A cura di Stefano Zampieri - Consulente Filosofico

Rorty e la Consulenza Filosofica



STEFANO ZAMPIERI

IRONIA, CREAZIONE, RIDESCRIZIONE. RICHARD RORTY E LA CONSULENZA FILOSOFICA


In M. L. Martini (a cura di) Filosofie nella consulenza filosofica, Napoli, Liguori, 2013, pp. 7-32

 

 

 

Pratica filosofica e post-filosofia

Ciò che comunemente chiamiamo pratica filosofica è una disciplina che si è sviluppata negli ultimi tre decenni, in modo abbastanza confuso, da una prima intuizione di Gerd Achenbach che poi ogni filosofo pratico ha, di fatto, coniugato diversamente, in funzione dei propri percorsi, delle proprie attitudini, ma anche delle sensibilità culturali più specifiche di un paese o di un altro.
Così, essa è cresciuta nutrendosi variamente di psicoterapie e di psicoanalisi, di filosofia esistenziale e di filosofia morale, con una spiccata predilezione per alcuni autori che, non a caso, sembrano costituire riferimento obbligato e quasi esaustivo. Ora, è certamente vero, ad esempio, che la rilettura della filosofia antica proposta da Hadot e Foucault deve essere intesa come un passaggio necessario per addentrarsi nella pratica filosofica,  tuttavia assistiamo al rischio che si compia un passo ulteriore verso uno schiacciamento progressivo della pratica filosofica su certi autori antichi, in modo particolare su una forma di stoicismo alla buona che sembra prestarsi molto efficacemente a fornire soluzioni semplici al disagio contemporaneo attraverso parole d’ordine come equilibrio, non attaccamento, imperturbabilità, benessere, felicità, serenità, cura dell’anima, ecc. che sembrano fatte apposta per essere usate come terapia a basso costo per combattere la condizione di stress che l’accelerazione dei tempi, dei gesti, degli impegni, tipica dell’attuale società dei consumi, impone a tutti noi.
Purtroppo l’abuso di questi riferimenti trasforma, talvolta, la pratica filosofica in un tentativo, piuttosto ingenuo, di condizionamento, se non addirittura in una forma di ammaestramento. Ma la pratica filosofica è ben altro. Per questo vorrei provare a uscire dai riferimenti classici e mostrare, piuttosto, le affinità e le sintonie con alcuni risvolti attualissimi di quella filosofia contemporanea che viene definita comunemente post-modernismo e che ha in Richard Rorty il suo principale punto di riferimento.
Tale accostamento, ad alcuni potrà apparire singolare, ma basta fare un piccolo passo indietro ed assumere una visuale un po’ più ampia per rendersi conto che, forse, c’è un motivo se nello stesso momento, all’inizio degli anni ’80, nascevano, senza alcun contatto, sul continente europeo la pratica filosofica di Achenbach, ovvero il tentativo di radicale revisione di una disciplina destinata a sopravvivere “in un ghetto accademico, dove ha perduto il rapporto con qualsiasi problema che opprime realmente gli uomini”[1];  mentre dall’altra parte dell’oceano si affermava con Richard  Rorty  dapprima una radicale messa in questione della filosofia analitica, dominatrice indiscussa della scena accademica americana, e poi della filosofia tout court attraverso il tentativo di far scendere dal suo trono la disciplina filosofica, e di metterla sullo stesso piano della letteratura nel grande scenario della conversazione collettiva.
Due modi completamente diversi di affrontare la stessa difficoltà, due narrazioni differenti della filosofia entrambe impegnate a ricollocare la dimensione filosofica su un piano nuovo, da un lato per uscire da una dimensione accademica ormai autoreferenziale in modo claustrofobico, dall’altra per farla finita con la pretesa un po’ esagerata, un po’ snob, della filosofia di avere l’ultima parola sulle questioni che riguardano il destino dell’umanità. Due forme di decostruzione, due forme di revisione. Probabilmente un’unica necessità, ridare vita a un organismo morente.
A questo punto, però devo chiarire, a scanso di equivoci, che la mia prospettiva è sempre quella della pratica filosofica, e che il mio modo di leggere gli autori non muove affatto da un’adesione ai principi e alle prospettive che essi rappresentano; la pratica filosofica, infatti, non ha autori di riferimento, proprio perché si rapporta in altro modo al corpus della letteratura filosofica, osservandolo in controluce, alla ricerca di quanto corrisponde all’esperienza che di volta in volta vien messa in discussione.[2] 
In questo senso è possibile rapportarsi agli autori senza alcuna necessità di prendere posizione o di schierarsi in funzione delle schematiche contrapposizioni su cui si affanna la critica, si tratti della polemica tra analitici e continentali o di quella tra essenzialismi e relativisti.
In questo caso, dunque, vorrei provare a mostrare la grande utilità di alcune riflessioni di Rorty per comprendere e descrivere quello che, secondo me, cioè in base alla mia esperienza, è il reale sviluppo del dialogo filosofico. A partire da quella che possiamo considerare come la tesi di riferimento di Rorty, cioè la sua obiezione al “rappresentazionalismo” (representationalism) che egli formula in molti modi diversi a partire dall’opera che lo ha reso famoso, La filosofia e lo specchio della natura del 1979, ma che qui vorrei riprendere però da una formulazione più recente: “Per teoria antirappresentazionalista intendo una teoria che concepisce la conoscenza non come una corretta comprensione della realtà, bensì come l’acquisizione di abiti di azione per fronteggiare la realtà.”[3] A me pare che questa tesi corrisponda in pieno all’esperienza della consulenza filosofica: eliminare o meglio superare il rappresentazionalismo significa, come sintetizza magnificamente il principale interprete italiano di Rorty, Aldo Giorgio Gargani, superare “la tesi che le interazioni fra gli uomini e la realtà consistono di raffigurazioni, di immagini, di metafore visive, di paradigmi oculari. Parlare, dire, asserire, domandare, rispondere non sono modi di rappresentare la realtà, di porsi faccia a faccia con il mondo, ma sono essi stessi azioni, modi di spuntarla con l’ambiente, strumenti per far fronte alle perturbazioni, all’alea delle turbolenze che si originano dal mondo esterno.”[4]
L’uomo interagisce costantemente con gli altri uomini e con le cose, e dunque la sua ragione non consiste tanto di una obbedienza a regole e criteri stabiliti in linea di principio, quanto piuttosto nella “partecipazione al processo di una comunicazione non distorta da dogmi, autorità, violenza, tollerante, solidale, disponibile all’ascolto, alla ricezione delle opinioni e dei bisogni degli altri, alla persuasione anziché alla costrizione.”[5] Ma questa ragione dialogica, tollerante, disponibile all’ascolto, è esattamente quella che si mette in gioco nella situazione della consulenza filosofica. Tornerò su questo aspetto della ragione, ma deve essere chiaro fin da subito che una singolare sintonia lega immediatamente l’esperienza del dialogo filosofico e il punto di partenza dell’esperienza filosofica di Richard Rorty. Un’esperienza che egli chiama “pragmatista” con specifico riferimento alla tradizionale corrente filosofica di James, Peirce e Dewey, ma come ho appena detto, con molta libertà. Spesso egli sembra pensare alla filosofia pragmatista – intendendo di fatto la sua filosofia – nella forma wittgensteiniana della “terapia del linguaggio”, nel senso che la sua funzione sarebbe quella di liberare da convinzioni vecchie e inadeguate: “Penso al pragmatismo – dice Rorty – in primis come a una terapia filosofica – una terapia plasmata dai filosofi che ci hanno preceduti. Nella misura in cui leggere il pragmatismo ti libera da diverse abitudini e convinzioni, lo fa come lo farebbe un testo sorprendentemente innovativo. Ti fa pensare: «Santo cielo, non avevo mai pensato a questo modo di vederla!» Ma una terapia non è  la stessa cosa che dare dei criteri, o una teoria.”[6]
Anche Gargani ci conferma in q         uesta lettura in base alla quale la filosofia per Rorty avrebbe il compito sostanzialmente terapeutico di “liberarci dalla tentazione di arrampicarci con la mente là dove nessuna mente umana può installarsi”[7], cioè nella posizione extra-umana, metafisica, da cui poter vedere il rapporto tra rappresentazioni e realtà, la posizione di un Dio.
Una tale terapeutica non dà luogo ovviamente a criteri forti, a teorie solide e definitive, ma porta piuttosto a “ricontestualizzare la tradizione culturale del passato allo scopo di elaborare un’autoimmaginazione creativa dell’uomo suscitata dalla continua ritessitura dei suoi desideri e delle sue credenze.”[8] L’operazione che dunque la filosofia ci porta a realizzare non è tanto la formazione di teorie garantite, né quella della elaborazione di sistemi articolati in cui far rientrare ogni aspetto della nostra esistenza, molto più prosaicamente si tratta di una operazione legata a quello che Rorty chiama il nostro vocabolario.

