particolare vorrebbe condizionare la linea del tempo di Verity e Eunice per evitare l’esito catastrofico, chiamato jackpot.

La vicenda si sviluppa senza una vera e propria conclusione. Alla fine al lettore resta l’immagine di un esercito di personaggi, di un flusso inarrestabile di dialoghi, di una scrittura estremamente secca, volutamente priva di eleganza, di una povertà di descrizioni, per lo più concentrate sugli interni, gli appartamenti, un bar, un’auto.

E se volessimo trovare un denominatore comune a tutto questo dovremmo pensare con Gibson che in fondo si tratta per tutti di una disperata ricerca di quella Agency evocata dal titolo, cioè di una capacità di azione autonoma  e volontaria che sembra ormai impossibile. Siamo tutti eterodiretti sembra dirci Gibson, abbiamo perso la capacità di agire come soggetti autonomi, siamo burattini nelle mani di poteri che non conosciamo, non comprendiamo, non controlliamo.

Sembra che l’ambiente vitale del futuro, un futuro che è già iniziato nel nostro presente, sia quello del cyberspazio dove tutti comunicano, al di là di ogni limite del tempo e dello spazio, ma in fondo questo non impedisce che ognuno viva in perfetta solitudine. Un romanzo che lascia un certo amaro in bocca. 

 

Joyce Carol Oates,  PERICOLI DI UN VIAGGIO NEL TEMPO   2021

Joyce Carol Oates è una delle più note e prolifiche autrici americane, ben nota al grande pubblico per i suoi romanzi che dipingono la scena della provincia americana con grande realismo e una prosa asciutta ma coinvolgente. È singolare ma forse anche significativo che oggi per raccontare lo stesso mondo si cimenti con il genere distopico.  E lo fa con un lungo romanzo nel quale gioca con grande maestria con l’eterno paradosso del tempo. Ma il punto di partenza è proprio la società americana di un futuro molto prossimo che con l’alibi della difesa della democrazia si è trasformata in quella società del controllo ossessivo, già preconizzata dai grandi del genere, primo fra tutti Orwell. I personaggi si sentono costantemente controllati, ascoltati, sottoposti a giudizio e con l’angoscia di una possibile punizione impietosa, l’annientamento con un laser sparato da un drone.

La protagonista, una ragazzina di diciassette anni, viene punita perché nel saggio di fine anno si è permessa di fare pubblicamente alcune domande scomode. La punizione consiste nell’essere esiliati in un tempo passato, il 1959. Qui conduce una vita quasi normale, studia in un College, come una qualsiasi ragazza dell’epoca. Ma sa di essere diversa, sa di aver lasciato la famiglia, e di dover restare quattro anni in quella condizione, con un nome nuovo, un’identità fasulla, prima di poter tornare. In realtà le cose si complicano, perché nonostante tutte le cautele e tutte le severissime regole che deve osservare, crede di individuare un altro esiliato e comincia una storia incerta fra l’amore e l’amicizia.

Tuttavia le cose non filano lisce perché il giovane professore di psicologia di cui si è innamorata la mette a conoscenza di possibili spiegazioni alternative della sua realtà. Entra qui in gioco un sottile ma molto efficace gioco di ambiguità. La protagonista e con lei il lettore non saprà più con certezza se la sua realtà è appunto quella del passato o non piuttosto una realtà virtuale totalmente fittizia. L’enigma non si scioglie, ma il finale, che non svelerò, non è meno ambiguo.

In tutto il romanzo c’è come una sottotraccia legata alla riflessione intorno alla psicologia comportamentistica che la ragazza studia e che il professore di cui è innamorata insegna. In questo mondo passato sembra essere la sola credibile spiegazione dei comportamenti umani, e il lettore non può fare a meno di percepire, anche con una certa ironia, che in fondo il mondo del futuro è proprio quello che, come nel comportamentismo, immagina l’uomo come una macchina che può essere indotta ad agire o a reagire in modo prevedibile attraverso opportuni stimoli. Il futuro sembra costruito proprio in base a questi principi, l’umanità controllata e addomesticata, ridotta a una cava da laboratorio che non aspira più a nessuna libertà, perché sa che restando nella propria prigione prima o poi sarà ricompensato.

