Fotografare Mestre, per esempio, non è certo come fotografare Parigi o l'America degli anni '30, è un'altra cosa, qui non c'è la complessità di un mondo vasto e vario, di una umanità plurale, in fermento, in conflitto, c'è piuttosto la ripetizione ossessiva e monotona degli edifici, c'è un solo luogo, un luogo qualunque, forse un non-luogo, i particolari sono la ripetizione del particolare, le prospettive sono la ripetizione di una prospettiva, per cui una strada si fonde con l'altra, in una linea di orizzonte comune, altezze, volumi, a est come a ovest a nord come a sud.
Eppure anche la città monotona, anche la città ripetizione, anche la città anonima ha la sua identità e non può non averla. Ma bisogna cercarla in fondo, bisogna vederla in controluce, bisogna davvero sapere che ogni spazio è un tempo e ogni tempo uno spazio, ed è questo che il fotografo deve riuscire a cogliere, altrimenti le foto si perdono nel nulla di una città senza forma.
In effetti Mestre è un gioco di specchi, una città che viola le tre dimensioni dello spazio. Forse è un intersezione visibile di un campo a 11 dimensioni, uno spazio di Calabi-Yau (credo che si chiamino), come quelli che contraddistinguono la teoria delle stringhe. Parti da un punto e dopo diversi cavalcavia e curve ti ci ritrovi, mentre credevi di essere altrove. E' come il nostro mondo: è la periferia di se stesso. Come Dio nei sufi: alcunché che appare diverso da sé perché fa velo a se stesso
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