 

La costruzione del vocabolario

 La prima figura su cui vorrei soffermarmi è proprio questa decisiva che ci offre il gesto della costruzione del vocabolario personale:  “Tutti gli uomini dispongono di un certo numero di parole di cui si servono per giustificare le proprie azioni, le proprie convinzioni e la propria vita. Sono le parole con cui esprimiamo stima per gli amici e disprezzo per i nemici, i nostri progetti a lungo termine, le nostre più profonde incertezze su noi stessi e le nostre più grandi speranze. Sono le parole con cui raccontiamo, a volte guardando al futuro e a volte retrospettivamente, la storia della nostra vita.”[9] 
Ognuno di noi possiede il proprio vocabolario, le proprie parole, quelle che ci consentono di esprimere la nostra vita, di definirci, di esibire un’identità, e dunque di raccontarci, di momento in momento, di dare voce alle nostre attese quanto alla nostra memoria, alla nostra indignazione, quanto alla nostra speranza, alle gioie, ai dolori, ai progetti, ai fallimenti. Ogni volta che ci mostriamo al mondo, ogni volta che parliamo di noi, ogni volta che ci mettiamo in questione, di fronte al tribunale della ragione, o nelle sacche delle lamentele, ogni volta non possiamo che servirci di questo vocabolario nel quale sono elencati valori e disvalori, fatti e sentimenti, idee e immagini. Da esso peschiamo, in esso ci orientiamo quando dobbiamo produrre un discorso.
Di fronte a questo vocabolario personale, è possibile adottare un duplice atteggiamento. È possibile, in primo luogo, una forma di accettazione incondizionata che identifica il nostro vocabolario con quello del senso comune e dà così per scontato che esso sia perfettamente valido per comunicare con gli altri, perché capace di ridurre le differenze ad un fondo comune valido universalmente, il fondo contenuto nella risposta alla classica domanda socratica: “Cos’è X?”, cioè la risposta che presuppone un’essenza. Certo non si tratta, propriamente, di trovare l’essenza di ogni concetto, ma semplicemente di ammettere che ogni nostra parola possa essere ridotta ad essenza, perché si riferisce a qualcosa che ha un’essenza. Possiamo, seguendo Rorty, chiamare questo atteggiamento metafisico e vedere in esso il modo d’essere proprio di colui che si rivolge ad un consulente filosofico sottoponendogli un problema la cui soluzione gli sfugge di mano. Costui è convinto che il difetto del suo ragionamento possa essere sanato attribuendo un senso corretto al suo vocabolario (cioè all’insieme, egli direbbe, delle sue parole e dei suoi pensieri), dal quale non riesce a staccarsi, e nel quale vuole invece trovare quella verità che gli manca, ma che deve pur esserci. Quella verità della vita e delle cose che gli impedisce di fare  una scelta importante, o che gli rende così difficile la vita matrimoniale, o professionale, che gli determina quel disorientamento, quel senso di incapacità, dal quale non riesce a liberarsi.
Allora, da questo punto di vista, si tratta soltanto di interrogare concettualmente la realtà perché così facendo si potrà chiarire quel vocabolario che il singolo ha ereditato da un tempo e da una cultura, e che deve in fondo, secondo questa logica, essere soltanto chiarito, rischiarato, attraverso un confronto serio con la realtà delle cose come sono lì fuori. Non avremmo fatica a vedere in questa forma di realismo ingenuo, in questo atteggiamento che, seguendo Rorty, abbiamo chiamato metafisico, non soltanto il più diffuso luogo comune del consultante, ma anche una altrettanto diffusa convinzione operativa della consulenza filosofica. Convinzione pienamente legittima, e nella quale io stesso mi riconosco,  ma non esclusiva, nel senso che essa arroga a sé una verità che può anche essere pensata altrimenti, e che l’esperienza ci spinge a pensare altrimenti. Così come proverò a fare seguendo Rorty.  
Spostiamoci allora sul campo dell’altro atteggiamento possibile di fronte a questo vocabolario personale che ci consente di rappresentarci. Ecco che incontriamo, invece, chi considera il proprio vocabolario come soggetto al dubbio, dubbio che non può essere sciolto attraverso una qualsiasi argomentazione che si serva di quello stesso vocabolario.
Costui non pensa che il proprio vocabolario sia più vicino alla verità di quello degli altri, così come non pensa che si possa trovare una sintesi comune dei vocabolari, tale da fissare un campo di conoscenze definite. Non crede che la parola possa essere ridotta ad una qualche essenza. Egli dunque vive nella “situazione  di chi non è mai del tutto capace di prendersi sul serio perché è sempre consapevole che le parole con cui si autodescrive sono destinate a cambiare, di chi è sempre cosciente della contingenza e fragilità del suo vocabolario, e quindi di se stesso”[10]. Possiamo dunque chiamare costui l’ironico, e altresì possiamo vedervi una prima immagine del filosofo consulente che ha accolto l’idea di mettersi in gioco nell’evento del colloquio. L’ironia, dunque, deve essere intesa come la capacità che tutti possediamo di descrivere e ridescrivere – tornerò su questo termine essenziale - , di farci vedere le cose in un certo modo e al contempo è ciò che ci spinge a chiederci se, a fronte di una difficoltà sopravvenuta, non ci sia un modo migliore di raccontare il mondo, un modo  che ci risulti più funzionale, più efficace, più adatto alle nostre esigenze.
Per l’ironico nulla possiede una essenza rinvenibile dal confronto con la realtà. Ed è quindi costretto a ricorrere ad espressioni come visione del mondo, schema concettuale, prospettiva, per descrivere il campo di valori e di conoscenza su di sé nel quale è inserito. Egli sa che la sua visione del mondo, il suo schema concettuale, cioè il suo vocabolario, gli consentono di presentarsi al mondo, di darsi una realtà privata e pubblica, e allo stesso tempo una autodescrizione, in tutte le situazioni in cui questo sia richiesto. Ma sa anche che ciò non rappresenta una verità assoluta, nè lo specchio di una realtà immutabile. Non si tratta dunque, per lui, di confrontare il suo linguaggio con qualcos’altro, con quello che sta lì fuori, e di ricavare così, in base alla più o meno marcata corrispondenza, un criterio di verità.
Attenzione però a non equivocare, come accade negli ambienti anti-relativisti, che riducono spesso queste formulazioni a slogan molto superficiali, alquanto irreali e quindi più facili da confutare. Che non vi sia una realtà lì fuori in base a cui stabilire la verità assoluta dei miei discorsi, non significa affatto che non ci sia una realtà lì fuori alla quale rapportarsi continuamente. Il nostro discorso, e ancor più il discorso che si produce nel dialogo filosofico, non ha senso senza il riferimento alla realtà vissuta concretamente dall’ospite, il quale piuttosto ha l’onere faticoso di mettere costantemente alla prova quanto realizzato nel dialogo, perché solo dal confronto con l’esperienza vissuta, le proprie affermazioni, il proprio vocabolario, possono acquistare un senso di autenticità.
Al contempo, se guidata da un atteggiamento “ironico” così come inteso qui, il nostro ospite – o noi stessi come filosofi consulenti – non si sentirà per questo autorizzato a pensare che il proprio vocabolario sia definitivamente fondato su una verità oggettiva. Se cadesse in questa trappola, ben presto si ritroverebbe a fare i conti con il proprio disagio, di fronte ai mutamenti della realtà, dei fatti, delle situazioni, per le quali il suo vocabolario apparirà irrimediabilmente invecchiato e inefficace: se ora che ho passato la mezza età continuassi a rapportarmi al mondo con gli stessi termini che mi erano consueti a vent’anni non avrei la possibilità di interpretare adeguatamente il mondo in cui vivo, la mia realtà di oggi, che non è più quella di trenta anni fa. Ma si pensi alla situazione, frequente, in cui un consultante si trova a vivere con difficoltà un passaggio generazionale, per esempio quello dalla fase lavorativa alla fase del pensionamento. Simile passaggio richiede una profonda revisione del proprio assetto esistenziale a partire appunto da una profonda revisione del proprio vocabolario. Quanto era “vero” nella fase precedente appare improvvisamente inadeguato non perché prima fosse falso, ma solo perché ogni vocabolario esige di essere revisionato al mutare della situazione circostante.
In questo senso, possiamo leggere meglio una definizione dell’ironista e del metafisico: “L’ironista è, grosso modo, un nominalista e storicista che cerca di non dimenticare che il vocabolario della deliberazione morale da lui utilizzato è un prodotto della storia e del caso, del suo essere nato in un certo tempo e luogo; il metafisico crede invece nella esistenza di un solo vocabolario della deliberazione morale che si possa dire giusto e corrispondente alla realtà, e in particolare alla nostra umanità essenziale.”[11]