Forse non sarà il massimo dell’originalità, ma di sicuro questo romanzo è accattivante, e non lascia indifferenti.

 

Don Delillo,  IL SILENZIO   2021

 Il racconto di Don Delillo è costruito in sintonia con il titolo. Le vicende e i personaggi infatti vi sono accennati, spesso riassunti in una frase. Sembra che l’autore abbia lavorato in togliere, ridurre, condensare, portare ad essenza le scene, le situazioni, i discorsi.

L’elemento scatenante della vicenda è l’improvviso black out di tutti i sistemi mediatici. Così accade che il gruppo di amici riuniti per vedere insieme il Super Bowl si trovino improvvisamente di fronte a uno schermo nero. Che poi si traduce in un oscuramento  che avvolge l’intera città di New York.

Nel  frattempo una coppia che li deve raggiungere è costretta a un atterraggio di fortuna con l’aereo, per fortuna senza gravi conseguenze. 

Ma i personaggi non sembrano travolti dall’apocalisse della tecnica, piuttosto attendono di comprendere la situazione, ciò che però è diventato impossibile proprio a causa del silenzio di tutti gli strumenti social e dei mezzi d’informazione. Sono possibili solo congetture che non verranno mai risolte nel corso del libro: guerra? Guasto? Terroristi? Incidente?

Uno dei personaggi, un giovane fisico che studia il manoscritto di Einstein della relatività generale,  sembra indirettamente alludere all’eventualità che si tratti di una piega dello spazio tempo. Ma che sia effettivamente così non riusciremo a scoprirlo. Perché i personaggi restano a fluttuare in una sorta di “vuoto barcollante” come dice uno di loro. La realtà è che non sono affatto in grado di comprendere quel che sta accadendo, ma soprattutto sono ormai del tutto incapaci di reagire, e soprattutto di immaginare un’esistenza senza la tecnologia nella quale sono (siamo) immersi quotidianamente.

Il finale, da questo punto di vista è inquietante: un personaggio in silenzio, non ascolta, non capisce niente: “Sta seduto davanti al televisore con le mani intrecciate sulla nuca, i gomiti all’infuori. E poi fissa lo schermo nero.”

Il racconto di Delillo è certamente un pezzo di bravura di un autore sperimentato. Forse il lettore che cerca montaggi, trame, colpi di scena, resterà deluso, ma la capacità di metterci in una autentica situazione distopica ne fa una lettura che non lascia indifferenti. Tuttavia quello che è il suo maggior pregio è forse anche il suo limite: la sensazione di silenziosa sospensione anche di fronte a un evento catastrofico, quella condizione di impotenza, di incertezza, di insipienza, creata magistralmente, lascia infatti al contempo al lettore una amara sensazione di irrisolto e inconcluso.

 

Yanis Varoufakis UN ALTRO PRESENTE  2021

 Yanis Varoufakis è un economista assurto agli onori delle cronache quando ha guidato la delegazione greca presso la Comunità Europea in occasione della grave crisi economica del 2008.

Ora si avventura dalla saggistica teorica al romanzo in chiave distopica pubblicando il romanzo, Un altro Presente, tradotto per La nave di Teseo da Andrea Silvestri. E il risultato è sicuramente originale e interessante.

Un ingegnere informatico greco, Costa, lavora a un macchinario in grado di soddisfare tutti i desideri umani. Durante un test delle apparecchiature apre involontariamente un portale che lo mette in contatto con un’altra realtà, una realtà alternativa nella quale trova il suo alter ego, Kosti, con il quale ha inizio una lunga conversazione dalla quale viene a sapere di uno sviluppo alternativo della storia a partire dal 2008, punto di svolta e di distinzione tra le due realtà  parallele. 

