A cura di Stefano Zampieri - Consulente Filosofico

domenica 2 ottobre 2016

Una funzione sociale, non un mestiere

Che anche la filosofia possa diventare un mestiere, è ovvio, è già così, sotto le spoglie dell'insegnamento, ma anche sotto quelle della ricerca universitaria, o dell'editoria, in qualche caso persino dietro la maschera della divulgazione negli ormai innumerevoli festival e simili. Sempre di attività remunerate si tratta, niente di più, niente di meno. Quindi che la filosofia possa diventare mestiere è cosa ovvia. Ciò che è meno ovvio è se la filosofia pratica, che nasce proprio come "libera professione", abbia in questa pretesa originaria la sua realizzazione.
E' vero che il "consulente filosofico" ha interperetato se stesso come un libero professionista e come un fornitore di servizi (d'aiuto o di riflesione), ma è davvero questo il nucleo della sua identità? Io non lo credo affatto. E propongo piuttosto di pensare il filosfo praticante non come un professionista di una pratica d'aiuto, ma come l'esecutore di una funzione sociale: credo che per altro questa sia proprio la formula socratica, nel suo essere antisofista; i sofisti fornivano legittimi e utilissimi servizi a pagamento, il socratismo per quel che ne sappiamo sembra essere piuttosto l'esecuzione di una funzione sociale di messa in questione da parte di un filosofo, dell'èlite culturale e politica della polis.
Ora, nel terzo millennio il nostro riferimento non può più essere una, per altro inesistente, èlite culturale, ma è la società nel suo complesso, certo, questa socieltà, occidentale, borghese, dominata dal benessere e dalla logica del consumo.
Rispetto a questo mondo il filosofo praticante costituisce appunto un'anima critica, un pungolo, un tafano, che costruisce luoghi del pensiero, cioè spazi ove si mettono in questione  le assunzioni comuni del nostro vivere, ma anche le tensiooni, le difficoltà, le asperità che tutti percepiamo nella nostra esistenza.
Il filosofo praticante, dunque svolge una funzione sociale ben precisa, ed è proprio questa la sua natura, non tanto il professionismo, che non è nè assurdo nè disdicevole, perchè è ciò che ci aspettiamo, è ciò che appare scontato in una società retta dallo scambio economico, ma lo confina, lo limita, lo costringe, dentro la dimensione del mercato dal quale invece dovrebbe in qualche modo emanciparsi per poter rappresentare una credibile voce critica. Per poter svolgere cioè credibilmente la funzione sociale di  creatore di spazi del pensiero nei quali delineare le cornici di senso del nostro quotidiano.