L’ironico, dunque sa di dover essere pronto alla revisione del proprio vocabolario, senza per questo ritenerlo falso. Non bisogna, cioè, cadere nell’errore dello scetticismo , che portato all’estremo rende impossibile l’azione, o la affida ai valori più bassi e inconfessati dell’individuo. L’ironico non è un relativista scettico, è piuttosto individuo capace di mobilità intellettuale e dunque sociale, capace di una riflessività applicata alla propria esistenza e a quelle altrui, “la tolleranza è la principale virtù sociale dell’ironista e la flessibilità la sua più importante virtù privata”[12]
 Il metafisico, invece, ritiene che il problema della sua esistenza si possa affrontare mettendo in discussione i termini più deboli del suo vocabolario, cioè quelli più indefiniti: “vero”, “buono”, giusto”, “persona”, e quindi cerca un’argomentazione logica che possa fare ordine tra le contraddizioni delle sue proposizioni. Proviamo a confrontarci con una precisa situazione dialogica. Immaginiamo un ospite che affermi:
-         Voglio cambiare lavoro, perché questo non mi soddisfa ma non voglio fare cambiamenti che mettano in crisi gli equilibri della mia vita.
Entrambe le affermazioni / convinzioni (voglio cambiare lavoro / non voglio fare cambiamenti), sono plausibili per quanto evidenzino una contraddizione di fatto. Il metafisico prova allora a ragionare su di esse, definendo il termine “lavoro”, facendo luce su cosa significhi “essere soddisfatti”, chiedendosi cosa significa “cambiare”, e su cosa si basino gli “equilibri” e cosa significhi “metterli in crisi” e cosa sia una “crisi”, ecc. Così facendo potrà  interrogare con lucidità la contraddizione insita nella visione del mondo del consultante, e forse finirà per far emergere la sua visione del mondo, o almeno la porterà ad esplicitazione, e quindi ricaverà la sensazione di avere fatto ordine nel vocabolario dell’ospite.  
Il metafisico, in questo modo, attraverso una serie progressiva di scoperte intorno alle questioni chiave dell’esistenza, ha la convinzione di essersi avvicinato alla vera essenza della realtà.
È del tutto possibile che un colloquio filosofico così costruito (“metafisicamente” costruito potremmo dire) realizzi il suo intento preliminare, cioè fare chiarezza intorno al problema proposto. Diciamo pure che spesso una fase del colloquio è proprio questa relativa al chiarimento e alla fissazione dei significati. C’è un momento del colloquio, dunque, nel quale ci dobbiamo comportare come “metafisici” nel senso di Rorty, perché abbiamo bisogno di fissare con ragionevole stabilità il significato essenziale dei termini che usiamo e dei concetti che mettiamo in discussione. Ma anche perché è ciò che, di fatto, sembra chiederci almeno inizialmente, il nostro ospite alla ricerca di una chiarezza che gli sfugge.
Tuttavia se pensiamo che la cosa si esaurisca qui siamo fuori strada. La questione è che nella consulenza filosofica non si tratta semplicemente di fare chiarezza e di risolvere problemi, quanto piuttosto di creare stabili propensioni ad affrontarli. E allora un atteggiamento “metafisico” nel senso descritto, pur sicuramente utile e persino necessario, non è però mai sufficiente.
La persona che abbia ragionevolmente affrontato un percorso di consulenza così “metafisicamente” impostato, e che abbia “fatto chiarezza” intorno al suo problema, potrebbe non essere affatto in grado di affrontare il proprio disagio, e molto probabilmente all’ostacolo successivo si troverà nella necessità di rifare lo stesso percorso e di scoprire nuove verità, e di avvicinarsi ancora di più alla presunta essenza di sé e delle cose. In un movimento di continua interrogazione, di esame, di cura di sé, che rappresenta una delle possibili modalità della vita filosofica.
Ma non la sola.
Torniamo ad osservare l’atteggiamento di quello che abbiamo invece chiamato l’ironico.  L’ironico sa che il proprio vocabolario non rappresenta tanto lo specchio un po’ opaco della natura, cioè il mezzo per avvicinarsi progressivamente ad una ipotetica essenza delle cose, quanto piuttosto una possibilità che si può rivelare, ad un certo punto, inefficace rispetto alla sua vita. Così, nel momento in cui qualcosa in lui produce incertezza, sofferenza, necessità di rivedere il proprio essere, non cerca le ragioni interne nel proprio vocabolario, ma prova  a rinnovarlo.
“Quando cerca un vocabolario decisivo migliore di quello che sta usando al momento impiega, per descrivere il proprio comportamento, le metafore della creazione e non quelle della scoperta, della diversificazione e della novità e non della convergenza verso qualcosa di preesistente.”[13] In questo senso, mentre il metafisico crede nelle argomentazioni e nelle logiche conseguenze del discorso, l’ironico crede piuttosto nella ridescrizione, cioè nella creazione di un vocabolario nuovo nel quale le vecchie domande non trovano risposta semplicemente perché vi risultano improponibili.
Così, se riprendiamo il caso precedente, la questione del cambiare o meno lavoro può trovare una collocazione del tutto diversa, che si riassume in una affermazione di questo tipo:
-         Vivere ogni giorno nel luogo in cui gli altri mi accettano e mi ascoltano ed io posso parlare, è fonte di ricchezza per me.
A questo punto, dunque, non si tratta più di fissare e chiarire significati di un vocabolario vecchio, cioè di quel vocabolario nel quale la domanda iniziale è sorta, e con essa la contraddizione che ha prodotto il disagio. O meglio: la domanda “Devo cambiare lavoro?”, irrisolvibile nei termini precedenti (perché associata al presupposto “Non voglio fare cambiamenti”), non ha più senso. Perché il vocabolario nuovo impone una nuova domanda. E il vocabolario nuovo si rivelerà migliore di quello vecchio se in esso la domanda non sarà più viziata dalla contraddizione (oppure, sarà coinvolta in un sistema di contraddizioni più tollerabile). Nel nuovo vocabolario è diversa la domanda, dunque, prima ancora della risposta. E da essa ne discenderà una analitica del tutto diversa, che metterà in gioco termini nuovi, accettazione, ascolto, possibilità di espressione, ricchezza povertà dell’esistenza ecc.
È chiaro che attribuire in modo rigido l’atteggiamento metafisico al consultante e quello ironico al consulente sarebbe una forzatura inaccettabile. E d’altra parte qui, in generale, non si accoglie la contrapposizione rigida che propone invece Rorty. Entrambi gli atteggiamenti, infatti, si incarnano in ognuno di noi. Ed è altresì vero che abbiamo bisogno di entrambi, in momenti diversi, nelle diverse fasi del colloquio filosofico, ma ciò non significa che i due atteggiamenti siano equivalenti, perché il modo d’essere che abbiamo definito metafisico risulta comunque decisamente meno stabile di quello che abbiamo definito ironico, anche se potrebbe sembrare il contrario. In realtà accade che la pretesa essenzialistica del metafisico finisce per essere continuamente messa in crisi dal succedersi degli eventi e della realtà che ci mostrano quanto le supposte essenze trovate una volta non siano mai veramente tali. E d’altra parte, invece, l’atteggiamento apparentemente più relativistico e, quindi, più instabile, dell’ironico, dovrebbe risultare capace di determinare quell’attitudine alla continua ridefinizione del nostro vocabolario che ci mette in condizione di affrontare le difficoltà. Il metafisico deve ricominciare ogni volta da capo, l’ironico acquisisce un’attitudine[14].
Certo è anche vero che l’atteggiamento ironico dovrebbe essere quello del consulente, innanzi tutto per sé, perché soltanto un atteggiamento di questo tipo rende possibile un confronto sereno con gli altri vocabolari, e scongiura l’idea di cercare fra essi una composizione, una ragione comune sottostante (o trascendente, a seconda dei punti di vista). Il filosofo consulente per fare bene il suo lavoro deve sapere, invece, che ognuno coltiva il proprio vocabolario ma che questo si arricchisce proprio dal confronto e dallo scambio, deve sapere che il destino dell’uomo è quello di passare attraverso una continua ridescrizione di se stesso, cioè attraverso una serie di mutazioni del suo vocabolario, che deve ricreare  ad ogni svolta della sua vita. E in questa operazione è fondamentale il confronto con un altro vocabolario: ecco perché il colloquio filosofico è così importante, perché esso ci mette di fronte un altro vocabolario e così può indurci a quella opera di creazione del vocabolario nuovo di cui noi stessi abbiamo bisogno. Ed ecco infine perché è così importante che il filosofo consulente si sappia muovere come un metafisico, ma abbia adottato una prospettiva ironica, perché è solo alla luce di essa che il confronto può prodursi efficacemente, cioè senza tentazioni universalistiche, trascendentali, essenzialistiche, cioè in definitiva senza illusioni.