Nell’altra realtà, infatti, dopo il 2008, si sono sviluppati massicci movimenti di protesta e di boicottaggio un movimento dal basso nel quale i partiti tradizionali non hanno avuto alcun ruolo. 

Sull'onda delle proteste, dunque, nell’Altro Presente, dunque, il capitalismo è stato superato e si è affermata una società senza banche e senza sfruttamento, senza le grandi aziende informatiche che rubano i dati dei cittadini, senza povertà, senza inquinamento.

Una società basata sulla valutazione dell’utilità sociale delle aziende. Cancellate le banche commerciali c’è solo la banca nazionale dove tutti fin dalla nascita hanno un piccolo capitale.

Vige il divieto di vendere e comprare azioni e si impone l'indice di merito sociale in base al quale un'azienda può essere sviluppata o cancellata. Giurie di cittadini hanno il potere di chiudere un’azienda che non contribuisca adeguatamente al bene comune.

I lavoratori non hanno un vero e proprio stipendio, ma viene distribuito un bonus su valutazione democratica dei lavoratori stessi. La terra è di proprietà collettiva, chi la occupa (privato o azienda) deve pagare un affitto che stabilisce lui stesso. Solo le aziende pagano un tassa fissa del 5% sui profitti.

I flussi migratori sono progettati e regolati. Vi sono apposite leggi che garantiscono a ogni persona del pianeta la proprietà dei propri dati personali, chi li vuole deve pagarli, in base al principio “Penny For Your Thought”.

La narrazione segue anche le vicende di due amiche di Costa: Eva, un’economista che crede in un capitalismo benevolo e Iris, una ecologista, naturalista, rivoluzionaria e anticonformista.  E ovviamente quelle delle loro omologhe dell’altra realtà Eve e Siris.

La trama si compone in realtà di lunghe e dettagliate descrizioni dell’Altro Presente. Uno dei pochi risvolti narrativi si ha alla fine quando anche nell’altra realtà si verifica una grave crisi economica, perché la speculazione nasce dal desiderio di potere che va al di là di ogni sistema economico anche il più perfetto. E infine quando Costa decide di distruggere il macchinario e chiudere definitivamente il portale.

Il romanzo per le lunghe descrizioni richiede molta pazienza e probabilmente risulta più adatto per chi abbia una sia pur minima conoscenza dell’economia. Quanto al mondo parallelo descritto va detto che la tesi dell’autore è molto chiara: mostrare che un altro mondo è possibile al d là di ogni scetticismo oggi prevalente che tende a vedere nel capitalismo la fine della storia, ovvero ciò oltre al quale non sembra poter esserci nulla.  Varoufakis ci fa vedere, appunto, che un altro presente invece è possibile, che dalla crisi si poteva uscire diversamente da come ne siamo usciti nella nostra realtà.

D’altra parte egli sembra mostrare anche in questo caso il difetto tipico  degli economisti contemporanei che tendono sempre a sopravvalutare il ruolo della economia finanziaria  rispetto a quello della produzione, quasi ignorata.

La prospettiva dell’autore, esplicitamente è quella di un anticapitalismo di natura anarchica, che postula un’antropologia in base alla quale l’uomo è fondamentalmente buono, ed è la società che lo corrompe. Rousseau docet. Ma la storia ci ha insegnato che tutte le forme di democrazia assoluta finiscono sempre per scivolare nella dittatura, cioè per autoannientarsi.

Non si può negare che le analisi sul nostro presente siano molto azzeccate. Le pagine dedicate a mostrare come l’economia capitalista di oggi si fondi su immensi debiti e su una moneta inesistente sono davvero formidabili. Il 2008, e tutto quello che ne è seguito, ci hanno mostrato chiaramente che abbiamo imboccato una “autostrada per la catastrofe”.