Una possibile obiezione: ironia e sincerità.

L’ipotesi dell’atteggiamento ironico come uno dei fondamenti del colloquio filosofico che qui sto sostenendo si espone a una giusta critica alla quale è necessario rispondere immediatamente. Perché appare abbastanza chiaro il rischio che un simile modo di rapportarsi al dialogo potrebbe comportare, che è poi la stessa trappola in cui cade un certo pensiero post-moderno. L’atteggiamento ironico, infatti, portato all’estremo, non contenuto, scivola inesorabilmente in una condizione di profonda e definiva mancanza di sincerità. Non sarebbe più possibile cioè fermare il movimento continuo dei vocabolari, e di conseguenza soprattutto non sarebbe più possibile rinvenire quel margine di coerenza tra convinzioni personali, credenze e desideri, e azioni che noi prendiamo in esame ogni volta che cerchiamo di rispondere alla domanda rispetto alla sincerità di colui che ci sta di fonte (e quindi specularmente anche rispetto alla nostra). Un atteggiamento ironico fuori controllo, senza limite, renderebbe di fatto impossibile per il singolo l’assunzione di responsabilità rispetto alla propria azione. Perché se considero che il vocabolario sia esclusivamente mio e quindi infinitamente ridescrivibile, e non mi rendo conto che esso è invece “nostro” cioè appartiene ad un tempo e a uno spazio, ad una comunità di valori e di significati, ad una rete di relazioni, mi sottraggo tanto alla possibilità di condividere me stesso quanto alla possibilità di agire in modo razionale e indipendente in quella condizione. È vero che io posso continuamente ricreare la descrizione di me, quindi intervenire sul mio vocabolario (è quello che facciamo sempre nella realtà della nostra esistenza), ma è anche vero che il nostro vocabolario è, nello stesso tempo, anche il nostro agire, esso non è soltanto un tessuto di suoni e di significati ma è anche l’insieme dei nostri gesti delle nostre scelte, del nostro muoverci, del nostro toccare, del nostro esserci quotidiano nei rapporti, nei conflitti, nell’economia del dare e del ricevere che costituisce l’esistenza.
In questo senso, dunque, ha ragione Alasdair MacIntyre nel rilevare che il vocabolario assunto in modo ironico per comprendere e giustificare i miei gesti all’interno di una situazione “non è mai semplicemente mio. È sempre nostro.”[15]  Esso, cioè, consiste sempre “di una serie di espressioni condivise esposte a usi condivisi, usi che sono incarnati in una vasta gamma di pratiche comuni di dare e ricevere, in una forma comune di vita”[16]. Se non fosse così, il distacco ironico finirebbe per determinare un prendere le distanze dal nostro linguaggio comune e dai nostri giudizi condivisi e con questo dalle relazioni sociali che presuppongono l’uso di quel linguaggio nel formulare quei giudizi.”[17] Ma non è possibile realmente separare la cautela ironica rispetto al vocabolario che adottiamo (cioè al sistema di valori e significati che ci orienta nella vita), e che esprime il nostro impegno nel mondo, da quell’impegno, cioè dal concreto nostro agire nel mondo, rispetto al quale abbiamo una responsabilità che non può essere annullata da un continuo arretramento, in una continua presa di distanza dal nostro gesto: a questo punto quel che ci può salvare da questo pericolo, è proprio la nozione che io propongo di verità locale[18], cioè una formula che ci consenta di tenere assieme l’ironia in quanto atteggiamento filosofico di continua interrogazione rispetto ad un mondo privo di essenze definitive, e la necessaria adozione di valori, criteri e significati in base ai quali assumere le nostre responsabilità nel mondo: la verità locale è tale per cui so che essa non ha fondamento metafisico e quindi è incollata saldamente al suo tempo, al suo spazio, alla comunità in cui si realizza e alla storia da cui fuoriesce, ma è abbastanza ferma da consentirmi di assumere in base a essa le scelte responsabili che la mia condizione di uomo mi impone e delle quali sono tenuto a rispondere.
Questa considerazione ci consente, insieme, di correggere l’impianto ironico di Rorty senza però accettare la conclusione negativa che ne propone McIntyre, secondo il quale in definitiva “non ogni tempo è un tempo per l’ironia” e dunque “ci sono anche tempi nei quali la critica deve essere messa da parte”[19]. A mio avviso, alla luce della considerazione suesposta, l’atteggiamento ironico è fondamentale per scongiurare il rischio della fissità impropria e inadeguata delle nostre comprensioni del mondo, ma non deve essere tale da rendere impossibile l’assunzione di valori sufficientemente stabili da poter essere presi per punti di riferimento nella vita, nelle scelte, nelle assunzioni di responsabilità.


L’io: rete di credenze


Mano a  mano, dunque, ognuno di noi rinnova le proprie credenze a confronto con le esperienze che la vita propone, o per effetto di inferenze o di metafore, cioè percorsi immaginativi. Quando il rinnovamento diviene consistente si può, secondo Rorty, parlare di un nuovo contesto.
“Questo nuovo contesto può essere una nuova teoria esplicativa, una nuova classe di confronto, un nuovo vocabolario descrittivo, un nuovo fine privato o politico, l’ultimo libro che abbiamo letto, l’ultima persona con cui abbiamo parlato; le possibilità sono infinite.”[21] Si tratta dunque di assecondare questa naturale capacità dell’individuo di rideterminare il proprio contesto, cioè il quadro entro cui sistema le proprie credenze e quindi il proprio agire. Questa risistemazione, è ciò che stiamo chiamando con Rorty “ridescrizione”, e che io ritengo sintetizzi il principale meccanismo di trasformazione indotto dal dialogo filosofico.
È chiaro, però, che tutto questo comporta una profonda e impegnativa revisione della nozione di “coscienza”, in base alla quale possiamo affermare che “non c’è niente di male nel continuare a parlare di un’entità distinta chiamata «l’io», costituita dagli stati mentali dell’uomo: le sue credenze, desideri, stati d’animo, ecc. La cosa importante è pensare che la collezione di quelle cose è l’io, non qualcosa posseduta dall’io.”[22]
È opportuno, dunque, secondo Rorty, liberarsi della tradizionale idea dell’occhio interiore che scandaglia e ispeziona gli stati interni dell’io. Al suo posto è possibile pensare in modo più efficace e più coerente con l’esperienza, l’immagine della rete di credenze e desideri che continuamente si ritesse a contatto con la vita vissuta, con nuove esperienze, con nuove credenze e nuovi desideri. È certamente molto complesso ripartire da questa nozione rinnovata di coscienza senza più un “vero io” proprietario di credenze e desideri, senza più un “centro dell’io” da identificare e raggiungere e addomesticare. Da questo punto di vista dire che l’io non è qualcosa che possiede credenze e desideri, ma è piuttosto la rete di tali credenze e desideri, comporta anche dire che “possedere una credenza o un desiderio significa possedere un filo di un vasto ordito”[23], ciò che qualunque filosofo consulente ha sperimentato nel corso di ogni dialogo filosofico, venendo a contatto con la labirintica disposizione di argomenti e di racconti attraverso i quali ogni consultante prova a collocare se stesso nel dialogo. In questa rete caotica il filosofo prova non solo a portare un po’ d’ordine e di chiarezza, ma anche a determinare una qualche mutazione che consenta al consultante di affrontare al meglio il proprio disagio. Si tratta dunque di realizzare una forma di persuasione – ma dal punto di vista del consultante, non da quella del filosofo! – tale persuasione determina la ridescrizione, cioè la revisione radicale della rete di credenze che costituisce il nostro io.
Così, “una volta che si rinunci ai tentativi metafisici di trovare un «vero Sé» per l’uomo, possiamo continuare a parlare nella veste dei Sé storici contingenti che scopriamo di essere.”[24]


Percezione, inferenza, immaginazione.


Ho già accennato al fatto che la prospettiva della consulenza filosofica è quella che punta alla ridescrizione dell’ospite, cioè ad un suo cambiamento inteso come una nuova tessitura della rete delle credenze e dei desideri che lo individualizza.
Ma come ciò può accadere? In che modo una nuova credenza si aggiunge e si colloca accanto o in sostituzione di quelle precedenti? È una domanda essenziale per il filosofo consulente che lavora proprio in vista di questo. In che cosa consiste, in definitiva, l’invenzione di nuovi vocabolari? Consiste nell’”introduzione di nuovi modi di parlare, giudicati in quel momento più efficaci o comunque preferibili a quelli in vigore”[25], nuovi modi di parlare che consentono di fare cose nuove o di fare diversamente le cose che si facevano prima. Chiariamo subito: non bisogna credere che la soluzione dei problemi del consultante sia circoscritta alla sfera linguistica, non è una soluzione puramente linguistica. Certo essa si realizza nella dimensione del dialogo, ma la trasformazione che avviene nei vocabolari si getta nella realtà della vita, nei gesti, nelle azioni, nelle decisioni, nelle scelte della persona.
Secondo Rorty vi sarebbero tre modi per aggiungere una credenza nuova: la percezione, cioè il rapporto diretto con l’esperienza del mondo, l’inferenza e la metafora.
Sia la percezione del mondo che l’inferenza impongono una revisione almeno parziale della rete delle credenze fra le quali deve trovare posto quella nuova derivata dall’esperienza o realizzata per inferenza da quelle precedenti. Entrambe, tuttavia lasciano inalterato il nostro linguaggio.  In questo senso percezione e inferenza sono sufficienti se pensiamo che il lavoro della filosofia sia essenzialmente quello della chiarificazione,  e ciò equivale, secondo Rorty, ad “assumere che il linguaggio che noi parliamo attualmente sia, come è sempre stato, tutto il linguaggio che esiste, tutto il linguaggio di cui potremo avere bisogno.”[26]
Ma c’è una terza possibilità di allargare il campo delle credenze: la metafora. L’uso della metafora comporta invece l’idea del linguaggio come “lo spazio logico e il dominio del possibile senza limiti predeterminati”[27], in questo senso la metafora si realizza come “un appello alla trasformazione del proprio linguaggio e della propria vita”[28].
Questo ruolo essenziale attribuito da Rorty alla metafora, lo porta ad una iper-valutazione del ruolo della poesia in Heidegger e ad una rivalutazione esplicita del Romanticismo, inteso come quell’esperienza culturale e artistica che attribuisce un ruolo fondamentale all’immaginazione. Vale la pena di soffermarsi un momento su questo passaggio che mi pare essenziale per la consulenza filosofica, ma anche foriero di significative incomprensioni.
Che nel dialogo filosofico ci si serva di tutte e tre le possibilità per rivedere e arricchire il sistema delle credenze dell’individuo – la sua visione del mondo come spesso si usa dire[29] – è cosa certa, almeno per la mia esperienza. Vi è dunque lo spazio non solo per un serrato confronto con la realtà, e per un accurato lavoro inferenziale, ma anche per una dimensione metaforica, come la chiama Rorty, ove però è il caso di precisare che non si tratta semplicemente – e banalmente – di “fare poesia”, di usare il linguaggio attraverso formulazioni estetizzanti secondo un modello piuttosto new age, quanto piuttosto di rendersi conto che la produzione di concetti filosofici non è, come talvolta si crede, soltanto un fatto logico, ma altrettanto una questione immaginativa.  La questione è delicata e merita un approfondimento per il quale mi servirò di una articolata riflessione contenuta nell’ultimo volume dei Philosophical Papers di Rorty.
In Pragmatism and Romanticism[30], Rorty sostiene che la differenza tra le cose intese in senso ordinario e la Realtà della metafisica è che quando, nella vita quotidiana, impariamo a usare una parola, impariamo anche una serie di verità intorno ad essa. Invece la Realtà metafisica pretende di dire l’ultima parola sulla realtà. E se l’Ontologia resta viva è solo perché siamo riluttanti ad accettare l’argomento centrale dei Romantici: che l’immaginazione fissa i confini del pensiero. In realtà, afferma Rorty, “l’immaginazione è la fonte del linguaggio e il pensiero è impossibile senza il linguaggio”[31]. Certo, se accettiamo questa idea dobbiamo accettare anche una diversa idea di Ragione, non più intesa come una caccia alla verità, ma piuttosto come una pratica sociale: essere razionale, allora, è solo conformarsi a una serie di norme sociali per l’uso delle parole. Bisogna dunque intendere l’immaginazione,  come prima la metafora, non tanto come una creazione di immagini fantastiche, ma prima di tutto come la capacità di cambiare pratiche sociali proponendo e realizzando nuovi usi delle parole. È proprio così che il linguaggio si arricchisce e non resta sempre uguale a se stesso. È così che si superano continuamente le soluzioni passate, e si incrementa la conoscenza. Anche se tale incremento non può essere inteso come un progressivo avvicinamento al reale, ma come uno sviluppo delle capacità di realizzare pratiche sociali utili alla vita umana. Non si tratta dunque di porsi in una relazione tra umano e non umano (il Reale, la Verità, Dio), ma di cogliere piuttosto la relazione tra l’umano del passato e l’umano del presente, per cui il valore dell’immagine del cosmo offerta da Copernico va rivalutata non tanto in funzione della sua capacità di descrivere il cosmo come veramente è, ma piuttosto un funzione della sua superiore capacità di dare risposte utili alla comprensione, all’interpretazione e alla vita in generale, rispetto alla precedente visione tolemaica.
In generale, dunque, la lettura di Rorty – che si immagina a capo di una linea su cui pone Nietzsche, Wittgenstein, Sellars, Davidson e Brandom – aiuta a rendere plausibile l’affermazione del Romanticismo che la natura è un Poema che gli uomini stessi hanno scritto, che la ragione può solo seguire i percorsi aperti dall’immaginazione e può solo riarrangiare elementi che la ragione stessa ha creato.
L’immaginazione, così, dà origine al gioco giocato dalla ragione: perché senza immaginazione non c’è linguaggio, e senza confronto linguistico non c’è progresso morale e civile. In questo senso, secondo Rorty, l’immaginazione ha la priorità sulla ragione.”[32] Questa affermazione, tuttavia, non va enfatizzata oltre misura, essa, mi pare, significa principalmente che il Romanticismo – e sulla sua scorta Nietzsche, Wittgenstein, ecc.- mina l’assunzione propria a Platone quanto a Kant che vi sia sempre “il miglior argomento”, cioè quello dotato di validità universale. I Romantici invece sono convinti che qualsiasi argomentazione si debba concludere con i puntini di sospensione e non con il punto fermo.
Ecco allora ribadita la tesi centrale di Rorty: che il pragmatismo, cioè la filosofia come lui la intende, deve essere visto come un’alternativa tra il razionalismo della “validità universale” e il ricorso a dimensioni altre dalla ragione, la poesia, la religione, la pura fantasia…
Qui si inserisce il confronto con Habermas, il quale critica Rorty proprio quando questi nega che la validità universale sia un obiettivo della ricerca e lo accusa di sostituire “l’aspirazione all’oggettività con l’aspirazione alla solidarietà all’interno della comunità linguistica”[33], ma per restare in questa logica in cui la verità delle affermazioni è legata al contesto, egli si troverebbe costretto a “evitare qualsiasi idealizzazione e, ancor meglio, rinunciare anche al concetto di razionalità; infatti razionalità è un concetto limite avente un contenuto normativo che oltrepassa i confini di ogni comunità locale in direzione di una comunità universale.”[34]
Secondo Rorty, invece, la nozione di ragione comunicativa che appartiene allo stesso Habermas, e nella quale egli si riconosce, cioè una ragione come pratica sociale che fa emergere la verità dal dialogo, rende superfluo l’utilizzo della nozione di validità universale[35]. Il rifiuto della metafisica per Rorty, l’ho detto, contiene il rifiuto della validità universale, mentre Habermas resterebbe alla ricerca – vana – di una nozione non metafisica di validità universale.
In questo senso Rorty non rinuncia affatto alla nozione di ragione, certo la rivede profondamente. “Dal punto di vista pragmatista – egli afferma -, la razionalità non è l’esercizio di una facoltà chiamata «ragione», una facoltà che intrattiene una qualche determinata relazione con la realtà. Né si identifica con l’uso di un metodo. Essa è semplicemente un modo di essere aperti e curiosi e di affidarsi alla persuasione invece che alla forza.”[36]
È questa forse la nozione più originale e impegnativa che Rorty ci propone revisionando la nozione di razionalità in base alla sua tesi di riferimento ovvero la critica antiessenzialista e la conseguente ripresa della prospettiva che egli chiama pragmatista e la riconsiderazione del ruolo del linguaggio vissuto dialogicamente.  
L’insieme di queste componenti lo porta ad una nozione di razionalità di natura sociale: “Siamo semplicemente animali che possono parlare, che possono quindi apprezzarsi o accusarsi l’un l’altro, discutere su ciò che si dovrebbe fare e istituire delle pratiche sociali per controllare che sia fatto. Quello che ci eleva al di sopra degli altri animali è semplicemente la nostra capacità di partecipare a queste pratiche.”[37]
Da questo punto di vista, dunque, essere razionali non significa affatto essere in grado di risalire a una verità stabile, definitiva, universale, quanto piuttosto consiste semplicemente nell’essere socievoli.
Con ciò, Rorty si ritrova perfettamente in una distinzione che appartiene proprio ad Habermas, tra una ragione centrata sul soggetto e impegnata nella ricerca di specularità con il reale, e una ragione comunicativa e dialogica. Il passaggio dall’una all’altra rappresenta la svolta fondamentale del nostro tempo. “A me – sostiene Rorty – questo sembra un cambiamento paragonabile, per importanza, al passaggio da una prospettiva cristiana e aristotelica a una atea e galileiana. È un cambiamento che non ci fa più chiedere “Quali dei miei concetti, delle mie distinzioni, delle mie pratiche sono correlati al reale?” ma, casomai, “In che misura li condivido o posso condividerli con altre persone?”; ci fa passare dall’amore per una verità concepita come relazione corretta con la realtà al bisogno di una giustificazione concepita come relazione con altri esseri umani.”[38]