Chiudo osservando che anche in questo caso  il desiderio di narrare il presente da una prospettiva critica ha spinto l’autore verso il territorio della fantascienza a dimostrazione che  questo genere possiede ampie potenzialità e non può essere ridotto a un ingenuo divertissement. Tuttavia faccio anche notare che ad un certo punto Varoufakis fa una affermazione inquietante e meritevole di attenzione: “Il capitalismo, come la fantascienza,- scrive - tratta beni futuri usando un valuta fittizia.” (148) Sarà così? C’è davvero una relazione tra capitalismo e fantascienza?  E quale? Da pensare.

 

Elena Di Fazio  RESURREZIONE  2021

Vincitore del Premio Urania 2020, Resurrezione è sicuramente un romanzo carico di fascino, originale nel concetto, molto ben costruito dal punto di vista strutturale. La scrittura fortemente analitica della Di Fazio può apparire talvolta un po’ prolissa e questo può rendere la lettura faticosa, ma sicuramente il premio finale è garantito. D’altra parte, bisogna essere franchi: è la tendenza degli Urania di questi ultimi anni, che chiede agli autori testi di almeno 400.000 caratteri. Avrete notato, cari amici lettori, che spesso gli editori ricorrono a caratteri improbabili pur di gonfiare la dimensione del libro nella convinzione che questo lo renda più vendibile.

IO non sono convinto, continuo ingenuamente a pensare che la quantità non è per forza qualità, ma è solo un pensiero mio…

 L’idea di partenza è accattivante: si è aperto un portale spazio temporale e sono arrivati sulla terra degli alieni. Tuttavia non sopravvivono all’atmosfera terrestre ì, muoiono dopo pochi minuti. Cinque anni dopo la cosa si ripete, gli alieni vivono un po’ più a lungo, e poi di seguito di cinque anni in cinque anni e gli esseri che sopravvivono sempre di più, Tuttavia comunicare con loro è molto difficile, a fatica si riesce a decifrare solo qualche parola. In particolare una frase che viene spesso ripetuta: “otto di nove”. Ne nasce la convinzione che la nona spedizione sia anche l’ultima. Le protagoniste della narrazione sono due giovani donne, chiamate alla Base che si occupa della gestione del portale e degli alieni, in qualità di filosofe.

Naturalmente, come sempre accade, si sviluppa una opposizione ideologica alla presenza aliena, che prende forma di un gruppo di terroristi disposti a tutto pur di cancellare questa anomalia che mette in discussione il rapporto privilegiato tra l’uomo e dio.

La prima parte della narrazione si gioca soprattutto intorno alla scoperta sconvolgente che alla loro morte, gli alieni, che hanno la forma di un piccolo tetraedro senza arti e senza tratti fisiognomici, rilasciano una strana luce che pare elevarsi verso il cielo e sparire. Di cosa si tratta? Forse di un’anima immortale? Ne derivano interessanti discussione filosofiche.

La trama si intrica un po’ alla volta perché i terroristi riescono a infiltrarsi nella base segretissima e super protetta, dove autorità civili, e militari si contendono la supremazia.  E precipita quando i terroristi cercano di impossessarsi della base, con lo scopo di distruggerla e annientare il gruppo di alieni che ancora vivi vivono.

 Pur con una certa lentezza, la narrazione si snoda fra avvenimenti e riflessioni, discussioni di ordine filosofico e ricostruzione della biografia delle protagoniste, alternandosi con frammenti di un interrogatorio collocato temporalmente dopo la conclusione dei fatti. Qualche colpo di scena finale, che non svelerò rende ancora più accattivante l’intreccio.

A mio modo di vedere, dunque un ottimo lavoro, equilibrato e sapiente. Le discussioni filosofiche sono all’altezza del lettore medio senza tecnicismi e senza voli pindarici, anzi diciamo che per chi ha studiato filosofia forse appaiono un po’ semplici, ma sicuramente adatte a sollecitare la riflessione del lettore senza metterne alla prova le conoscenza. Anche perché in fondo si tratta pur sempre di una narrazione fantastica, non di un saggio.