Cambiamento del paradigma

Non dimentichiamo mai che la nostra prospettiva d’indagine è strettamente legata al rapporto tra la filosofia pragmatista di Rorty e la pratica filosofica. E dunque ritorniamo alla domanda iniziale e cioè come sia possibile agire dialogicamente nella prospettiva di una ridescrizione dell’ospite, ovvero di un cambiamento inteso come una nuova tessitura della rete delle credenze e dei desideri che lo individualizza.
Riassumendo ciò che abbiamo detto, tale cambiamento può avvenire  realizzando un nuovo insieme di atteggiamenti rispetto a condizioni già presenti. È il caso di quel procedimento logico che si chiama inferenza, ma è anche il caso in cui, fissate delle verità locali, si riesamina la propria biografia e la propria condizione di vita attuale alla luce dei nuovi punti di riferimento (se improvvisamente scopro che il mio punto di riferimento è un’idea di libertà come libertà di scelta, allora riesamino i miei problemi familiari alla luce di questo punto fermo e scopro ad esempio che certi miei comportamenti improvvisamente riacquistano senso, ecc.). Oppure il cambiamento può avvenire  realizzando atteggiamenti nei confronti di nuovi valori di verità (rispetto ai quali prima non avevo atteggiamenti di alcun tipo). È il caso di quel procedimento che chiamiamo dell’immaginazione. Ove per immaginazione dobbiamo intendere ad esempio i nuovi usi metaforici di vecchie parole, oppure l’invenzione di neologismi, o ancora il collegamento tra testi, concetti ed emozioni mai posti prima in correlazione.
Il processo della ridescrizione determina la trasformazione che appartiene al colloquio filosofico come suo elemento. Ma per comprenderne meglio la dinamica, è forse possibile operare una ardito parallelo con la nozione di paradigma, elaborata da Hans Kuhn[39], perché è facilissimo constatarne la straordinaria somiglianza con ciò che accade all’interno della consulenza filosofica.
Dunque, seguendo Kuhn possiamo pensare i paradigmi come quelle conquiste conoscitive pienamente riconosciute, ovvero pienamente accolte, appropriate, dal singolo il quale attraverso il suo paradigma – la sua rete di credenze, la sua visione del mondo -  si dota dello strumento necessario per vedere il mondo, interpretarlo, agire in esso. Il paradigma mi dice come rapportarmi al mondo e mi fornisce il modello entro cui collocare tanto i miei problemi, quanto le possibili soluzioni di essi. Tuttavia nel corso dell’esistenza  può capitare che si percepiscano delle anomalie nel paradigma, a fronte di fatti rilevanti che accadono, oppure per conseguenza del confronto tra i fatti e la teoria contenuta nel paradigma. E le anomalie possono mettere in crisi il paradigma che può mostrare improvvisamente la sua insufficienza. Si percepisce cioè che qualcosa non funziona. Dalla crisi del paradigma nasce l’esigenza di nuove teorie. Il primo momento si escogitano magari articolazioni e modificazioni parziali alla teoria per far rientrare in essa le anomalie, ma se la crisi non rientra può portare alla necessità di una radicale rielaborazione del paradigma stesso.  Così si avvia un momento di transizione che richiede la ricostruzione del campo su nuove basi (la ridescrizione di cui si è detto).
Qui si innesta la necessità della filosofia, tanto per lo scienziato quanto per il singolo rispetto alla sua esistenza, perché l’analisi filosofica può fornire gli strumenti razionali per affrontare gli enigmi del campo. Dal momento che la crisi allenta gli stereotipi e fornisce così dati supplementari per la ricostruzione del paradigma che vanno però gestiti adeguatamente, attraverso una pratica riflessiva. La crisi, inoltre, porta a mettere in discussione i fondamenti e ciò implica la messa in questione del campo dei valori e delle scelte e questa è materia in cui il discorso filosofico è competente.
Quando un vecchio paradigma è sostituito con uno nuovo si ha, secondo Kuhn la rivoluzione scientifica, nel nostro caso possiamo parlare di ridescrizione. Ma ciò non toglie che la ridescrizione possa avere il valore di una vera e propria “rivoluzione”, quando si rende necessaria una scelta tra forme incompatibili, e le forme incompatibili possono imporsi solo con un atto di forza, perché ogni paradigma è difendibile solo in base a se stesso.
Quando muta il paradigma, muta il mondo stesso insieme ad esso. Perché, guidati da un nuovo paradigma, si guarda in nuove direzioni e si adottano nuovi strumenti, e anche gli oggetti familiari sono visti sotto una luce nuova. Sebbene il mondo non cambi per un mutamento di paradigma, l’individuo si ritrova però a vivere in un mondo differente. Non si tratta solo di interpretazioni diverse di una natura immutabile e neutra, un nuovo paradigma, infatti, rende possibili nuove esperienze (per restare agli esempi di Kuhn, Aristotele vede solo corpi che cadono, Galileo, vede il pendolo, ecc.).

 

Creare / Scoprire

Abbiamo visto come, all’interno del colloquio, si realizzi un movimento di trasformazione che ha varie connotazioni, una delle quali è questa che sto cercando di approfondire: cioè il movimento della ridescrizione, il cambiamento della visione del mondo, la mutazione dei paradigmi che costituiscono una esistenza.
Secondo Rorty questo ci pone di fronte ad una questione chiave, che egli sintetizza affermando che “siamo creature storiche, che si riaffermano continuamente ridescrivendosi”[40], in questo senso non abbiamo altra scelta che quella di ridescriverci continuamente, perché continuamente sottoposti alla contingenza della realtà, degli incontri, delle pressioni, dei contatti, delle esigenze, dei desideri, ecc., certe nostre soluzioni si rivelano inesorabilmente provvisorie, altre sembrano più durature, ma non abbiamo certezza che valgano all’infinito. Nella nostra pur breve esistenza, l’imprevedibile varietà dei fatti che ci circondano e degli eventi nei quali siamo coinvolti, ci costringe ad una approssimazione continua, ad una manutenzione quotidiana dei nostri vocabolari, cioè delle nostre credenze, dei nostri desideri, dei nostri progetti,  della nostra visione del mondo. In questo stato di cose, se vogliamo trovare davvero una coerente immagine di noi stessi, la troviamo solo se “ci contentiamo di concepire ogni vita umana come quel ritessere sempre incompleto, eppure talvolta eroico, di una trama.”[41]
Da questo punto di vista, per Rorty anche il diventa ciò che sei di Nietzsche, è da intendersi appunto come una forma di auto descrizione: “Nel senso in cui la intendeva Nietzsche l’espressione «chi si è veramente» non significa «chi in realtà si è sempre stato», ma «ciò che si è fatto di se stessi mentre si creava il gusto in base al quale si è arrivati, poi, a giudicarsi».”[42] E ugualmente su questa base Rorty riprende il tema del progetto come appare ad esempio in Heidegger e in Sartre. In linea generale, egli ritiene che il rifiuto dell’essenzialismo apra uno spazio di possibilità nel quale l’uomo non solo deve entrare ma soprattutto deve trovare la forza per esserci, per costruirsi costantemente, per dare vita a se stesso, passo dopo passo, giorno dopo giorno, scelta dopo scelta, “ci sarà sempre spazio per l’autocreazione, perché nessun precedente atto di auto creazione può essere ratificato da una qualche autorità non umana.”[43]
Per comprendere ancora più a fondo questo passaggio, soprattutto in funzione del dialogo filosofico, può essere utile riflettere sulle metafore della creazione e della scoperta, per approfondirne alcuni aspetti che mi paiono essenziali allo scopo. E per farlo mi servirò di un altro autore, George Steiner, il quale si è occupato con ricchezza di elaborazione e infinita vastità di conoscenze proprio di questo di tema nell’opera Grammatiche della creazione, ove per grammatica egli intende “l’organizzazione articolata della percezione, della riflessione e dell’esperienza, i percorsi nervosi della consapevolezza quando comunica con sé stessa e con gli altri”[44], offrendone così una definizione che non si allontana molto da quella di vocabolario che abbiamo mediato da Rorty. Certo, c’è uno scarto da una dimensione più immediatamente individuale, quella del vocabolario, ad una prospettiva più spostata sul versante della comunità culturale e linguistica, ma non è molto importante per noi che operiamo in entrambi i casi un viraggio forzato verso la specifica dimensione del colloquio filosofico e quindi della singolarità condivisa nel dialogo.
In secondo luogo va chiarito che Steiner ragiona intorno ad una contrapposizione tra creazione e invenzione laddove invece Rorty contrappone creazione e scoperta. Ma anche su questo, almeno al fine del nostro ragionamento, è possibile trovare un compromesso onorevole. Il termine “invenzione” (come l’inglese invention) infatti, viene dal latino invenire che contiene in sé il senso del “trovare”. La connessione semantica fra invenzione e scoperta è, in questo senso ben chiara e lo stesso Steiner la mette in evidenza[45]. D’altra parte lo sfondo di entrambi i termini, ciò che li distingue dalla dimensione creativa, sta nel fatto che essi implicitamente suppongono una preesistenza, una realtà che li precede e che li rende possibili: inventare e scoprire sono appunto gesti possibili perché c’è già un mondo alle spalle che si tratta nel primo caso di rielaborare, nel secondo di portare alla luce.
Ancora una volta va detto che, al di là delle formulazioni teoriche, è l’uso che ci guida nel distinguere i termini in questione: nessuno direbbe che Dio ha “inventato” o “scoperto” l’universo, né che Picasso abbia “inventato” Guernica. Creare infatti non è inventare, non è scoprire. Così egualmente è per noi immediato l’atto mentale con il quale associamo l’inventare alla dimensione della “forma” (si inventano nuovi modelli poetici o nuove soluzioni coloristiche o armoniche, o nuove forme retoriche…) e il creare a quella del “contenuto”. Per quanto poi sappiamo bene che forma e contenuto non sono affatto separabili e l’uno dà vita all’altro, e che ogni creazione umana avviene in realtà a partire da ciò che esiste, da una tradizione, da un linguaggio, da una grammatica, da un vocabolario personale. In questo senso invenzione e creazione sono concetti che tendono a sovrapporsi parzialmente e a confondersi, conservando tuttavia un margine di differenza nel quale dobbiamo entrare. È proprio percorrendo questo margine che Steiner può offrirci una definizione essenziale della creazione come “una libertà attuata che include ed esprime nella sua incarnazione la presenza di ciò che in essa è assente o di ciò che sarebbe potuto essere radicalmente altro.”[46] In base a questa prospettiva, dunque, l’atto creativo è innanzi tutto un atto di libertà, e in secondo luogo esso conserva, marchiata su di sé la sua condizione di radicale contingenza, cioè il fatto che avrebbe potuto essere diverso o addirittura non essere affatto. Già qui appare chiara la possibilità di un trasferimento dell’argomentazione nella situazione del colloquio filosofico il quale ugualmente si fonda sulla possibilità di un agire libero (cioè non costretto, non determinato rigidamente dalla situazione ambientale o giuridica, o logica o psichica della persona) e da una condizione di contingenza radicale. Tuttavia se ci atteniamo al campo del linguaggio, il mezzo nel quale il colloquio avviene, comprendiamo facilmente come la libertà del gesto creativo trovi il suo limite nel fatto che ogni creazione (ogni ridescrizione, ogni messa in cantiere di un vocabolario nuovo) non può che realizzarsi sulla preesistente potenzialità del linguaggio, cioè della densità storica dei significati, che rende possibile una infinita combinatoria che non ci fa mai uscire dal linguaggio medesimo.
Ma se le cose stanno così, come è possibile pensare in modo nuovo? Cioè creare una ridescrizione che renda possibile affrontare diversamente un evento, una fase della mia vita? Considerata la posta in gioco nel colloquio, l’esistenza stessa, la sofferenza, il disagio, la sua possibilità, si comprende come la domanda contenga in sé una sfumatura drammatica. Ma se in fondo noi operiamo sempre con lo stesso materiale, ci esprimiamo sempre con parole vecchie, entro un campo semantico che ci appartiene e al quale apparteniamo, come possiamo avere la certezza di trovarci di fronte ad un pensiero nuovo?
La necessità di scegliere e utilizzare le metafore della creazione piuttosto che quelle della scoperta o dell’invenzione che abbiamo messo in campo seguendo Rorty e Steiner, appare dunque piuttosto come una pretesa difficilmente realizzabile, o meglio, una pretesa necessaria, anche se intimamente sappiamo che ogni ridescrizione è soltanto una ulteriore combinatoria del mio vocabolario essenziale. D’altra parte qui si tratta di usare le metafore della creazione non propriamente di creare: perché sappiamo che una creazione in senso stretto, cioè assoluta, ex nihilo, non è umana, è quella che appartiene soltanto al Dio o, forse, al folle. A noi resta la facoltà di imitare quel gesto, usando metafore che lo evochino, anche se sappiamo che la dinamica della creazione nel mondo umano è ben diversa, molto più implicata alla dimensione inventiva e a quella della scoperta. Possiamo, anzi, dobbiamo, ironicamente porci nelle vesti del creatore quando elaboriamo il nostro nuovo vocabolario per affrontare le difficoltà dell’esistenza.
Questa condizione assomiglia terribilmente a quella che si realizza nel mondo della letteratura, ove noi abbiamo soltanto una serie infinita di variazioni rispetto ad alcuni temi essenziali, la ricerca, il ritorno a casa, l’assedio, la discesa agli inferi… Essa dunque, a dispetto delle proprie esplicite pretese di creatività e originalità è piuttosto il dominio dell’invenzione (e della scoperta nel senso indicato precedentemente). Ma questo riferimento esemplare alla letteratura ci è ancora utile. Perché è difficile non essere d’accordo con Steiner quando rileva la profonda e insieme sottile congruenza tra l’invenzione letteraria e la natura del personaggio, dell’homo fictus che essa produce. Di costui, Ulisse o Don Giovanni, Chisciotte o Madame Bovary, ben sappiamo che non ha la stessa consistenza di coloro che ci siedono a fianco in treno, eppure la loro  “realtà” può invadere la nostra coscienza con “un impatto visivo e una memorabilità del tutto sproporzionati rispetto a ciò che definiamo «reale» o tangibile”[47]. È un fatto che il personaggio della letteratura possiede un’energia descrittiva, una capacità di presentazione, una identità definita ben più ampia e realizzata di quelle della maggior parte di noi. Tanto da spingere all’immedesimazione o anche all’imitazione: in età romantica si imitava il Werther di Goethe, oggi più facilmente il personaggio attore o cantante o sportivo (che non è meno “personaggio”, si badi, perché nasce e cresce nel dominio para-letterario dei mass media, non nella realtà).
Certo, nel momento in cui l’artista, il poeta, lo scrittore, dà vita al suo personaggio, egli sta mimando l’atto divino della creazione. Ma noi sappiamo che si tratta, appunto, solo di una imitazione.
Ma torniamo nel colloquio filosofico perché è qui che dobbiamo riportare l’esito del nostro percorso. Posto che in esso noi assistiamo ad un confronto continuo e necessario tra due diversi atteggiamenti, quello metafisico e quello ironico, e posto, ancora, che vorremmo far prevalere in definitiva, l’atteggiamento ironico, abbiamo poi messo in luce come la ridescrizione del proprio vocabolario debba essere intesa più come una creazione che non come un semplice recupero o ricollocazione di elementi già esistenti. Abbiamo fatto osservare come questa pretesa, che noi sappiamo in fondo essere insostenibile, debba tuttavia essere tenuta ben ferma. Ed infine abbiamo notato come un simile gesto creativo di ridescrizione del proprio vocabolario si confonda con il gesto attraverso il quale la letteratura elabora il personaggio.
E qui nuovamente ci dobbiamo fermare. Che cosa intendo dire? Che nel colloquio filosofico si tratta di configurare un nuovo personaggio? L’obiettivo più alto del colloquio filosofico è forse, al di là di ogni illusione di saggezza, o della realizzazione di un supposto saper vivere, o della ricerca della serenità e dell’equilibrio, è forse soltanto la creazione di un nuovo personaggio? La questione va approfondita a partire da questa domanda. Ma lo farò in un’altra occasione.