Chiudo con una riflessione a margine. Leggendo il romanzo di Elena Di Fazio mi è venuto spesso da pensare come reagiremmo, noi, la nostra società, il nostro mondo all’arrivo di creature aliene. Probabilmente nello stesso modo scomposto, conflittuale e violento raccontato qui. Probabilmente non siamo pronti. Alieni state a casa vostra ancora un po’. 

 


 Naomi Alderman  RAGAZZE ELETTRICHE 2023

Sicuramente uno dei romanzi più interessanti e originali letti negli ultimi anni e soprattutto un esempio perfetto di quello che io chiamo Distopia critica.

La trama è complessa perché segue le vicende di numerosi protagonisti a partire da un’idea iniziale folgorante (letteralmente): le donne scoprono di possedere una forza nuova, la capacità di emettere una potentissima scossa elettrica. Non è ben chiaro come questo sia avvenuto, forse per conseguenza di un avvelenamento, ma non ha importanza. La scoperta porta le donne di tutto il mondo a un rovesciamento radicale dei rapporti rispetto agli uomini.

La capacità di infliggere dolore e morte spinge le donne ad acquisire un ruolo nuovo all’interno della società, ma al contempo porta a replicare atteggiamenti e comportamenti tipicamente maschili. Contrariamente a qual che si potrebbe pensare la scalata sociale femminile non comporta una trasformazione positiva della società, ma acuisce piuttosto le sue contraddizioni di fondo. Lo si comprende molto bene seguendo le vicende di Roxi parte di una famiglia di malviventi che spaccia nel mondo una droga potentissima. O quella di Margot donna in carriera politica. O ancora quelle di Allie che usa la propria potenza elettrica per nominarsi come una nuova Eva e fondare una setta religiosa che pretende di rovesciare i fondamenti della religione stessa.

“Dio ama noi tutti – dice – e vuole farci sapere che Lei ha semplicemente cambiato veste. Lei è oltre il femminile e il maschile. È al di là dell’umana comprensione. Ma richiama la vostra attenzione su ciò che avete dimenticato. Ebrei: guardate Miriam, non Mosè, per tutto quello che potete imparare da lei. Musulmani: guardate Fatima, non Maometto. Buddisti: ricordatevi di Tara, la madre della liberazione. Cristiani: pregate Maria, per la vostra salvezza.”

La vicenda trova il suo culmine nella fondazione di uno Stato interamente dominato dal femminile. Ma contrastato dagli altri paesi ancora in mano agli uomini. La guerra è inevitabile. Cerca di testimoniarla Tunde un reporter che subirà arresti e torture, e dovrà fuggire cercando di difendersi dalla furia delle soldatesse.

Il romanzo certo vuole mostrare senza mezzi termini l’ascesa al potere delle donne. E anche l’inevitabile sete di vendetta per una secolare sottomissione, per tutte le violenze subite e che ora vorrebbero restituire. Ma al contempo l’Autrice mostra come il potere in sé nelle sue forme peggiori non cambia. Anche la dittatrice del paese in cui dominano le donne non fa altro che imporsi con spietata prepotenza sugli uomini. Non ci troviamo soltanto di fronte alla narrazione della riscossa femminista, ciò che emerge è una drammatica e impietosa analisi del potere e della sua terribile capacità di trasformare le persone. Chi può imporsi con la forza, con la violenza, prende il potere nelle sue mani e istituzionalizza la propria superiorità. Che si tratti di uomini o donne il risultato non cambia. La violenza di genere non è annullata ma rovesciata. Nella distopia della Alderman infatti sono le donne che umiliano, violentano, emarginano gli  uomini.

Un’ultima osservazione, nella finzione narrativa i fatti sembrano avvenire in un futuro a noi molto vicino, ma la narrazione invece sembra collocata in un futuro lontanissimo. Un tempo nel quale all’autore del libro viene suggerito di firmarsi con un nome femminile per non restare confinato nel genere marginale della “letteratura maschile”. Un rovesciamento perfetto dunque.

 

 

 

 

 

 

 

 

 




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