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[1] G. Achenbach, La consulenza filosofica, Milano, Apogeo, 2004, p. 15, (ed. originale 1987).
[2] Un tipo di lettura, per altro, condiviso e sostenuto dallo stesso Rorty, che afferma recisamente: “Io scelgo semplicemente le idee che voglio usare dal testo del filosofo e ignoro il resto della sua vita e del suo lavoro” (R. Rorty, Verità e libertà. Conversazioni con Richard Rorty. Il testamento spirituale di uno dei principali filosofi americani, Massa, Transeuropa, 2008,  p.106, ma vedi anche “On Heidegger’s Nazism” in R. Rorty, Philosophy and Social Hope, New York, Penguin, 2000).
[3] R. Rorty, Scritti filosofici, vol. I, Roma-Bari, Laterza, 1994, p.3
[4] A. G. Gargani, Il soggetto di credenze e desideri, in R. Rorty, Scritti filosofici vol. I, cit., p. XI
[5] Ibidem
[6] R. Rorty, Verità e libertà, cit., p. 123
[7] A. G. Gargani, Il soggetto di credenze e desideri, cit., p. IX
[8] Ivi, p. X
[9] Richard Rorty, La filosofia dopo la filosofia, Roma-Bari, Laterza, 2001 (ed. or. 1989), p. 89. Ma si veda in particolare tutto il cap. 4: “Ironia privata e speranza liberale”.
[10] Ivi, p. 90
[11] R. Rorty, Verità progresso. Scritti filosofici, Milano, Feltrinelli, 2003, p. 373
[12] Ivi, p. 81
[13] Ivi p. 94
[14] Sottolineo solo di sfuggita che l’acquisizione di un’attitudine è il gesto che porta alla determinazione della virtù. Dovrebbe già apparire, dunque, come il movimento “ironico” del colloquio filosofico abbia per sfondo una formazione morale. Ho cominciato a sviluppare questo tema nel saggio  La chiave della saggezza e della virtù nel colloquio filosofico, in "Phronesis", a. VII, n. 12, aprile 2009, pp. 12-27
[15] A. McIntyre, Animali razionali dipendenti, Milano, Vita e Pensiero, 2001, p. 150
[16] Ibidem
[17] Ibidem
[18] Rimando per un approfondimento di questo tema ad altre mie opere, in particolare Introduzione alla vita filosofica. Consulenza filosofica e vita quotidiana, Milano, Mimesis, 2010, e L’esperienza della filosofia, Milano, Apogeo, 2007
[19] A. McIntyre, Animali razionali dipendenti, cit., p. 152
[20] R. Rorty, Scritti filosofici, vol I, cit., p. 128
[21] Ivi, p. 129
[22] Ivi, p. 163
[23] Ivi, p. 164
[24] Ivi, p. 288
[25] Manconi, Dopo la svolta linguistica, in R. Rorty, La svolta linguistica, Milano, Garzanti, 1994, p. 11
[26] R. Rorty, Scritti filosofici, vol. II, Roma-Bari, Laterza, 1993, p. 19
[27] Ivi, p. 19
[28] Ibidem
[29] Ci sarebbe parecchio da chiarire in merito all’uso, assai diffuso tra i filosofi consulenti, della nozione di visione del mondo, introdotta da Ran Lahav il quale però la intende essenzialmente come ”uno schema astratto che interpreta la struttura e le implicazioni filosofiche della concezione che  un individuo ha di se stesso e della realtà” (R. Lahav, Comprendere la vita, Milano, Apogeo, 2004, p. 14), cioè secondo una prospettiva kantiana, ovvero essenzialista che qui, sulla scorta di Rorty si sta mettendo in discussione. A mio parere invece il solo modo di intendere efficacemente questa espressione è appunto come sinonimo della rete di credenze. 
[30] R. Rorty, Pragmatism and Romanticism, in Philosophy as cultural politics, cit.,  pp.   105-119
[31] Ivi, pp. 106-107
[32] Ivi, p. 115
[33] J. Habermas, Il pensiero post-metafisico, Roma-Bari, Laterza, 1988,  p. 172
[34] Ibidem
[35] Cfr. R. Rorty, Philosophy as cultural politics, cit., p. 78
[36] R. Rorty, Scritti filosofici, vol. I, cit., pp. 80-81
[37] R. Rorty, A sinistra con Heidegger, in «Micromega, n. 5/2011, p.37
[38] R. Rorty, Verità e progresso, cit., p. 267
[39] cfr. T. S. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Torino, Einaudi, 1999
[40] R. Rorty, A sinistra con Heidegger, cit., p. 31
[41] R. Rorty, La filosofia dopo la filosofia. Contingenza, ironia, solidarietà, Roma-Bari, Laterza, 2001,  p. 54
[42] R. Rorty, La filosofia dopo la filosofia, cit., p. 120
[43] R. Rorty, Verità e libertà, cit., p. 74
[44] G. Steiner, Grammatiche della creazione, Milano, Garzanti, 2003, p.11
[45] Ivi,  p. 103
[46] Ivi, p. 124
[47] Ivi, p. 152

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